Il sentimento del tempo / Giosetta Fioroni, la spia di se stessa
«SENTIMENTALE SPERIMENTALE»: così la fascetta editoriale di Tristano di Nanni Balestrini, anno di grazia 1966. In copertina, un Doppio Liberty di Giosetta Fioroni dell’anno precedente (quando Nanni le dedicava – sul secondo numero del «Catalogo» periodico della Tartaruga di Plinio De Martiis – una prosa che anticipava i tratti école du regard del romanzo combinatorio ma finirà raccolta invece, caratteristicamente, in quella che di Balestrini è la seconda raccolta poetica, Ma noi facciamone un’altra del ’68: è quella che comincia «e intanto che si muove sulla spiaggia»). Manifesta, a quell’altezza, la callida coniunctio fra il senso comune, dell’aggettivo, e il suo riferimento letterario al Sentimental Journey settecentesco dell’abate Sterne che, specie tramite le sue versioni francesi e italiane (quella celebre di Foscolo), ha nutrito di sé la tradizione (anti)narrativa del moderno. Passato mezzo secolo di mode e contro-mode, il riferimento a Sterne sparisce dal catalogo della grande antologica milanese di Giosetta Fioroni che proprio Viaggio Sentimentale ha per titolo (a cura di Flavio Arensi ed Elettra Bottazzi, Museo del Novecento, fino al 26 agosto; catalogo Electa, pp. 112, € 22), nel quale si ricorda subito, invece, la canzone omonima gorgheggiata da Doris Day negli anni Quaranta; ma in verità il dipanarsi avvolgente della mostra, a zigzag fra memorie e corréspondances, ripiegamenti angosciosi d’argento e slarghi improvvisi di respiro e colore, è “sentimentale” in senso buono: quello appunto sterniano. E non è un caso che un titolo letterario rechi, pure, l’ultimo libro d’artista di Giosetta: “La Comédie humaine” (stampato con niveo nitore dal complice di sempre Corraini, pp. 134, € 15), centoventotto piccoli disegni a china e penna stilografica che «vengono dall’osservazione di miei contemporanei», spiega Giosetta al piatto inferiore, visti come i «moltissimi personaggi che popolano i racconti, saggi, scritti e novelle» di Balzac, «con i loro speciali connotati e manie».
Anche Balzac, in un’occasione, pagò il suo tributo alla maniera di Sterne: coi Cent Contes drolatiques del 1832, dal manierismo iperletterario ben distante dal realismo della Comédie (e la vena caricaturale di questa Giosetta humor noir può ricordare, certe volte, le illustrazioni fumettistiche realizzate, per un’edizione dei Contes del 1942, dal bizzarro Albert Dubout, compagnon dei surrealisti e padre putativo di Jacovitti…); ma i due si pongono a capo di tradizioni narrative contrapposte. In comune hanno senz’altro, però, l’occhio micidiale col quale scrutano quelli che Giosetta chiama «particolari, attualità caratteriali, deformazioni, “tic” e fisionomie dei personaggi». È la stessa attrazione kafkiana che Goffredo Parise aveva per le piccole malformazioni, i microimbarazzi fisici dei suoi contemporanei: dettagli rivelatori di dissimulate debolezze che era capace di ingrandire, se voleva, con spasso malizioso e crudele. Quello stesso che a Giosetta, oggi, fa collezionare «fisionomie rospacee», «gambette troppo magre» o «gambe feroci», «bambini brutti» e «tipi buffi e disarmonici», «arcigni […] assai ciccioni e deformi», «donnine-pesce» e «avvenenti nane» (mi ha sempre colpito come, nei ricordi delle sue frequentazioni parigine ’58-62, le sia rimasto ossessivamente impresso, di uno scrittore pur ammirato come Beckett, il dettaglio delle «caviglie blu»: causa il freddo ma, soprattutto, l’ostinazione di non voler mai indossare calze).
L’artista come spia, insomma. Ed è proprio questa l’attitudine di Giosetta che mette a fuoco Arensi: la sua naturale «curiosità verso le storie degli esseri viventi» che s’appuntisce, a tratti, nell’«intento voyeuristico […] quasi ambulatoriale, che Edgar Degas nutre verso le ballerine. La normalità come racconto domestico, o semplicemente la banalità prodigiosa delle abitudini di ciascuno, divengono una storia da spiare». Si pensa subito, fra le opere esposte a Milano, ai «mostri» delle Foto da un atlante di medicina legale (di feticisti esibizionisti, travestiti, suicidi per pratiche erotiche, tutti crudelmente catalogati negli anni Venti) esposti due anni prima da Alberto Boatto in Ghenos Eros Thanatos, che nel ’76 Giuliano Briganti leggeva come ritorno del rimosso di «un’angoscia fino ad allora latente», «censurata nel momento tutto mentale degli “argenti”» (e davvero a posteriori danno i brividi, quelle istantanee anni Sessanta, specie di bambini: sino all’estremo quasi intollerabile del Bambino con occhiali e del Bambino malato del ’68); e poi, certo, la Spia ottica, omaggio a Duchamp presentato nel mitico Teatro delle mostre messo in scena da De Martiis nel maggio del ’68. Era una replica minuziosa della propria stessa stanza da letto, nella quale Giosetta chiese all’attrice Giuliana Calandra di interpretare la «giornata di una donna annoiata», che i visitatori dovevano appunto osservare da uno spioncino (con ottica, dunque, lievemente deformata).
Come ha raccontato di recente a Hans-Ulrich Obrist, De Martiis aveva chiesto alla stessa Giosetta di eseguire la performance, ma lei voleva invece che «una persona interpretasse se stessa come un alter ego». Il concetto anche morfologico della spia era già (osserva acutamente Obrist) nei costumi Optical realizzati per l’altrettanto mitica, fischiatissima Carmen “strutturalista” messa in scena l’anno precedente, a Bologna, da Alberto Arbasino con la consulenza di Roland Barthes: una cui grande foto è in fondo alla sala (un po’ sacrificata, a lato del corpo principale dell’esposizione) dove c’è appunto la ricostruzione della Spia ottica (purtroppo, però, senza attrice dentro). E torna adesso, mercé la grafica di Leonardo Sonnoli, nel concept-book che è il catalogo: le cui pagine sono, a loro volta, tutte attraversate da un buco traguardabile.
È come se fossimo tutti chiamati, dunque, a spiare la vita, ormai lunga e “sentimentalmente” tumultuosa, di Giosetta. Che, a decenni di distanza, ha finito per acconsentire a quella richiesta di De Martiis: interpretando il personaggio di se stessa, performer e tela vivente, nelle fotografie di Marco Delogu delle serie Senex e L’altra ego (2002 e 2012). E che oggi ricuce, questa sua vita-opera, con cortocircuiti da fantascienza: si specchiano, in mostra, un suo Autoritratto a nove anni del ’66 (il bambino – perduto nel tempo come nella Jetée di Chris Marker –, certo, è lei stessa) e la Giosetta a 12 mesi scolpita in bronzo dal padre Mario (tutt’altro che disprezzabile allievo di Arturo Martini); e poi il grande autoritratto doppio del 2002, una rara scultura in resina a grandezza naturale in cui la Giosetta settantenne tiene per mano la Giosetta a nove anni, in tenuta da scolaretta.
Come nel Doppio Liberty Io è sempre un Altro, certo. Ma ha pure la saggezza, a distanza di tanto tempo, di sapersi ri-conoscere. In momenti come questi – attraversati i silenzi e le angosce, le solitudini e le perdite, superate le fate e i mostri – non si può che ripetere, col Leopardi dello Zibaldone: «dalla lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia […] si può […] dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne: che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire; e ci accresce la vitalità. Ma rarissimi sono oggi i pezzi di questa sorta».
Una versione più breve di questo articolo è uscita il 22 aprile su «Alias».