Storia napoletana di un delirio a sinistra
Durante la direzione nazionale del PD Pier Luigi Bersani ha paventato il rischio di caso Boffo contro chiunque all’interno del partito esprimesse posizioni discordanti da quelle della maggioranza o comunque diversa dalla linea impressa dal segretario. È chiaro che la dialettica interna in un partito è parte essenziale della sua stessa vita, tuttavia quello che oggi è definito generalmente sotto l’etichetta di macchina del fango sembra avere un impatto sulla vita personale e politica principalmente di carattere mediatico: può stroncare una carriera; perché oggi una carriera politica è, al pari di mille altri mestieri, una professione spesso carica di ambizioni, ma povera di passioni.
Tutta un’altra storia con quanto accadeva anche solo fino a qualche anno fa all’interno dei movimenti politici e in particolare all’interno del Partito Comunista italiano. Molti si ricorderanno l’espulsione del gruppo de il manifesto, ma pochi avranno memoria del Gruppo Gramsci di Napoli. Il Gruppo Gramsci fu al centro del romanzo di Ermanno Rea, Mistero napoletano, lo stesso Rea vi ritorna a distanza di anni con una piccola storia, quella privata e intima del suo fondatore e leader, il geniale Guido Piegari.
Il caso Piegari. Attualità di una vecchia sconfitta prende avvio quasi per caso, per merito di un giovane studioso del Gruppo Gramsci che incontrando Ermanno Rea lo porta nuovamente a buttare un occhio sui vecchi documenti raccolti per Mistero napoletano. Lo stesso Rea racconta la sorpresa, quando rileggendo i suoi appunti ritrova la storia di Piegari. Una vicenda rimossa in primis proprio da lui. Pudore è la prima spiegazione, pudore e premura per una vicenda dolorosa che condannò Piegari a un’esistenza raminga e marginale.
Giorgio Amendola
Il Gruppo Gramsci rivendicava un’idea unitaria di nazione e ripudiava la visione salveminiana di Amendola tutta protesa alla costruzione di relazioni con potentati locali: una visione, quella di Amendola, dettata sia da ambizione di potere sia da realismo politico che aveva dalla sua parte la maggioranza del PCI napoletano, i cosiddetti miglioristi, tra gli altri Giorgio Napolitano.
La presa di posizione del Gruppo Gramsci faceva perno attorno alle letture di Gramsci di Piegari e dei suoi sodali, in particolare Enzo Oliveri e Gerardo Marotta (fondatore dell’Istituto italiano per gli studi filosofici). La fiducia in Palmiro Togliatti fu vana e furono tutti espulsi. Guido Piegari patì in modo particolare la cacciata che si tradusse in attacchi personali e in discredito pubblico. La sua vita da allora (fino alla morte avvenuta nel 2007) fu costellata dalla perdita di lucidità assaltata da continui complessi di persecuzione, una vita persa nella follia e nella solitudine.
Ermanno Rea racconta con delicatezza, la sua scrittura descrive per cerchi concentrici una polemica politica che si fece disagio personale; ma non solo: rendendo quel disagio pubblico, trasformandolo in storia, lo riporta al suo originario peso politico. La sconfitta non è stata quella di Piegari, ma quella di un partito, quello comunista, che storicamente fu troppo aderente alla contingenza e al realismo. Un partito pauroso di visioni innovative che solo oggi di fronte allo sfacelo di un Paese ritrovano tutta la loro lucida fondatezza. Oggi che nemmeno più esiste un dibattito serio sulla questione meridionale, le posizioni del Gruppo Gramsci ritornano con tutto il peso delle occasioni perse, bruciate, per di più con assurda violenza.
Giorgio Napolitano
Testimone della parabola esistenziale di Piegari è Gerardo Marotta, ultimamente assurto alla cronaca perché il suo Istituto (che raccoglie oltre trecentomila volumi, tra cui edizioni rare) è stato sfrattato e i suoi fondi tagliati (per opera inizialmente del ministro Giulio Tremonti, ricorda Ermanno Rea). Marotta cita Benedetto Croce da Filosofia e storiografia:
“[…] incapaci di risolvere in sé innalzandola a maggiore e migliore potenza la esistente civiltà, la scalzano, e non solo soverchiano e opprimono gli uomini che la rappresentano, ma si volgono a disfarne le opere, e distruggono monumenti di bellezza, sistemi di pensieri, tutte le testimonianze del nobile passato, chiudendo scuole, disperdendo o bruciando musei e biblioteche e archivi, e facendo alte e simili cose, come si è visto e si vede, o che questo accada per ignoranza e incuria, o per allegro spirito di distruzione, o per meditato proposito. […]”
Il caso Piegari è una piccola luce, un libretto prezioso per tentare di riprendere la rotta, riaprire vecchie questioni, provare a portare avanti nuove soluzioni per tentare di rinnovare un Paese lacerato e squagliato dalla retorica più tronfia e dalle predisposizioni più vili. Gli errori di quella che si ritenne la parte migliore non possono che venire oggi utili per alleviare il peso e alleggerire il carico di chi oggi ha bisogno di vedere e capire e anche per restituire a chi si giocò la vita la possibilità di incidere nuovamente con le sue vecchie idee.