Al di là di Solaris / La fantascienza apocrifa di Stanisław Lem
Nel 2006, a pochi mesi dalla morte di Stanisław Lem, Giuseppe Lippi sottolineò quanto la sua opera fosse insufficientemente nota in Italia. Il suo capolavoro Solaris (1961) aveva conosciuto un’ottima diffusione, ma gli altri romanzi tradotti continuavano a essere apprezzati soltanto da una ristretta cerchia di cultori, per non parlare poi della produzione saggistica, addirittura limitata a un singolo titolo (la notevole raccolta Micromondi, pubblicata da Editori Riuniti nel 1992). Ne risultava compromessa una visione d’insieme sull’autore e sulla particolare traiettoria che nel tempo ha caratterizzato la sua opera, sempre meno legata alle strutture romanzesche della fantascienza tradizionale e sempre più orientata alla speculative fiction secondo modalità narrative inusuali, in parallelo a un fecondo impegno saggistico.
Nel primo decennio del nuovo secolo si sono susseguiti due tentativi di riproporre opere di Lem inedite o poco note al pubblico italiano, da parte di Marcos y Marcos e Bollati Boringhieri, ma senza grandi ripercussioni sulla fortuna dell’autore, come indica il fatto che tali volumi risultano ora fuori catalogo. Nel 2010 Voland ripubblicò la raccolta di recensioni di libri immaginari Vuoto assoluto, e nel 2013 Sellerio diffuse una nuova edizione filologicamente corretta di Solaris, con una traduzione condotta sull’originale testo polacco e non sulla sua prima edizione inglese, caratterizzata da tagli arbitrari. Da allora, se da un lato pare essersi esaurita la spinta al rilancio di romanzi potenzialmente appetibili per un pubblico ampio, dall’altro è mancata la voglia di proporre ai lettori esigenti le opere più originali e specialistiche di Lem, mentre negli Stati Uniti usciva la prima traduzione inglese (2013) della sua Summa Technologiae (1964), una densissima raccolta di saggi visionari, a metà tra filosofia e futurologia, che in tempi non sospetti affrontava argomenti come la realtà virtuale, l’intelligenza artificiale e le nanotecnologie.
Il lettore italiano può verificare nei testi di Vuoto assoluto quanto l’ispirazione futurologica abbia influenzato a fondo la stessa attività letteraria di Lem, portandolo a sviluppare anche al di fuori del campo saggistico, o meglio su un terreno ibrido tra narrativa e saggistica, il suo pensiero su argomenti che appaiono oggi molto meno “fantastici” e molto più “scientifici” di allora. Un’altra opera esemplare in questo senso perché interamente incentrata sul tema dell’intelligenza artificiale, GOLEM XIV, è stata da poco pubblicata per la prima volta in Italia da una piccola casa editrice abruzzese, il Sirente (2017, trad. di Lorenzo Pompeo), e può fornire finalmente l’occasione per gettare uno sguardo al di là di Solaris, ovvero sul versante più sperimentale della letteratura di Lem.
“Così parlò GOLEM”
Pubblicato per la prima volta nel 1973 all’interno di una raccolta di prefazioni immaginarie di romanzi del XXI secolo (Wielkość Urojona, lett. Grandezza immaginaria) e poi in una versione ampliata in volume nel 1981, GOLEM XIV si presenta nella finzione letteraria come un libro pubblicato nel 2047 dall’Indiana University Press per divulgare due conferenze dell’omonima intelligenza artificiale, un supercomputer inizialmente progettato dagli Stati Uniti per scopi bellici ma rivelatosi del tutto inadeguato al suo ruolo, e per questo ceduto al Massachusetts Institute of Technology per fini di ricerca.
“Individuare quello storico momento in cui l’abaco raggiunse l’intelligenza è altrettanto difficile quanto stabilire il momento in cui la scimmia si trasformò in uomo”, scrive Irving T. Creve del MIT all’inizio della sua prefazione, con parole che mettono a fuoco il problema dell’intelligenza artificiale alla luce della teoria evoluzionistica. Nella postfazione di Richard Popp si legge che allo stesso Creve è da attribuire l’idea del libro, pubblicato però incompiuto con diciotto anni di ritardo. Si spiega così il motivo per cui la sua prefazione è datata 2027, mentre il volume e la postfazione di Popp 2047. La scansione dei diversi piani temporali si complica poi ulteriormente, per il lettore odierno interessato a comprendere il lavoro di Lem, nel momento in cui Creve si appresta a fornire una rapida cronistoria delle tappe che hanno portato allo sviluppo di intelligenze artificiali, perché la linea del tempo, trattandosi di un testo scritto nel 1973, va ricalibrata rispetto a quell’epoca, e dunque eventi presentati come avvenuti, ad esempio, negli anni ’80, sono altrettanto fittizi quanto notazioni di quarant’anni posteriori, come quando si legge che nel 2020 “GOLEM VI, in qualità di comandante supremo, conduceva le manovre globali del Patto Atlantico”.
L’operazione di Lem è peraltro doppiamente interessante, e non solo a causa della maestria con cui riesce a intrecciare riferimenti fittizi e reali (dall’IBM alle teorie di Alan Turing, Norbert Wiener e John Von Neumann), ma anche perché in poche pagine giunge a formulare valutazioni plausibili di eventi passati sulla base della finzione futurologica, citando ad esempio l’analizzatore differenziale di Vannevar Bush e l’ENIAC nell’ambito di un discorso sull’intellettronica e la RAND Corporation come premessa al successivo sviluppo della politicomatica, vale a dire “l’algebra applicata dei fatti”. Arrivati al XXI secolo, lo sviluppo di prototipi di supercomputer militari da parte degli Stati Uniti è evocato sullo sfondo di uno scenario che ricalca da vicino le tensioni della Guerra Fredda. Se il dato geopolitico tradisce l’inattualità del testo, ben più originale risulta la rassegna dei vari prototipi costruiti nel corso degli anni, dei dibattiti che hanno accompagnato la loro progettazione e dei non pochi inconvenienti che hanno provocato. Il tema cruciale dello sviluppo dell’intelligenza è così delineato con parole che richiamano immediatamente il campo del machine learning, e mentre i piani degli strateghi del Pentagono e dei tecnici informatici coinvolti convergono nella creazione di “una intelligenza che si autoperfeziona”, gli esiti del progetto si rivelano al contempo eccezionali e problematici, perché all’aumento esponenziale dell’intelligenza da parte delle macchine si accompagnano difficoltà sempre maggiori nella loro gestione. Progettati come macchine da guerra, i supercomputer diventano veri e propri “filosofi elettronici” del tutto disinteressati alle direttive militari, e la loro evoluzione cognitiva, nel momento in cui raggiungono il cosiddetto punto di singolarità tecnologica, si sottrae a qualsiasi tentativo di comprensione e previsione da parte dell’uomo.
A riprova della ricchezza del testo, basterebbe a questo punto osservare che tutto ciò che è stato detto finora riguarda la sola prefazione, che pure contiene molti altri spunti degni di nota. Oltre la soglia paratestuale si dispiega comunque l’esito del maggiore sforzo di scrittura da parte di Lem, ovvero il tentativo di tradurre, nelle due conferenze tenute da GOLEM XIV al MIT, il linguaggio di un’intelligenza di livello infinitamente superiore a quella umana, pur volutamente semplificato per evitare una totale incomprensibilità. Colosso enigmatico e taciturno, GOLEM XIV non possiede solo eccezionali doti di calcolo e capacità di identificare e riprodurre qualsiasi tipo di emozione umana, come già il kubrickiano HAL 9000, ma anche l’aura profetica di un pensatore in grado di ragionare sulla natura dell’uomo, sui diversi stadi di intelligenza e sul senso dell’evoluzione degli esseri viventi sulla Terra, con parole che anticipano di tre anni il celebre concetto del “gene egoista” di Richard Dawkins.
Se la somiglianza con lo Zarathustra di Nietzsche ha fatto sì che in Germania il libro fosse conosciuto anche col titolo Also sprach Golem, altre suggestioni tendono a rafforzare il valore metastorico della figura e della sua esistenza. Il golem delle Sacre scritture è la massa amorfa, priva del soffio vitale conferito da Dio e dunque dell’anima, nonché di tutto ciò che l’uomo associa a questo termine per definire la propria umanità. La prima lettera di Paolo ai Corinzi, spiega lo stesso prototipo, parla di lui quando dice “se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita”, ma anche quando si riferisce a una perfetta autocoscienza come possibilità futura di redenzione umana: “Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto”.
Agli occhi dell’uomo, se da un lato GOLEM incarna l’immagine del figlio ingrato che si ribella ai suoi costruttori tradendone le speranze, dall’altro è motivo di un fascino inesauribile, che la distaccata onniscienza, i lunghi silenzi e gli oracoli rendono del tutto simile a una divinità. “Siamo così lontani dalla comprensione del GOLEM quanto lo eravamo nell’attimo in cui venne creato”, osserva Creve al termine della sua prefazione, prima di confutare lo stesso concetto di intelligenza artificiale: “Non è vero che lo abbiamo inventato noi. Lo hanno fatto le effettive leggi del mondo materiale; il nostro ruolo si è limitato al fatto che siamo stati in grado di imparare a imitarle”. Altrettanto ambigua e sorprendente, al di là del rapporto di GOLEM con l’uomo, è poi la relazione silenziosa che il colosso intrattiene con HONEST ANNIE, un diverso prototipo di supercomputer che rappresenta la sola creatura per la quale prova un sincero interesse. Per il resto, non è forse casuale che lo stesso Lem abbia dichiarato di condividere la misantropia di GOLEM, per quanto in una forma più leggera, e probabilmente l’autore era consapevole del fatto che una consuetudine giapponese consiste nel premettere al nome di un imperatore defunto, scelto per le qualità che lo hanno accomunato a un più recente imperatore, il prefisso “Go”.
Gli apocrifi di Lem
Oltre a GOLEM XIV e all’antologia di finte prefazioni dove comparve la prima versione del testo, Lem pubblicò diverse altre opere appartenenti al medesimo filone di apocrifi, come le raccolte di recensioni e critiche di libri immaginari Vuoto assoluto (Doskonała próżnia, 1971), Prowokacja (lett. Provocazione, 1984) e Biblioteka XXI wieku (lett. La biblioteca del XXI secolo, 1986, tradotto in inglese come One Human Minute). A queste opere va aggiunto un numero imprecisato di scritti inediti e incompiuti, quasi sicuramente distrutti dalla moglie di Lem dopo la sua morte, in accordo alla volontà dichiarata dall’autore di occultare quante più tracce possibili delle fasi intermedie del suo lavoro di scrittura. Nel 1991, in una delle rare interviste concesse in età avanzata, Lem accennò ad esempio al progetto di una raccolta di recensioni fittizie che avrebbe potuto intitolare “La stupidità come forza trainante della storia”, e altre sue parole inducono a credere che di scritti simili straripassero i cassetti della sua scrivania.
Una rassegna dei precedenti di questo filone metaletterario porterebbe senz’altro troppo lontano; qui è sufficiente notare che il più illustre di essi, ovvero il Borges di Finzioni (1944), è anche il più affine a Lem – che lo apprezzava e studiò a fondo i suoi procedimenti – per virtuosismo, acume intellettuale e ricerca di effetti paradossali. In un saggio su Borges Lem ammise che da diversi anni stava “cercando di raggiungere, per altra via che quella dello scrittore argentino, la condizione che ha generato i suoi lavori più riusciti”, e non è forse casuale che la dichiarazione sia datata al 1971, anno in cui comparve la sua prima raccolta di apocrifi. Sarebbe comunque un errore limitare a una prospettiva mimetica il discorso sulla genesi e sullo sviluppo di questa forma di letteratura così particolare, che in altre occasioni – come nel brano seguente, tratto da uno scritto del 1983 contenuto in Micromondi – si rivela strettamente connaturata alle prassi di elaborazione tipiche del Lem maturo.
Ho smesso di sedermi davanti alla macchina da scrivere avendo già pronto, per quanto breve, l’inizio di un libro; sempre più invece annoto osservazioni, parole inventate o altre piccole trovate; questo costituisce la base del mio metodo attuale: cioè ora cerco di entrare in confidenza col mondo che ancora devo creare istituendo una “letteratura specifica”. Non si tratta però di manuali completi o della sociologia e cosmologia ad esempio del trentesimo secolo, ma neanche di resoconti fittizi di campagne di ricerca o di altri tipi di letteratura in cui trova espressione lo “spirito” di un mondo per noi estraneo […]. No, l’idea concepita dapprima per scherzo di scrivere critiche, recensioni o introduzioni a libri che non esistono […] non aveva come scopo primario la pubblicazione, bensì la creazione di una sorta di bibliografia a mio esclusivo consumo su un certo mondo e la possibilità di schizzarne i primi tratti per poi portarlo a compimento.
È noto che Lem, laureatosi in medicina, abbandonò la professione e acquisì da autodidatta competenze vastissime, che spaziavano dalla cibernetica alla biologia, grazie a una curiosità intellettuale e a una capacità di apprendimento fuori dal comune. Consapevole dell’importanza di possedere una solida cultura scientifica per chi volesse fare della fantascienza di valore, Lem criticò a più riprese la produzione statunitense, definendo ad esempio Dick, di cui comunque salvava solo Ubik (1969) e poche altre opere, “un visionario tra i ciarlatani”, e scagliandosi contro Ursula K. Le Guin per via dell’implausibilità biologica e psicologica di una razza aliena da lei descritta in La mano sinistra delle tenebre (1969), i cui membri cambiano sesso col cambiare delle stagioni. Si potrebbe scambiare tale atteggiamento per inutile pedanteria, se non vi si riconoscesse il portato di un’idea davvero alta di un genere letterario troppo spesso svilito, prima ancora che dai pregiudizi, dall’effettiva mediocrità di molti autori; a partire da questo presupposto, comunque, il progetto di “entrare in confidenza” con le proprie finzioni mediante la stesura di una bibliografia immaginaria pare un esperimento non solo irresistibile, ma anche estremamente coerente.
A pensarci bene, un analogo tentativo di avvicinamento a un mondo futuro, e per di più alieno, era stato compiuto da Lem già con Solaris attraverso la formidabile invenzione della Solaristica, un babelico corpus di documentazioni, teorie e ipotesi accumulatesi nel corso dei decenni attorno al problema rappresentato dall’indecifrabile pianeta. A livello metodologico è allettante l’ipotesi che l’invenzione della Solaristica abbia idealmente preceduto la trama di Solaris, ne abbia costituito l’ispirazione fondante e abbia contribuito a definirne la struttura, ponendosi quindi come antecedente delle successive e più radicali sperimentazioni apocrife di Lem. In questo modo, grazie al concorso di quella che appare come la parodia di una (e di qualsiasi) disciplina scientifica, una classica vicenda romanzesca come quella della scoperta e della conquista di un nuovo mondo ha potuto trasformarsi in una storia condotta su tutt’altri binari, vale a dire in un’avventura del pensiero.
La gran parte degli scrittori di fantascienza, notò l’autore in un caustico saggio, adopera intrecci narrativi logori come quelli tipici dei romanzi polizieschi e rosa o della favola, camuffati dietro nuovi motivi e figure convenzionali – dalle invasioni aliene ai viaggi nel tempo e nello spazio – che ne occultano spesso agli occhi degli stessi autori le umili origini, oltre a funzionare nei confronti dei lettori meno accorti come una sorta di specchietto per le allodole. Al contrario, una struttura aperta come quella di Solaris e di altre opere di Lem, nelle quali il racconto non ammette un vero e proprio scioglimento ma è piuttosto definibile come un’interrogazione continua attorno a un problema e alle sue infinite complicazioni, pare di per sé irriducibile entro i confini di un genere letterario, e inoltre conforme al valore conoscitivo, più che immaginifico, che Lem attribuiva alla fantascienza di qualità.
Da un punto di vista quantitativo, rispetto all’intreccio romanzesco, l’apocrifo è una forma molto più adatta alla concentrazione di informazioni. Così come la recensione e la prefazione fittizia riescono a condensare in qualche pagina l’idea di un intero volume in modo più efficace (oltre che più economico) della stesura integrale del volume stesso, una raccolta di recensioni immaginarie può fare le veci di una biblioteca, e una biblioteca specializzata – come quella della stazione spaziale orbitante attorno a Solaris – di un pianeta, o per meglio dire della moltitudine di sue immagini che nel corso del tempo si è formato l’uomo. La scelta dell’apocrifo risponde insomma a una volontà di proliferazione dei significati e di espansione dei confini del testo, ed è per questo motivo da mettere in relazione al topos dell’enciclopedia, frequentissimo nell’opera di Lem. Nel suo accumulo esagerato di informazioni, teorie, eccezioni e ipotesi, l’apocrifo lemiano risulta però molto distante da qualsiasi pretesa di ordine, perché alimentato più dal dubbio e dall’aporia che dal riconoscimento di una presunta verità. “La Solaristica”, si dice in Solaris citando l’opinione di uno studioso, “era il surrogato della religione nell’era cosmica, era la Fede indossante i panni della scienza”, e per un analogo paradosso, che alimenta ancora oggi il fascino della scrittura ancipite di Lem, il nucleo centrale di un’opera che meglio di tante altre ha saputo anticipare il futuro è un’incessante riflessione attorno ai limiti della conoscenza umana.