25 novembre 1970 / Yukio Mishima nell'inferno delle forme

25 Novembre 2020

Se fosse possibile stabilire, in tutta la sua ampiezza, un canone della letteratura che ha preso le mosse dalla catastrofe delle due guerre mondiali, Yukio Mishima non sfigurerebbe affatto quale tardivo rappresentante di quella frangia di scrittori che si espressero sotto un segno – per riprendere una sua celebre sentenza su Hitlercupo come il XX secolo.

"Tardivo" e "cupo" poiché rispetto agli ideali della generazione di intellettuali alla quale egli apparteneva – Mishima era nato nel 1925 – la visione del Giappone del dopoguerra restituita dai suoi romanzi ricalca con precisione i modelli formali e stilistici dell'estetismo borghese europeo di matrice decadente, rievocando tematiche e atmosfere proprie dell'epoca della crisi che investì la cultura occidentale a seguito della Prima Guerra Mondiale.

Il sentore di minaccia e di fine imminente, le laceranti scissioni dell'io, la visione idealizzata di un tempo perduto che promanano dalle sue opere, investono in pieno anche la sua figura, che oggi ricordiamo nel cinquantesimo anniversario della scomparsa.

 

 

Vi è in Mishima in effetti una coincidenza impressionante tra l'autore e l'opera sulla quale pesa in maniera pervasiva il ricordo del suo tragico destino, del gesto brutale col quale egli pose fine alla sua esistenza nel giorno stesso in cui (secondo la leggenda) egli consegnava all'editore le ultime pagine del suo lavoro più ambizioso, la tetralogia Il mare della fertilità, vera e propria opera-mondo nonché sintesi e vertice, al tempo stesso, di una produzione intellettuale stratificata lungo il corso di una vita intera. 

Al netto delle letture esotistiche del personaggio, le ragioni dello straordinario successo editoriale e della profonda affezione nutrita nei suoi riguardi dai lettori occidentali risiedono proprio in questo suo riallacciarsi a una tradizione ben riconoscibile ai nostri occhi, a una scuola di pensiero culminata nelle grandi narrazioni degli anni '20 e '30 del Novecento e che affonda le sue radici nei meandri della cultura romantica con tutte le sue – talvolta problematiche – emanazioni.

Illustre esponente di una civiltà assai ben disposta ai prestiti culturali, Mishima era inoltre figlio di un'epoca in cui il Giappone guardava all'Europa con ammirazione e malcelata soggezione, che si traducevano da un lato in una rincorsa frenetica sul piano delle scelte economiche e politiche, dall'altro nell'adozione di mode, stili e atteggiamenti occidentali da parte dell'élite cui egli apparteneva: i suoi studi documentano un interesse vivissimo per la tradizione artistica europea che chiarisce non soltanto il profondo influsso della dottrina nietzscheana dell'apollineo e del dionisiaco sul suo pensiero e la predilezione per autori quali Hofmannsthal, Mann, Rilke e Bataille, ma anche la sua parossistica ossessione per la forma scultorea del corpo, elemento totalmente assente dai canoni di bellezza tradizionali del Giappone.

 

 

Al tempo stesso egli intratteneva con la sua cultura di appartenenza un rapporto di profonda devozione, nel quale si rifletteva con drammatica urgenza la sua idea mitica del Giappone e dell'Imperatore quale suo simbolo incarnato, che ha dato origine all'inquietante figura del Mishima degli ultimi anni, fanatico nazionalista e fautore di una visione retrograda e sciovinista della società.

Sotto l'influenza del buddhismo, il popolo giapponese ha sempre guardato con profonda diffidenza al pensiero dualista; Mishima, al contrario, ha consumato la sua intera parabola esistenziale sotto il segno del doppio, e la dicotomia inconciliabile tra la penna e la spada, che egli ha tentato di ridurre ad un unicum attraverso l'autodistruzione, ha stabilito i termini del contrasto tra i due personaggi, il raffinato scrittore e l'intrepido guerriero, nel quale è pressoché impossibile non cogliere tratti di schizofrenia o quantomeno di un devastante malessere morale.

A sentir lui, la figura pubblica dell'intellettuale, dell'esteta che amava mettersi in mostra alla maniera di una vedette e che era stato autore di romanzi controversi ma di grandissimo successo, altro non era che una posa, una maschera dietro il cui sorriso sprezzante si celava il disgusto per l'abbandono delle tradizioni marziali del Giappone, per la svalutazione del ruolo dell'Imperatore, per la dissoluta insipienza dei giovani e, in particolare, per la loro conclamata incapacità del sacrificio supremo nel nome di un ideale quale che fosse – insomma il tipico armamentario crepuscolare degli intellettuali votati al disprezzo per la vita e al culto dell'eroismo ferale.

 

 

A ben guardare però, un carattere profondamente teatrale, improntato all'apparenza, sosteneva tutta l'architettura di questa pantomima militarista: la fascinazione feticistica per il corpo, il culto delle uniformi e delle parate militari, la modalità, codificata dal rituale, con la quale egli scelse di darsi la morte, sono spie di un delirio narcisistico che fanno sospettare circa l'autenticità delle sue bellicose intenzioni.

Il momento fatale in cui, secondo i suoi piani, si sarebbe dovuto stabilire l'agognato equilibrio tra le due forze contrapposte della parola e dell'azione, si tradusse nel punto di rottura di una coscienza lacerata e il principio stesso di identità andò a scomporsi nel gesto velleitario che consegnò la sua memoria a un sinistro teatro d'ombre.

In questo senso è interessante notare che, per tramite del suo estremo atto di volontà, Mishima si proponeva di cancellare quelle che egli definiva le illusioni del modernismo circa la possibilità di dividere l'opera d'arte dal dato biografico del suo artefice, ma che in effetti quel che rimase in campo dopo la tragica fine fu solo e soltanto la sua opera stessa. Tolto di mezzo l'artista su un palcoscenico e con un colpo di katana, la biografia si riduce infatti agli inquietanti interrogativi che aleggiano intorno alle sue maschere e che tutt'ora mantengono in vita l'ingannevole gioco di specchi nel quale esse si riproducono all'infinito.

 

 

The whole man must move at once era il motto – coniato da Joseph Addison – del quotidiano inglese "The spectator" (1711-1712), che venne ripreso da Hugo von Hofmannsthal due secoli più tardi, nel racconto Briefe des Zurückgekehrten (1907) ispirato a Kokoro (1905) di Lafcadio Hearn, uno dei primi tentativi occidentali di penetrare nel cuore della cultura e della mentalità giapponesi. Il curioso transito di questa sentenza, dalla foresta vergine del primo Settecento sino ai lidi limacciosi della decadenza e della crisi del linguaggio, permette di osservare la trasformazione di tale energica esortazione all'unità spirituale dell'uomo nel malinconico anelito verso un paradiso perduto, verso una terra al riparo dalla storia e ancora in grado di vivere nel profondo tale unità, che Hofmannstahl collocava in un oriente ideale. Questa dicotomia tra occidente in declino e oriente quale luogo di un ordine spirituale superiore è indizio peculiare dell'atteggiamento di sfiducia nella realtà di cui si è nutrita la generazione degli intellettuali europei della prima metà del XX secolo ai quali Mishima si rifece nel concepire il suo testamento editoriale.

 

Il mare della fertilità condivide con opere quali La montagna magica o L'uomo senza qualità l'idea di un mondo al tramonto e in preda al disordine, procedendo lungo una linea narrativa che accompagna la vita del protagonista Honda attraverso tre generazioni e settant'anni di storia del Giappone, cui corrisponde un ordine semantico implacabilmente orientato verso la rovina: la visione idealizzata della giovinezza rappresentata, nel primo libro della serie, dall'amore puro e senza speranza di Kiyoaki e Satoko, si traduce nell'integrità morale tradita del giovane cospiratore Isao, protagonista del secondo, per poi sbiadire nel mondo delle apparenze che lambiscono la bellezza della principessa Yin Chan nel terzo, e naufragare infine nello squallore di una vecchiaia consumata tra solitudine e masochismo voyeurista nell'ultimo.

Alla maniera degli autori europei, per Mishima il significato della decadenza si poneva nei termini del rimpianto per un mondo ideale il cui fondamento, unitario e incorruttibile, si era dissolto nel vortice delle antitesi generato dalle catastrofi del divenire che, nel romanzo, prende la forma degli interrogativi senza risposta circa le presunte reincarnazioni di Kiyoaki, veri e propri fantasmi di un tempo perduto che perseguitano Honda fino all'ultimo dei suoi giorni.

 

 

Se però, per noi occidentali, la ricerca di un'unità spirituale di fronte a un mondo fatto di contraddizioni si pone nei termini di una conciliazione dialettica tra gli opposti che si realizza nell'opera d'arte, per il giapponese Mishima l'illusione del dualismo che sta alla base di tutte le contraddizioni va eliminata alla radice tramite la disintegrazione nel vuoto dell'opera d'arte stessa. La sconvolgente conclusione di Il mare della fertilità sancisce, in questo senso, una ideale liberazione dai tormenti del mondo superando la questione delle antinomie del reale secondo dettami squisitamente orientali: a partire dall'idea della relatività del tempo – sostenuta dal motivo narrativo della reincarnazione che pone l'opera intera sotto l'influsso del pensiero del buddhismo Mahāyāna – il romanzo si chiude con un esplicito rimando alla dottrina della sola coscienza della scuola Yogācāra (in Giappone Yuishiki) dalla quale scaturirà la domanda esistenziale circa la reale natura dell'essere che precipiterà il vecchio Honda, e con lui il lettore, sul sentiero che conduce alla definitiva dissoluzione delle apparenze.

 

È dunque a queste ultime parole, e non tanto a quelle del delirante proclama che precedette il suicidio, che occorre rivolgersi per intravvedere la soluzione dei terribili dilemmi che avevano torturato Mishima sin dalla più tenera età: le antitesi tra oriente e occidente, arte e vita, io e mondo, penna e spada, una volta ricondotte alla loro reale natura di forme illusorie del divenire, si risolvono nel vuoto che pone fine ai tormenti di una coscienza finalmente liberata dalle proprie catene.

Nel confronto tra le due vie di liberazione percorse da Mishima, riconducibili l'una a una dottrina filosofica altamente speculativa quale è quella Yuishiki, l'altra alla filosofia dell'azione e del gesto inconsulto propria della scuola Zen, è dunque nella prima che per noi occidentali risiede la possibilità di riconoscere la grandezza di un pensiero straordinario.

Per tramite di un'opera d'arte la cui potenza è ancora in grado di illuminare il nostro sentiero, a mezzo secolo di distanza dal giorno crudele in cui esse si spensero, le parole di Yukio Mishima risuonano ancora nei nostri cuori.

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