Una rilettura di Marcello Fois / Cuore: il libro degli italiani
Si può davvero tornare a Cuore, il libro di De Amicis del 1886, dopo che la cultura italiana dominante a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso lo ha tacciato di sentimentalismo, lacrimosità, buonismo e retorica? Marcello Fois sostiene di sì; anzi, di più: si deve. Proprio all’insegna di quelle accuse: che vanno capovolte in punti di forza.
Lo fa in un piccolo e rapido libretto che è un esperimento con l’etica prima che con la letteratura. Proviamo a capire perché. Il «libro Cuore», come per decenni è stato chiamato, come se lo statuto di «libro» ne potenziasse il genere letterario (che non poteva essere quello del romanzo, prodotto di finzione per eccellenza, ma neppure quello del diario o memoriale, che avrebbe presupposto una verità documentaria), ha influenzato l’immaginario di generazioni e generazioni, costituendo lo stampino dentro il quale si è svolta la narrazione della e sulla scuola, pure oltre l’Italia, fino ad approdare agli anime giapponesi. Che tale stampino abbia determinato la retorica pubblica del discorso sugli italiani, sempre così carico di eroismo, come dimostra soprattutto la cronaca sportiva, è l’assunto da cui parte Fois: non c’è pagina giornalistica italiana che non grondi sentimentalismo e retorica, nel nome di «madri separate, figli eroici, padri lontani, ricongiungimenti da oltre oceano, atti di microeroismo». Siamo intrisi di «cuorismo».
Non è difficile immaginare perché. Siamo «brava gente», come vuole una narrazione di lunga durata di quel carattere nazionale che Giulio Bollati e Angelo Del Boca hanno indagato così bene. Rappresentarsi eroici svincola dalla responsabilità di esserlo, affidando a chi si suppone tale quell’eroismo di cui noi stessi mai saremmo capaci, come diceva già la dedica al lettore di quello che è il primo grande romanzo della nazione italiana, Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Cuore offre una magnifica occasione per identificare l’italiano con quell’astrazione buonista che il libro rappresenta e che la retorica patriottica avrebbe accolto: generoso, altruista, umile, rispettoso, accogliente, affezionato, ecc.
Fin qui, il male di Cuore, risaputo; ma Fois va ostinatamente alla ricerca anche del bene. La retorica della brava gente, infatti, dimentica che Cuore non racconta la realtà dell’italiano, ma un altro mondo possibile, come già evidenziavano Pino Boero e Giovanni Genovesi in un bel libro di circa un decennio fa. Cuore è forse il primo romanzo utopico della letteratura italiana, proiettato nel futuro anziché nel presente, perché gli italiani di De Amicis sono desiderati anziché rispecchiati. Non esistevano allora e non sono mai esistiti dopo. Il libro dà voce a un ideale anziché al reale, come gli è stato a più riprese rimproverato. Risultando infine più complesso di quello che può sembrare, perché non è un catechismo laico di istruzioni per la vita associata, ma il prodotto dello stridere continuo tra l’insufficienza del mondo e l’assoluto dell’etica. Tutt’altro che quel manuale perbenista e piccoloborghese che tanto dispiaceva a Umberto Eco in apertura degli anni Sessanta, quando libertà, anticonformismo e soggettività risultavano parole senz’altro più affascinanti di integrazione, rispetto e dedizione.
De Amicis ha fondato quell’idea di scuola come comunità dell’accoglienza, inclusiva, si direbbe oggi, che allora non c’era e che dopo è stata tradita. Due ne sono le caratteristiche fondamentali: il maestro e la classe. Il maestro è colui che impartisce una lezione morale e dà il buon esempio, ma sa anche ascoltare e imparare dai bambini, proponente e raccoglitore insieme: da Il diario di una maestrina di Maria Giacobbe a Ricordi di scuola di Giovanni Mosca, dal programma Rai degli anni Sessanta Non è mai troppo tardi alla miniserie Diario di un maestro, Fois propone una rassegna di maestri a ciascuno dei quali sarebbe bastato sentirsi dire, come disse De Amicis del suo, di maestro, che «sapeva insegnare […] e rendeva la scuola piacevole». La classe è lo spazio delle differenze individuali che collaborano e convergono in un progetto di società anziché confliggere in competizione esasperata. Perciò è fatta di individui parlanti fin dal cognome, come Fois suggerisce in una bellissima pagina, entrando «nel cuore di Cuore» per ripercorrerne l’appello, da quel Bottini che deve fare tesoro dei racconti e ricordi, attraverso Precossi, «il passato remoto eroico», fino a Votini, «il vacuo», che non sa riconoscere il valore delle cose.
A chi pensa che la scuola debba fornire solo competenze e che debba formare all’affermazione del soggetto nella società a discapito dei valori della convivenza e della civiltà, Fois contrappone la scuola di De Amicis, perché «la razionalità del rispetto per la vita altrui non risiede nel tornaconto economico, elettorale, narcisistico, ma nella quantità di cuore che ancora abbiamo a disposizione». Un elogio di Cuore come libro del cuore, fondato sul cor-aggio, è ciò cui Fois c’invita – tralasciando di proposito la risposta immediata di Testa di Paolo Mantegazza, e forse dimenticando che di cuore è intriso anche Le avventure di Pinocchio. Socialisti erano entrambi, del resto, Collodi e De Amicis, la cui strumentale opposizione andrebbe ormai definitivamente lasciata alle spalle.
«De Amicis intercetta il prodotto: fare gli italiani; e inventa un claim: brava gente». In questa endiadi, che è anche una dicotomia, sta tutta la forza del suo libro, infinitamente manipolabile, ma anche continuamente produttivo, al punto da poter essere entrato nella propaganda cattolica senza avere nulla di cattolico, visto che l’eco della carezza del re al padre di Coretti giunge fino alle carezze di Papa Giovanni XXIII e allo spot più recente a favore dell’otto per mille alla Chiesa cattolica. Ci sono tuttavia due usi alternativi di questa invenzione del carattere nazionale operata da De Amicis: uno patologico e l’altro ideologico, tra cui Fois sembra continuamente oscillare.
Quello patologico utilizza tutto l’armamentario retorico del libro a fini di commozione estemporanea, esaltazione opportunistica e celebrazione occasionale; quello ideologico, invece, fa del libro uno strumento antagonista, che serve a contrapporre un’idea di società cui ambire alla realtà della società in cui viviamo. Che ci sarebbe di male nell’essere buonisti, se buonisti vuol dire ambire al bene, mentre la presunzione di bontà serve piuttosto a escludere il diverso? Che problema c’è nell’uso della retorica, se retorica vuol dire un dispositivo di costruzione del discorso anziché la strumentalizzazione del discorso a fini di manipolazione del destinatario? Sentimentalismo e lacrimosità a loro volta possono veicolare una disponibilità verso le emozioni anziché risultare solo facile concessione a un’irrazionalità che si presume infantile. Scrive Fois in un impulso di virtuosismo poetico:
Cor-aggio è dunque un carburante sociale, un gradiente attraverso il quale è possibile concepire ac-cor-di. Cioè sintonie. Un cor-o dove si possa cantare insieme ma ognuno con la propria voce in un ambiente non corroso dall’egoismo. Cor-aggio è una dose di cardio-tonico, una stilla di autocoscienza in questo universo di doppie moralità e ambigue convenienze. [...] Il cor-aggio non ha misura certa, non ha una densità precisa, non è frutto d’esperienza. Se ne può trovare in quantità immense in un giovane cuore adolescente come in uno stanco cuore anziano. E può non essercene una stilla in un roboante cuore adulto. Il cor-aggio può essere solo proclamato, o solo raccontato, o solo millantato.
Fois si trova in sorprendente sintonia con Henry Miller, che a 87 anni riscopriva Cuore commovente come quando l’aveva letto per la prima volta, a otto o dieci anni. Amava il libro di De Amicis, Miller, che lo considerava «an adult’s book» e vi riconosceva «[the] portrayal of a little cosmos». Puro riflusso sembrerà, invece, la posizione di Fois a chi è cresciuto dopo il Sessantotto e gli anni Settanta, se si pensa che quasi cinquant’anni fa, ormai, Alberto Asor Rosa invitava a considerare Cuore il sintomo del problema italiano, perché «il predominio del cuore nella cultura media italiana degli ultimi due-tre secoli» era «l’inevitabile conseguenza di una carenza delle facoltà esattamente opposte, cioè quelle cerebrali e raziocinanti». Fois capovolge però le equivalenze tradizionali tra cuore e irrazionalità e ragione e maturità per rivalutare la carica utopica e l’efficacia comunicativa di un libro che gli sembra antidoto ideale alla superficialità, agli egoismi e alle violenze del nostro presente.
Per farlo, mette da parte le tradizionali critiche allo stile assertivo, al linguaggio banalizzante e alla narrazione piatta di De Amicis per concentrarsi su quello che possiamo chiamare l’impatto di Cuore nel discorso pubblico nazionale, con una prospettiva che coinvolge antropologia, ricezione e propaganda. Perciò ne recupera la spinta propulsiva oltre che metterne in rilievo gli abusi didascalici. Brava gente non lo siamo e non lo siamo mai stati; ma ambire a esserlo, in un orizzonte comunitario che parta dalla scuola, potrebbe non essere spiacevole. Spiacevole è invece pretendere di esserlo, come nella narrazione giornalistica delle tante imprese degli italiani che non rappresentano la collettività, ma, appunto, la assolvono. Cuore ha fornito materiali agli uni e agli altri: ritornare a ripensarli, senza inutili pregiudizi a favore dell’italianità come orgoglio nazionale (come suggerivano in conversazione Ernesto Galli Della Loggia e Aldo Schiavone in un libro comunque importante di un decennio fa) oppure contro l’italianità come categoria solo esclusiva (come proponeva qualche tempo fa Christian Raimo in un altro libro senz’altro da leggere), potrebbe essere un modo per chiarire da che parte si sta e come ci si sta.
«Cuore è un selfie: la nostra immagine come dovrebbe essere, ma come non è». Che possa diventare un reagente per cambiare il punto di vista, proporre un’alternativa al presente, recuperare i sentimenti e le virtù del tempo che fu, è ipotesi suggestiva, perché la letteratura, quella buona, dovrebbe essere sempre spazio per operare uno spostamento e riaprire la partita. In un tempo, il nostro, in cui il manuale di storia e antologia della letteratura italiana più diffuso nelle scuole superiori si chiama Cuori intelligenti, con un ossimoro che guarda alle radici sette-ottocentesche della modernità anziché proiettarsi verso il futuro, è certamente arrivato il momento di fare i conti col rapporto tra emozioni e valori – ripartendo magari da quell’erotica della didattica che tanto sta a cuore, per l’appunto, a Massimo Recalcati: Perboni non ha nulla di sexy, ma è certamente il primo interprete italiano di quel modello, tra il seduttivo e l’istruttivo, che sarà di lunga durata nell’insegnamento scolastico nazionale. Fino al rischio di consentire con Indro Montanelli, che a chiusura del secolo scorso invocava, difendendo proprio De Amicis dalle accuse di chi ne ricordava la fama (discutibilissima) di violento in famiglia: «Dio volesse che, di scrittori e d’insegnanti così, ce ne fossero ancora in cattedra».E di strizzare l’occhio a Susanna Tamaro, rileggendo il sottotitolo.
Ritorno al tardoromanticismo mélo e larmoyant, dunque? A quelle «passioni tristi», individualiste e claustrofobiche, che Miguel Benasayag e Gérard Schmit additavano come responsabili di una società senza legami? Ora che si tende a privilegiare la difesa della salute del corpo senza quasi curarsi dei suoi aspetti più riposti e segreti, Cuore potrebbe tuttavia diventare una risorsa. Rapsodico, pieno di intuizioni stimolanti che illuminano l’intelligenza e di passaggi frettolosi che si vorrebbe distesi in un più ampio e articolato ragionamento, il libro di Fois potrà spronare la discussione su due questioni fondamentali: fino a che punto l’italianità va rivista come categoria utopica anziché descrittiva; e fino a che punto il tecnicismo oggi egemone ci sta facendo perdere di vista ideali, orizzonti di senso e potenzialità emotive che potrebbero dare anima a una nazione e a una scuola che sembrano non avercela più.