Mostre / Lettera da Londra
Stansted è un orrendo centro commerciale, con i gates nascosti il più lontano possibile dietro infiniti shops pieni di After Eights, gin Beefeater, e tutti gli altri simboli commerciali del folklore britannico, incluse le immancabili tazze dell’ultimo royal wedding. Mentre le persone corrono al volo, annunciato il più tardi possibile, perché non si perda nemmeno un secondo delle infinite opportunità di acquisto offerte al passeggero, sale il caldo, essendo l’anno della più radicale heatwave, dopo quella del 1976, che benedisse, in un panorama urbano sinistro e cosparso di rifiuti (per via di un lungo sciopero delle imprese della nettezza) le profetiche urla del punk. I corpi sono al centro della stagione estiva delle mostre: distorti, aggrediti, mutati, cambiati al punto di essere irriconoscibili, essi sono la linea della stagione estiva delle mostre.
In primo piano, alla National Portrait Gallery, una notevolissima esposizione, curata da Nicholas Cullinan, che scrive nell’ampio catalogo insieme a Zadie Smith e ad altri, sulla presenza nella cultura pop di Michael Jackson, che dalla più tenera infanzia, star assoluta del suo gruppo familiare Jackson 5, fino ai massimi trionfi e ai personali disastri, è divenuto specchio di una trasformazione radicale, disperata, suscitando risposte spesso aguzze da parte di artisti e scrittori. Il titolo On the Wall gioca perfettamente sul primo, magnifico, fortunatissimo disco da solita: Off the wall, uscito con clamore nel 1979. In primo luogo la metamorfosi è nelle opere commissionate dal “re del pop” per dischi e spettacoli: come la sinistra copertina citazionista di Dangerous, opera di Mark Ryden, in cui ormai del cantante rimangono soltanto gli occhi, mentre intorno una selva di icone costruiscono un freak landscape, tra cani e regine di Inghilterra.
David Lachapelle lo aveva ritratto insieme a una danzatrice in equilibrio su cubi luminosi, in una immagine intitolata Illuminating Path, ed è tornato sulla sua icona, a nove anni dalla morte controversa del cantante, con una serie di immagini di Pietà, opere devozionali di una moderna sensibilità tra fashion e pubblicità, intitolate provocatoriamente American Jesus. Insieme a un ritratto di Keith Haring, colpiscono soprattutto i lavori di artisti diversissimi tra loro che segnalano gli aspetti diversi e spesso contraddittori della sua esistenza. Centrale è, ovviamente, l’incontro con Andy Warhol, intorno ai geniali riti mondani di Interview, a cui è dedicata una sala, ma colpiscono le foto di Catherine Opie, che trova il fantasma di Jackson sui comodini dell’ultima dimora di Liz Taylor, i lavori sull’immagine tritissima del divo bambino di Graham Dolphin. Dan Mihaltianu indaga su The Last days of Michael Jackson in Bucarest, dove il concerto, tenuto poco dopo la fine di Ceausescu, diventa il simbolo della libertà ritrovata, mentre Candice Breitz indice un concorso per fanatici jacksoniani che possono scatenarsi a interpretare il loro idolo.
Alla Tate Britain Aftermath indaga, tra produzioni francesi, inglesi e tedesche sulla memoria bruciante della Prima Guerra Mondiale, soprattutto insistendo, giustamente, sui corpi distrutti, sfregiati, rovinati. Memorabile la presenza di Otto Dix e Georg Grosz (scelto per l’immagine del manifesto), che scelsero i mutilati per rappresentare le storture di Weimar, ponendo, per solito, gli invalidi, ridotti a vendere fiammiferi in strada, insieme ai profittatori di guerra, secondo una visione immortalata dal mirabile libro di azione pacifista Krieg dem Kriege di Ernst Friedrich. Nel Regno Unito, invece, i war artists testimoniavano i disastri sul volto di persone rovinate per sempre, a scopo di documentazione medica, immagini che dovevano essere tenute segrete, mentre i mutilati francesi, organizzati nella associazione Les gueules cassés (le facce rotte) che pretese di partecipare ai lavori del Trattato di Versailles, per testimoniare un disastro sociale che le grandi potenze non prendevano in considerazione. Dai corpi distrutti, a quelli in vendita delle scene metropolitane notturne, in cui dopo l’immane conflitto, tutto muta violentemente. In questa sezione, oltre alla produzione tedesca mirabile in area nuova oggettività (Jeanne Mammen, il durissimo Christian Schad), si segnala il talento inquieto di Edward Burra, che rimbalzava tra Fitzrovia e Harlem raccontando scene notturne di sesso, attrazione e desolazione.
Corpi deformati, riflessi nello specchio ustorio della creazione artistica novecentesca, sono in scena anche nell’altra notevole esposizione alla Tate Britain: All to Human. Bacon, Freud, and a Century of Painting Life. Al cuore di questa ricchissima esposizione una linea inglese di rappresentazione del corpo, che ha il suo momento centrale tra Bacon e Freud, ma che si origina nella pittura spietata di Walter Sickert, per arrivare alle rappresentazioni di interni con freaks di Paula Rego e oltre. Immensa la presenza di George Dyer, modello-vittima-eroe di Bacon, di cui aveva incarnato benissimo l’esistenza dolente Daniel Craig nel bel film Love is the devil, che è in mostra anche negli scatti impietosi di John Deakin. Freud spicca per la collaborazione con il performer e drag artist Leigh Bowery, ma è difficile scordare il celebre ritratto con il cane del suo collaboratore e amico David Dawson.
Fuori c’è la heatwave: i turisti scattano selfie contro un crepuscolo caraibico sul Tamigi, mentre i commuters, tornando alle dimore suburbane, ribadiscono che è la peggiore estate, appunto, dopo quella lontana e memoranda, e spaventosa, del punk.