Mauro Rostagno, l'uomo in più
Con la sentenza del 15 maggio di quest’anno i boss mafiosi Vincenzo Virga e Vito Mazzara sono stati riconosciuti colpevoli quali mandanti dell’omicidio di Mauro Rostagno avvenuto il 26 settembre del 1988. In questi 26 anni attorno all’omicidio del sociologo si sono fatte congetture di ogni tipo, alcune solo di stampo scandalistico, altre (ben più gravi) addirittura da parte della stessa magistratura: un guazzabuglio in cui stupidità e dabbenaggine non sono che il contorno d’intenti diffamatori e di trame d’insabbiamento. Di questi ventisei anni racconta Reagì Mauro Rostagno sorridendo di Adriano Sofri (Sellerio, 2014) che partendo dal processo e alternando ricordi personali dell’amico ricostruisce i fatti con cura e aderenza. Una contabilità emotiva capace di restituire in pochi tratti il corpo vivo di Rostagno e il grigiore freddo e omicida di una società che da trent’anni sembra avere sempre più confuso i propri atti mancati con le proprie intenzioni.
Si dice di Mauro Rostagno che è stato tante vite, si ricordano spesso i suoi anni come leader studentesco a Trento e quelli di Macondo a Milano, il suo viaggio in India e il periodo arancione e poi quello bianco. Rostagno è stato, come dice in un’intervista pochi mesi prima di morire, infedele alle sue idee per rimanere coerente con se stesso; quel se stesso che era un corpo e una mente in perenne ribellione.
Rostagno ha attraversato l’Italia politicamente e geograficamente, da Torino a Trapani, dalla militanza politica in Lotta Continua alla fondazione della comunità di Saman, ha vissuto e interpretato forse gli anni più vivaci – vivi quanto violenti – della repubblica italiana, ha misurato il costo della libertà e tentato di sfondare i limiti della repressione sia quando si trattava del diritto alla casa che quando si trattava di droghe. Eppure nemmeno oggi si potrebbe dire di lui che è stato testimone, che ha rappresentato un’epoca o un periodo. Rostagno è stato principalmente un motore capace di trascinare con sé donne e uomini; ha vissuto interpretando la propria epoca senza tracciare strade o scoprendo percorsi, ma semplicemente praticandoli, dando loro forza e un senso fino ad allora imprevisto. Non un uomo in rivolta, ma in ribellione.
Rostagno è un rivoluzionario gioioso: quando disfa lo fa con la medesima gioia di quando ricostruisce. Il suo è il movimento dato da una passione allegra, divertita, che non richiede nessuna seriosità e che guarda con sospetto l’ardimento militante come l’eroismo dell’uomo in fuga. Rostagno sviluppa in tutto il suo percorso il senso di una comunità che sia un luogo capace di generare un piacere creativo alla messa in opera. Il suo lavoro culturale non vive per la solitudine dell’autore, ma all’interno di una visione democratica in cui la cultura e il cambiamento nascono dal basso e si diffondono con disinvolta naturalezza. La ribellione non è che il necessario ed essenziale bisogno di felicità quale unica forza per sviluppare un cambiamento solidale e condiviso.
Rostagno attraversa il proprio tempo senza mai cadere nella pedante pensosità (che a tratti è solo ottusità) dei rivoluzionari fuori corso, sfugge alla disillusione perché non insegue una carriera quale sinonimo di professione (che sia la scrittura come l’insegnamento), ma sente e pratica una libertà d’orizzonte che non gli impedisca di rimanere imbrigliato nei suoi stessi limiti, correndo anche il rischio della superficialità come dell’imbarazzo. In lui non è possibile distinguere tra pensiero e corpo, tra teoria e pratica, il legame è sempre imprescindibile e fondativo del suo percorso culturale.
Ribelle nell’epoca dei rivoluzionari di professione, Rostagno ha subito respinto l’idea mitologica del sessantotto, rifiutandone gli approdi politici come le agiografie alla Mario Capanna: non formidabili, ma meravigliosi quegli anni. La lotta alla mafia arriva lungo un percorso che non mette mai in dubbio le battaglie fatte, e con le battaglie gli errori compiuti e le amicizie costruite sempre nell’accettazione delle diversità e delle sensibilità reciproche. Rostagno non è un uomo dello stato e non è un uomo votato ad una causa, la sua lotta non è dettata da un’ideologia, ma da una totale diversità antropologica che lo differenzia dal corpo mafioso. La sua denuncia del fenomeno mafioso agisce su più livelli: le sue inchieste sono costruite attraverso accurati approfondimenti, ma hanno il registro della derisione, mettono a nudo e in ridicolo i capi bastone e coinvolgono la popolazione in una forma di denuncia collettiva che si fa forza dell’ironia.
Adriano Sofri ricorda come Rostagno sia sempre stato volutamente un numero due, lo è stato in Lotta Continua e lo è stato all’interno della comunità di Saman. Un numero due con le stigmate del numero uno, ma senza tutti gli impicci e le briglie obbligatorie di un capo costretto a gestire e guidare un gruppo. Rostagno era l’uomo in più, quello che fa fare un salto in avanti a tutti, magari nascondendo la palla tra le gambe con un’abile acrobazia, colui che strappa certamente qualche applauso per sé, ma non senza che ne siano tutti avvantaggiati. Mauro Rostagno rappresenta un corpo vasto fatto da tutti coloro che non si sono fatti guidare da un capo, ma che non hanno mai tradito, coloro che non hanno creduto ciecamente solo nel proprio tempo, ma che hanno saputo condividerlo con chi stava loro a fianco. Provare a comprendere la sua figura a 26 anni dalla morte è anche un modo per provare a dare un nome a quel tempo che ha confuso i ricordi personali con la memoria e che di nomi ne ha fatti tanti (troppi) per non averne nessuno.
Bisogna imparare a leggere a lettere rovesciate, scrive Mario Mieli in appendice a Macondo (Savelli, 1978), perché è sempre possibile trovare o trovarsi in luoghi per cui vale la pena vivere e per questo rischiare di morire, e conta relativamente cosa invece si è o si stava invece cercando.
Questo pezzo appare nell'ultimo numero de Gli Asini
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