Paura di innamorarsi
I giovani hanno paura di innamorarsi?
I “meno giovani” stanno iniziando ad avere paura di innamorarsi?
Leggendo Le postromantiche di Carolina Bandinelli (Laterza, 2024) sembrerebbe di sì.
L’autrice imposta il suo saggio, scritto in modo brillante e informale, come una ricerca che da una prospettiva femminile prova a interrogarsi e a interrogare sul significato e il valore che ricopre attualmente l’amore.
Lo fa attraverso una lettura della sua adolescenza passando poi per il ’68, in cui sono state riscritte le regole del sesso e dell’amore e infine analizzando le tendenze e i comportamenti delle nuove generazioni.
La parte introduttiva ha un titolo che è già evocativo: È amore se ti travolge. L’autrice racconta dei suoi primi amori, dello strazio, dell’angoscia, delle emozioni incontenibili. L’amore-sofferenza, il piacere per un dolore che si fa varco esistenziale e che consente di accedere a un’altra dimensione, quella della Verità, reale o presunta.
“L’espressione inglese to fall in love cattura il potenziale rovinoso di questo legame. C’è una vitalità festosa, ma anche un rischio oscuro: l’amante si può perdere, può impazzire (l’amore romantico è amore folle), non solo il suo equilibrio ma la sua stessa esistenza sono in pericolo.”
Abbiamo atteso telefonate, guardato soffitti, scritto poesie e fumato una sigaretta dietro l’altra. Più eravamo tormentate più ci consideravamo vive. La nostra bibbia era Frammenti di un discorso amoroso di Barthes. Le audaci peripezie e l’enfatizzata sofferenza dell’autrice mi hanno strappato più di un sorriso; entrambe Millenials (nate tra gli inizi degli anni ’80 e la metà degli anni ’90) condividiamo, senza nemmeno conoscerci, la stessa adolescenza.
Il nostro modo di amare, che ad oggi mi appare sprovveduto e pericolosamente contraddittorio, era connesso all’identità. C’era qualcosa di militante, persino di politico, nell’immergersi e lasciarsi trasportare da questa esperienza totalizzante. Desideravamo essere donne colte e aperte, profonde e il giusto libertine. Ci esponevamo, sperimentavamo l’amore e le sue ferite di cui andavamo orgogliose.
Attorno a noi il catcalling era la normalità, il berlusconismo permeava la nostra cultura anche se ci opponevamo ad esso (o credevamo di farlo), atteggiamenti abusanti di ogni tipo erano tollerati.
“Durante gli anni della mia educazione sentimentale, la consapevolezza terrificante di non essere ‘una fica’ ai livelli delle veline era come una corrente carsica che permeava la visione di me stessa e del mondo.”
Il porno esisteva, ma il digitale non aveva ancora preso il sopravvento, non esistevano le app di incontri, si sdoganava l’esistenza di orientamenti sessuali divergenti dalla “norma”, ma con moderazione. Dovevamo essere belle, sexy e cool. Dovevamo trasgredire, ma allo stesso tempo dire sempre di sì.
Leggevamo Madame Bovary e senza nemmeno cogliere l’ironia flaubertiana, che condannava gli stilemi del romanzo romantico, empatizzavamo con Emma, eroina ribelle e oppressa dall’imperante moralismo della sua epoca, e detestavamo il povero Charles, così ordinario e mediocre.
Amare in quel modo era il nostro modo di militare, di essere “un certo tipo di persona”, la nostra sofferenza era un orgoglio, le liti furibonde col fidanzato del momento erano espressione di passione, il sesso (a volte occasionale) un’esperienza profonda da sviscerare con le amiche, ma anche da sminuire “perché eravamo donne libere ed emancipate”. Avevamo una teoria non scritta da seguire costellata di carpe diem pop, di film che ritenevamo iconici, di canzoni che analizzavamo per realizzare il nostro improbabile manifesto, ma allo stesso tempo ci sentivamo obbligate a sfoggiare un’aria da dure: era vietato chiamare per prime, rispondere immediatamente a un messaggio o entusiasmarsi troppo per un invito.
Scrive l’autrice riferendosi al capitale erotico (termine sdoganato da bestseller simbolo degli anni Novanta e Duemila come Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, che implica un mix di bellezza, sex appeal e capacità amatorie)
“Volevo essere una donna emancipata, ma in realtà non facevo che confondere la validazione degli uomini con l’amore, credendo che se fossi stata brava abbastanza, se fossi stata la più brava, allora mi avrebbero amata.”
L’amore era centrale nella nostra giovinezza, il sesso, fatto o immaginato, era al centro dei nostri pensieri. La libertà di amare a modo nostro o quantomeno la possibilità di tentare di definirci, di cui avremmo scoperto gli strascichi più oscuri durante interminabili sedute di terapia, sicuramente la dobbiamo ai movimenti che si batterono per la prima grande liberazione della donna.
Durante il Sessantotto:
“L’immaginario cambia: l’amore non è più quel sentimento timido che culmina nel sacro vincolo del matrimonio, e il sesso non si traduce più in sottomissione all’uomo […] Ora possiamo amare e scopare con chi ci pare, quando ci pare, come ci pare. Si costruisce il sogno di un amore e una sessualità anarchici in cui il desiderio può scatenarsi e ri-generarsi. Dopo anni di oppressione, si inneggia alla libertà, la rivoluzione è liberazione.”
Com’è noto, il ’68 non ha sconfitto il capitalismo né inserito fiori in cannoni che continuano ad essere ancora tragicamente attivi, però sicuramente per l’amore e il sesso la rivoluzione avvenne eccome.
Scrive Carla Lonzi nel Manifesto di rivolta femminile:
“Verginità, castità, fedeltà, non sono virtù; ma vincoli per costruire e mantenere la famiglia. L’onore ne è la conseguente codificazione repressiva.”
È infatti proprio grazie alle femministe degli anni ’70 che abbiamo avuto un facile e sereno accesso alla contraccezione, che non ci siamo sentite obbligate a sposarci, che non abbiamo vissuto il sesso occasionale come stigmatizzante.
Eppure qualcosa non ha comunque funzionato, la libertà che finalmente ci ritrovavamo tra le mani dopo tanta lotta si è rivelata difficile da gestire.
“Noi, le generazioni successive alla liberazione, siamo povere di un amore che è sì libero dalla morale tradizionale, ma non ha ancora costruito un’alternativa. Sta a noi il compito di scoprire come possiamo realizzare l’amore tra persone che sono e vogliono diventare uguali e libere”.
Abbiamo provato a realizzare un nuovo ideale di amore che però ci ha costrette a ritenerci responsabili del suo eventuale e forse inevitabile fallimento, come scrive la Bandinelli “la scelta individuale diventa l’unico parametro attraverso cui si costruisce una biografia sentimentale”.
Per riprendere le parole di Bauman l’amore non solo è libero, ma anche liquido; privo di qualsiasi etica oltre la soddisfazione immediata del proprio interesse. L’amore ha smesso di essere un fatto collettivo e politico e si è fatto simbolo di una ritrovata libertà individuale. La rivoluzione del ’68 ha liberato uno spazio che ci ha rese meno vincolate agli stringenti moralismi della società e ci ha permesso di avviare una sperimentazione dei rapporti amorosi e sessuali senz’altro più aperta rispetto al passato; d’altra parte però in quello spazio vuoto, da riscrivere, si è innestata la logica del consumo e del profitto.
Oggi amiamo diversamente dal passato ed in questo campo non ci rispecchiamo più in modi e modalità che appartenevano alle generazioni precedenti. Non ci rispecchia più nemmeno il modo che avevamo noi stesse di amare e le nostre cicatrici non hanno nulla a che vedere con i Frammenti amorosi di Barthes. Le nostre ferite nascono dalla recente accettazione del fatto che durante la giovinezza il nostro desiderio di emancipazione e la nostra ribelle vitalità spesso non sono bastati a debellare la rappresentazione della donna fragile, emotiva e bisognosa di protezione contro la quale abbiamo pensato di lottare. Siamo state vittime di disuguaglianze e squilibri di genere normalizzati da una società patriarcale e spesso, involontariamente, siamo state complici di questa cultura.
Tante volte abbiamo detto sì quando forse avremmo preferito dire di no, ci siamo sentite svilite perché il nostro corpo non rispettava i “giusti” parametri, abbiamo anelato a una validazione di cui il maschio (chiaramente eterosessuale) era l’unico detentore.
È evidente come ad oggi urga una riscrittura, una nuova narrazione, diverse regole e parecchi strappi con il passato.
A questo proposito l’autrice decide di attuare un’indagine sulle nuove generazioni intervistando e confrontandosi con ragazzi e ragazze appartenenti alla Gen Z (nati nei medio-tardi anni novanta e i primi anni duemiladieci, i cosiddetti nativi digitali).
Dai loro racconti, così come da innumerevoli articoli e saggi relativi a questo tema, risulta evidente che il sesso ricopra un ruolo di secondaria importanza e che l’innamorarsi sia quasi visto con sospetto.
La Gen Z è una generazione affascinante, fluida, vulnerabile, finalmente liberata da vecchie sovrastrutture. La rivoluzione digitale ha creato in un breve lasso temporale uno spazio che le nuove generazioni stanno rapidamente riscrivendo e che a volte tende ad essere difficilmente leggibile da chi, anche se relativamente giovane, ha avuto una “formazione analogica”.
Per quanto riguarda la percezione dell’eros e dei sentimenti ci sono delle differenze che sembrano abissali. I giovani sembrano spaventati dall’amore e piuttosto disinteressati al sesso. Scrive la Bandinelli:
“Kate Julian, nell’articolo ‘Why Are Young People Having So Little Sex?’ annuncia addirittura una sex recession, dovuta, tra le altre cose, alla diffusione dei social network, alla pervasività della pornografia, al miraggio delle dating app, alla hookup culture e al sesso fatto male. La psicologa americana Jean Twenge, nel saggio Iperconessi, descrive una generazione per cui il sesso è faticoso, rischioso, talvolta doloroso e traumatico. […] L’amore viene visto quindi con sospetto, come un’esperienza che può potenzialmente distrarre dallo sviluppo autonomo della propria persona. Una perdita di tempo”.
Uno degli imperativi della società digitale è essere se stessi; individualisti e produttivi. La nostra identità va preservata da ogni potenziale minaccia che l’altro, chiaramente, può rappresentare. Aspiriamo ad un io solido e resiliente. Cerchiamo costantemente di migliorare noi stessi, evolvendoci verso una versione migliore di noi ed in continua crescita. In questo senso l'innamoramento può essere visto come un possibile ostacolo a tale sviluppo.
In Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo Vittorio Lingiardi riflette sull’uso della “I” nell’iPhone e nei prodotti Apple in generale, interpretandola non solo come un simbolo tecnologico, ma anche come una metafora del culto dell’individualità nella società contemporanea. L’“I” sta per “io”, richiamando il focus sull’identità personale, sull’autocentrismo e sulla necessità di affermare il sé. Lingiardi vede in questo uso una rappresentazione del mondo digitale che spinge all'autoreferenzialità e all'autopromozione, stimolando una continua ricerca di conferma e visibilità.
In questa prospettiva l’amore romantico rappresenta un ostacolo all’io, sia per le nuove generazioni che in questa realtà sono nate sia per noi trenta-quarantenni che idealizzavamo l’amore, ma che siamo ormai immersi in questo “nuovo mondo” con tutti i nostri traumi e le nostre contraddizioni.
Lo straordinario successo delle app di dating supporta questa riflessione “un match è capace di produrre un senso di benessere momentaneo, così come subito dopo genera il vuoto della perdita, a cui a sua volta immediatamente ripara un altro match, in una circolarità di cui la app è il fulcro. La app non vuole essere lasciata, non vuole che ci innamoriamo di qualcuno al di fuori di lei, vuole tenerci là, appicciati e avvinti, appesi alle sue promesse, ai futuri possibili che ci segnala sotto forma di profili di gente a caso”.
Probabilmente la percezione amorosa della Gen Z si radica in questo mutamento culturale, ma anche noi Millenials non siamo immuni. L'amore oggi è un sentimento che viene costantemente sottoposto ad analisi, che viene interpretato spesso in termini terapeutici o clinici come dimostra il linguaggio specifico usato per descrivere le diverse situazioni che si possono incontrare, come ghosting, situationship, haunting, love bombing, e così via. Così come l’uso/abuso del termine tossico, barometro di una tendenza che da una parte patologizza (forse eccessivamente) la sofferenza, ma d’altra parte (giustamente) la denuncia.
L'amore romantico, in particolar modo eterosessuale, mostra delle disfunzioni e delle aree problematiche. Tendiamo ad esporre meno il corpo che può essere ferito. L’uso di pornografia allevia dalle difficoltà che implica l’esporsi in una situazione reale. Cerchiamo la formula per sanare, per guarirci da questo bisogno che spesso crea più sofferenze che gioie e che indubbiamente mina il potenziamento dell’io.
“Il sesso e l’amore postromantici non cercano l’adrenalina di un rischio che può metterci di fronte all’abisso. Vogliamo un amore senza drammi, senza patemi, senza scivoloni imprevisti. Il mistero, l’inciampo, il disequilibrio ci fanno paura. Le emozioni perturbanti cerchiamo di eliminarle...”.
Dopo tutte queste riflessioni che sembrano comunque insufficienti per analizzare nella sua interezza il fenomeno ed ammesso che le dinamiche amorose possano essere categorizzate, spiegate e risolte, torniamo alla domanda di partenze: abbiamo ormai paura di innamorarci?
Non penso ci sia una risposta e nemmeno che sia il caso di cercarla realmente. Tutti siamo stati vittime e complici del sistema in cui siamo nati e cresciuti, tutti siamo caduti in contraddizione e siamo stati in qualche modo oppressi dalle dinamiche socioculturali della nostra epoca.
Forse dando priorità eccessiva a questa pulsione ed accettando stoicamente la sua potenza distruttiva le donne millenials hanno involontariamente legittimato l’ennesima subordinazione femminile. O magari la Gen Z divorata dal capitalismo più estremo e violento preferisce “consumare" tramite app di incontri senza rischiare di rimetterci troppo su un piano emotivo e vede l’innamoramento come una barriera alla propria realizzazione.
Sono punti di vista che sicuramente nascono da qualcosa di vero, ma colpevolizzare non è la soluzione. L’impressione è che, soprattutto per merito delle nuove generazioni, si stia lavorando a una riscrittura, a una riformulazione di “regole” che tentino di mettere realmente fine alla sensazione per cui l’amore è un sentimento rispetto al quale bisogna essere all’altezza. Qualcosa che andava meritato essendo canonicamente attraenti, brave a letto, disposte a tutto.
A mio parere la Gen Z mostra una nuova consapevolezza, specialmente dopo il movimento #MeToo, rispetto alle dinamiche di potere interiorizzate (soprattutto relative all’amore etero) attraverso la rappresentazione nei media. Oggi si sperimentano relazioni diverse, vi è un’apertura a un’idea di amore differente e meno normativa, si esplorano nuove pratiche sessuali e nuovi codici in cui non esistono scenari predefiniti o norme consolidate nel tempo.
Le nuove generazioni nel voler soffrire sempre meno da una parte tendono a isolarsi eccessivamente e ad anestetizzarsi sul piano esperienziale, ma dall’altra contestano i meccanismi di oppressione e i rapporti di potere all’interno della coppia che è fondamentale mettere in discussione, aprendo in tal modo anche a noi “più vecchi” interessanti prospettive.
È utopico pensare di aggirare la sofferenza ed il trauma. Anche questo è a tratti capitalistico, vi sono aspetti della vita che inevitabilmente ci feriranno o che ci faranno mettere in discussione, è impensabile trovare la formula per riparare ogni cosa. Questo penso tocchi ogni generazione.
Il trauma e il negativo non possiamo eliminarli poiché sono parte dell’esperienza umana, possiamo accoglierli utilizzando gli strumenti del nostro tempo, confrontandoci con il passato e aprendoci verso il futuro senza necessariamente avere l’ossessione di guarire, ma sviluppando una coscienza individuale e collettiva che ci permetta di non danneggiare noi stessi e gli altri. Per lo meno, non eccessivamente.
In copertina, illustrazione di barbarianflower.