Viaggiatore del sessantesimo parallelo / A Sud dell’Artico
Fuga nordica
Partire l’estate vuol dire, per me, salire al Nord. Non che non ami il Sud, ma questa latitudine coincide, nella mia geografia personale, con un radicale spostamento ad Est, col Sud-est asiatico. Un doppio movimento che s’inabissa e vira ad oriente, un passaggio di equatore in cui si osserva il mondo sottosopra. Sentirmi sbussolato, questo è il mio sud. Più nitida l’idea del Nord: preparare lo zaino con l’essenziale, tenerlo sotto i dieci chili, e cominciare a salire senza tante paturnie.
Per questo capisco quelle famiglie italiane che, col camper, tirano dritti fino a Capo Nord e mostrano come un trofeo l’adesivo sul lunotto posteriore. Una voglia d’evasione dal Mediterraneo di segno opposto rispetto agli inglesi e agli scandinavi che affollano le coste greche, italiane e portoghesi. Per questo capisco meno quei connazionali che, d’estate, scelgono la Grecia, lasciando una sponda mediterranea per un’altra.
Il Nord è una fuga dal caldo appiccicaticcio, mai così dannoso come quest’estate: il 2018 è finora l’anno più caldo registrato in Italia dal 1800, sebbene siano stati colpiti altri paesi, dalla Francia alla Scandinavia, dalla California a Kyoto. Il Nord è una fuga dal monocorde cicalio, dalla botta di sonno postprandiale, dalle mura di casa come rifugio anti-afa, dall’asfalto dei marciapiedi cotto al sole come pane al forno, dai vestiti pezzati di sudore, dalle due docce al giorno, dall’inappetenza e la pressione bassa, dalle insolazioni e le scottature, dai gelati che squagliano i coni e appiccicano le mani.
Una fuga dagli stabilimenti balneari arpionati da classi di ombrelloni; dai corpi arrossati, rosolati, bruciati, spellati, invecchiati, incremati che deambulano in Italia a settembre; dalle mamme apprensive sulla battigia, accappatoio in mano, un occhio all’orologio, l’altro sui polpastrelli avvizziti dei figli; da abbuffate ittiche e rigatoni freddi aggrumati dal formaggio, ingurgitati da famiglie estese su tre generazioni; dai tormentoni sparati dalla radio che piacciano persino al nonno; dagli elogi sui benefici portentosi della salsedine; dalla nenia “cocco bello cocco”, da cui nessun Herbie Hancock locale ha mai tirato fuori una Watermelon Man.
Tuttavia per me il Nord coincide non solo con una fuga dal caldo, ma anche con una fuga dall’umano, con la ricerca di luoghi a bassissima densità umana, convinto, a torto o a ragione, che più salgo più il mondo si spopola. Parigi, dove vivo, è una città congestionata, con la concentrazione umana per chilometro quadrato più alta d’Europa (52.218) dopo Barcellona, lontana da Berlino (23.379) e da Napoli (22.113).
Salire comunque
Salire allora, salire a tutti i costi, ma salire dove? Come un videogioco in cui, battuto il mostro, si avanza al quadro successivo, l’importante è attraversare frontiere: da Parigi passo lo stretto della Manica, il muro di Adriano, quella che i Romani chiamavano Caledonia, il confine tra Inghilterra e Scozia.
Sul treno regionale da Inverness a Thurso le fermate sono a richiesta come su un autobus. Attraverso luoghi dai nomi sempre più celtici: Scotscalder, Altnabreac, Forsinard, Kibbnan, Helmsdale. Il linguaggio restituisce la lontananza. Difficile immaginare nomi del genere sulla riviera romagnola. Fuori dal finestrino scorrono laghi immensi e lande piatte e vuote, con pochissimi alberi, al di là della Tree Line. Se l’Highlands è così disabitata è a causa delle operazioni di clearences, espulsioni forzate della popolazione dalle terre comuni, una vera e propria diaspora. Le pecore, ci si rende presto conto, sono molto più numerose degli esseri umani.
Abbandonata la terraferma, attraversate le Orcadi, navigo da Kirkwall a Lerwick inoltrandomi oltre il sessantesimo parallelo. Un ininterrotto passaggio di frontiere, di quelle che storicamente delimitavano i confini, i limes del mondo conoscibile.
Un crepuscolo omogeneo rimpiazza il distinto succedersi del giorno e della notte. Una summer dim che manda in tilt chi non ci è abituato. I siti delle previsioni meteo parlano di “light rain showers”, accompagnato da “moderate breeze” o addirittura da “sunny intervals with light rain”, con un’icona per me inedita: una nuvola nera con le goccioline di pioggia che cadono e i raggi del sole che spuntano in alto a destra. L’arco di una giornata, se non della stagione estiva, in una sola immagine.
Spingersi oltre
“Far isn’t far”, motto della compagnia navale Northlinks, diventa la filosofia del viaggio. Se lontano non è mai abbastanza lontano, più salgo più sento che devo continuare a salire, invasato da una smodata voglia di nord che il valico di frontiere non è sufficiente a placare. Fin dove potrò spingermi? Me lo chiedo tentennando, consapevole del paradosso del nord: il suo raggiungimento non conduce a una terra dove albergare ma a un’inospitale distesa di acqua e ghiaccio. Si sale finché non c’è più niente, finché si abbandona l’idea stessa di luogo, finché si tocca la punta della terraferma davanti a una distesa d’acqua difficile da circoscrivere.
Nec plus ultra: il nord oltre i limiti dello sguardo, il nord come altrove. Di più: il nord come idea che nessuna frontiera può contenere. Non di nord dovremmo allora parlare ma di un’idea di nordità (northness) che ognuno porta dentro di sé, come insiste il libro di Peter Davidson, The Idea of North (Reaktion Books 2005, 2016, tradotto anni fa da Donzelli), che del nord ricostruisce la storia culturale. Lo prova il titolo, ripreso da un’emissione radiofonica del musicista Glenn Gould sul ruolo del nord nella mentalità canadese. Un contrappunto radiofonico risalente al 1967, quando il geografo Louis-Edmond Hamelin – curiosamente non citato da Davidson – parlava di “nordicité” in riferimento al Québec e all’emisfero boreale.
Viaggiando e leggendo mi convinco che ciascuno di noi sente distintamente il momento in cui raggiunge la sua nordità o nordicità. Da cui la mia frustrazione, perché non faccio altro che salire, con la sensazione che più salgo più il mio Nord si allontana.
Isola di Noss
Fino a un giorno in cui si produce un felicissimo equivoco. Seguo il consiglio di un tipo incrociato all’ostello di Lerwick che in realtà, come confesserà la sera mentre non finivo di ringraziarlo, mi aveva indicato un altro luogo, assai turistico e deludente. Un misunderstanding che mi conduce all’isola di Noss.
Per visitarla bisogna prendere la nave da Lerwick all’isola di Bressay, abitata da 350 persone, attraversarla da una parte all’altra, scendere per un sentiero scosceso che conduce a un’insenatura e… cominciare a fischiare in direzione di Noss. A un certo punto la guardiana, una ragazza dai lunghi capelli legati (e io che mi aspettavo uno schivo e barbuto uomo delle caverne!) si accorge di me e viene a recuperarmi in canotto, operativo solo quando mare e cielo sono calmi.
Eccomi a Noss, da visitare in senso antiorario o “widdergaets”, come si dice nelle Shetland. 774 acri di pascolo, 0 esseri umani (tranne la guardiana da aprile ad agosto), nel XIX secolo vivevano qui 24 persone, nel 1939 partì l’ultima famiglia, frequentata da allora solo da naturalisti come Richard Perry che dopo cinque messi trascorsi a studiare gli uccelli pubblica Shetland Sanctuary (1948). Nel 1955 Noss diventa riserva naturale, popolata d’estate da un milione di uccelli migratori che usano gli anfratti naturali nelle scogliere in pietra arenaria come nido e trampolino.
Sopra la mia testa volano bassi gli stercorari artici, che si precipitano in picchiata sull’uomo se si avvicina ai nidi. Volano gheppi, usignoli e piro-piro pettorali, sule, gazze marine, cormorani, gabbiani tridattili, rondini di mare e procellarie dei ghiacci. Volano i puffin, Fratercula arctica o fratellino del nord, un ibrido tra un pesce e un uccello che ricorda un pinguino in miniatura, vive 36 anni e cova un uovo all’anno. Sotto di me, nell’acqua, sguazzano foche grigie, urie o ceffi neri, beccacce di mare, delfini, squali elefanti, orche marine, che in inglese si chiamano “killer whale”.
Girando l’isola dentro di me si smuove qualcosa, all’inizio una sensazione di benessere che si traduce in un numero impressionante di fotografie; poi un’euforia crescente quando il cammino s’inerpica verso Cradle Holm e Charlie’s Holm (holm sta per isolotto). Finché la cosa s’impone con assoluta evidenza: ho trovato il nord, il mio nord. “Sono a Nord! Sono a Nord!”, ripeto ad alta voce invasato, attirando l’attenzione di un branco di pecore, spaventate dalle grida scomposte, ignare testimoni dell’agnizione a lungo spasimata.
Penultima Thule
C’è sempre un ma: l’isola di Noss non è l’isola più a nord delle Shetland. Potrei salire ancora, come non mancano di ricordarmi alcuni viaggiatori, quelli che ci tengono a esibire la loro esperienza: c’è l’isola vulcanica di Papa Strout e le sue grotte, ci sono i paesaggi sconfinati di Unst, ci sono, più lontane, le isole Farae dove la colonia di uccelli è più nutrita che a Noss e così via.
Tuttavia questi pseudo-consigli non hanno presa su di me: la mia spinta a salire si è smorzata, sono arci-pago. Il mio nord è a sud dell’Artico, un nord penultimo, un nord non turbato dal fatto che più in là c’è un nord più a nord che non visiterò mai, che c’è un “là” rispetto al quale il mio nord è meno settentrionale di quanto pensassi. Una penultimità che, anziché generare insoddisfazione, mi concilia con l’universo.
Un nord che si disfa del mito dell’ultima Thule. Citata dal navigatore e geografo greco antico Pitea, da Tacito come da Virgilio, è un’isola leggendaria, terra di fuoco e ghiaccio dove il sole non tramonta mai, raggiungibile in sei giorni di navigazione a nord della Gran Bretagna. Poco importa che s’identifichi con la Patria degli Iperborei, con la costa norvegese, con la Groenlandia o l’Islanda, con quell’isola affiancata da orribili creature marine disegnata da Olao Magno nella sua mappa del 1539, con la Società Thule (Thule Gesellschaft), popolata da ariani biondi e giganti che, per aver fornicato con membri di razze inferiori, hanno perso il dominio sul mondo.
Il mito dell’ultima Thule s’incrina per me nelle Shetland, che non sono la quintessenza dell’anima scozzese bensì un territorio ibrido e meticcio per metà scandinavo, con un dialetto influenzato dal norvegese.
Europa artica
Qui sull’isola di Noss accade, infine, l’impensato, l’aprirsi di una nuova prospettiva, un ribaltamento o una scuffia degli assi cardinali. A importarmi non è più la longitudine – cioè salire a ogni costo – ma la latitudine, non più la penultima, l’ultima o l’ultimissima Thule al di là del quale non c’è più alcuna Thule, ma una frangia dai limiti indefiniti e transnazionali. Un parallelo invisibile fatto di acqua e ghiaccio che attraversa una zona a me sconosciuta: l’Europa artica. Tocca le isole Shetland, Faroes e Svalbard, l’Islanda, la Groenlandia, la Finlandia, la Svezia, la Norvegia, la Lapponia e, al di là dell’Europa, Canada, Alaska, Siberia, San Pietroburgo.
La salita forsennata si trasforma in uno spostamento orizzontale, in un viaggiare per latitudine. Così divento un viaggiatore del sessantesimo parallelo. Non sono solo, come mi accorgo leggendo reportage e recenti travelogue, firmati da Joanna Kavenna (The Ice Museum: In Search of the Lost Land of Thule, 2005), Gavin Francis (True North. Travels in Arctic Europe, 2008) e Malachy Tallack (Sixty Degrees North. Around the World in Search of Home, 2015). Le loro parole si sovrappongono a quelle scritte secoli addietro, perché non esiste un viaggiare nello spazio che non sia accompagnato da un viaggiare nel tempo: Erodoto, Pitea, Karl Capek, Linneo, San Brendano, saghe islandesi, Richard Francis Burton, William Morris, Anthony Trollope, Auden, fino all’esploratore norvegese Fridtjof Nansen.
Tra le tante intuizioni contenute in questi libri, una di Tallack mi colpisce per la sua semplicità: “Più di ogni altra cosa, per chi vive lì, il nord è casa. Non è né remoto né isolato né lontano. E’ il centro del mondo”. Casa propria, come non averci pensato prima?, coincide col punto zero della bussola. Che sia in Groenlandia o in Antartico, tra gli Inuit o gli aborigeni australiani, a casa sei sempre al posto giusto per avvistare il mondo. E per costruire ed esplorare la tua nordità.