Italian Life / Tim Parks: l'infelicità in Italia è l'esclusione
Perché all’università il voto più alto che si può prendere a un esame è trenta, mentre alla discussione di laurea è centodieci, lodi a parte? Non avrebbe più senso che entrambe le valutazioni fossero espresse, che so, su una scala che va da zero a cento, o da uno a dieci? Queste sono domande che probabilmente molti di noi, nativi italiani, non si sono mai posti, forse perché è sempre stato così, e le cose che sono così da sempre sembrano naturali, come devono essere. Ma se uno è nato e cresciuto in un altro paese e ha frequentato altri sistemi scolastici, questo bizzarro modo di valutare salta subito agli occhi, così come a un italiano sembra illogico e inutilmente complicato il sistema di misurazione anglosassone fatto di pollici, piedi, iarde e miglia. Sono le tipiche domande che scaturiscono dalla curiosità stupita dello straniero, curiosità che lo spinge a chiedersi il perché delle cose, un po’ come fanno i bambini, quando cominciano a interrogarsi sul mondo, e partono con la sequela interminabile dei perché che mette alle corde i genitori.
Tim Parks, nel suo ultimo libro, Italian Life (2021) – uscito a distanza di pochi mesi in inglese da Vintage (2020), e da Rizzoli nella traduzione italiana di Eleonora Gallitelli – ci spinge a ri-assumere quel benefico spirito curioso e inquisitorio proprio dei bambini, e a guardare da un altro punto di vista la nostra quotidianità.
Leggendo il libro si trovano risposte a domande forse irrilevanti come quella relativa alle modalità di valutazione all’università (tra parentesi: trenta perché una volta agli esami erano presenti tre commissari ciascuno dei quali aveva la possibilità di assegnare un voto da zero a dieci: somma massima trenta; mentre alla discussione di tesi erano previsti 11 professori, ciascuno con i soliti dieci punti a disposizione: somma centodieci), ma si trovano anche interrogazioni indirette e urticanti, spesso senza risposta, sul nostro modo di comportarci e di costruire, anche attraverso il linguaggio, la comunità in cui viviamo.
Ecco un esempio, sempre relativo agli esami universitari, di come una espressione metaforica che usiamo quotidianamente, se letta con uno sguardo diverso, si carica di valenze inaspettate. Scrive Parks nella versione di Gallitelli:
È stato bocciato. Stranamente sembra che il termine derivi dal gioco delle bocce, dove ‘bocciare’ significa usare la propria palla per colpire quella dello sfidante in modo da allontanarlo dal pallino. Una mossa subdola e aggressiva che impedisce all’altro di vincere. Sono stato bocciato. Sono stato allontanato, se non proprio escluso, distanziato. ‘Mandato via’ è un’altra espressione che si usa per gli esami. O ‘respinto’. In tutte queste formule c’è l’idea di un soggetto – un professore, un insegnante, una commissione – che ha compiuto una scortesia verso qualcuno. Non si usa mai un semplice verbo intransitivo come l’inglese I failed. (p. 57)
In effetti, a ben pensarci, c’è una bella differenza fra “mi hanno bocciato” e “ho fallito”. In un caso si subisce un’azione di altri, l’accento è posto sull’altro che può accettarti o respingerti; nel secondo caso invece il soggetto sembra portare su di sé la responsabilità dell’esito della propria azione. Se si è bocciati si è più legittimati a lamentarsi per una eventuale ingiustizia ricevuta, se si fallisce si resta ammutoliti, magari con la coda fra le gambe. Che si viva in un mondo creato anche da metafore usate spesso in modo automatico e inconscio, lo sappiamo anche grazie anche agli studi di linguistica cognitivista di George Lakoff e Mark Johnson come il canonico Metaphors We Live By del 1980, ma fa sempre un certo effetto quando veniamo richiamati a considerare quelle metafore, a leggerle non come metafore sclerotizzate, ma come figure retoriche cariche di allusioni e implicazioni più profonde.
Il libro di Tim Park non è tuttavia un libro di linguistica, anche se indugia con mano leggera, critica e divertita sulle pratiche e sui cerimoniali della lingua che accompagnano la vita in Italia, dai discorsi ufficiali del potente di turno alle quotidiane conversazioni telefoniche fra madri e figlie.
Che genere di libro sia Italian Life non è facile a dirsi. È senz’altro un romanzo corposo, più di 400 pagine, divertente e amaro, che racconta della vita dei due protagonisti: James, un inglese che ha deciso da quarant’anni di stabilirsi in Italia, di sposare un’italiana, di avere figli italiani, e di cercare di entrare nel mondo dell’università o più in generale di sentirsi a casa in questa terra di adozione, senza essere sempre e solo uno straniero, un outsider; e Valeria, “uno spirito libero” (p. 35), una giovane studentessa lucana che decide di trasferirsi al Nord, a Milano, per proseguire gli studi universitari, nella speranza di entrare anche lei a far parte di quel mondo, liberandosi da una intricata serie di vincoli familiari:
Negli anni Valeria imparerà che staccarsi da casa non è semplice come trasferirsi a Milano. Con ogni nuovo ragazzo si presenterà la questione di come verrà visto in casa sua e come lei verrà vista in casa di lui. Uno dei due verrà rifiutato? Oppure tra i genitori si creerà una tale amicizia che la coppia verrà spinta verso un matrimonio che non vuole o per cui non si sente pronta? (p. 41)
Il romanzo ruota attorno al tema dell’inclusione e dell’appartenenza a un clan, sia esso un gruppo di potere come quello del mondo accademico, con i suoi riti spesso patetici e ipocriti, oppure un gruppo familiare a volte insopportabilmente invadente e soffocante. In entrambi i casi i due protagonisti devono vedersela con quel patto di fedeltà totale e di sottomissione che i clan impongono, pena l’esclusione e la conseguente condanna ad essere irrimediabilmente degli estranei, degli outcast, anche perché, ed è una delle ipotesi del libro, “l’infelicità in Italia è l’esclusione” (p. 94). Le storie dei due protagonisti corrono parallele, a volte si intrecciano: percorsi non dissimili di formazione, che si dispiegano fra nord e sud della penisola, in un veloce vortice di incontri e abbandoni, amicizie e amori naufragati, aspettative e delusioni, invidie e incomprensioni.
Ma Italian Life non è solo un romanzo che ti spinge ad andare avanti con passo veloce nella lettura per vedere che cosa succederà a James e Valeria, ai colleghi dell’università e al gruppo degli studenti fuori sede. Molti capitoli potrebbero vivere anche autonomamente, al di fuori della trama del romanzo, come brevi personal essay, sciolti vagabondaggi della mente, come li definì Samuel Johnson, saggi di osservazione e riflessione, tipici della letteratura anglosassone, da Charles Lamb a Phillip Lopate. Qui il narratore gioca sul piano della finzione e della realtà, muovendosi liberamente fra aneddoti personali e riflessioni antropologiche. Si legge di esperienze di un personaggio di carta, ma si sente la voce credibilissima di un narratore che scrive indirettamente, in terza persona, pagine di una propria autobiografia. James ha molti tratti che assomigliano all’autore: come Tim Parks, prima di approdare in Italia, studia in un prestigioso college inglese poi in una Ivy league Americana; come Tim Parks inizia a lavorare come lettore in un ateneo veneto, per poi diventare professore di Inglese in una università milanese; come Tim Parks è sconcertato dalla ipocrisia delle istituzioni. Ma James non è Tim Parks e anche per questo può permettersi di raccontare dei clan dei premi culturali o dei clan dei poeti o dei professori universitari con pungente ironia e spesso con sferzante cinismo.
Romanzo, Personal essay, Italian Life è anche un libro di antropologia letteraria perché la narrazione delle vicende dei due protagonisti è accompagnata da una serie di riferimenti a racconti o fiabe o romanzi ripresi dalla tradizione letteraria italiana. Si va dai numerosi riferimenti e lunghe citazioni del Cunto de li Cunti di GianBattista Basile, a Natalia Ginzburg, Primo Levi, Verga, Silone… Le fiabe di Basile, riraccontate o riportate nella versione originale, così come tutti gli altri riferimenti diventano una sorta di contrappunto alla trama del romanzo, sono diverse ma nello stesso tempo confermano come certi modi di essere propri di tanti dei personaggi che popolano il romanzo mossi dall’invidia, dall’opportunismo, dall’ipocrisia, che scompaginano le storie di James e Valeria, siano repliche di altri modi di essere finemente rappresentati in pagine della letteratura italiana scritti decenni e secoli prima, testimonianza della persistenza di peculiarità di un carattere nazionale che poco ha che fare con i luoghi comuni degli “italiani brava gente”.
Italian life è un libro che non lascia indifferenti, grazie a questa sua a volte cinica capacità di “andare più a fondo: di arrivare al cuore, alla struttura che produce il bene e il male, il meraviglioso calore di questa terra e la sua sistematica crudeltà” (p. 11). E sarebbe interessante approfondire la differenza fra il testo inglese e la sua versione italiana, leggibilissima e tradotta con precisione da Eleonora Gallitelli. Già le due copertine indicano con chiarezza i due diversi target di lettori a cui è indirizzato il libro. L’immagine dell’edizione inglese è una fotografia di una coppia di giovani, stretti, su una vespa bordeaux, che transita davanti a antiche costruzioni romane, chiara rivisitazione della locandina di Vacanze romane, stereotipo nel mondo anglosassone di un’Italia affascinante ma fuori dal tempo. Nella copertina italiana spariscono i due giovani innamorati e la fotografia è sostituita dal disegno di un portico e di una vespa, questa volta verde, più simile a quella di Nanni Moretti di Caro Diario che ci racconta di un’Italia molto diversa da quella di Gregory Peck e Audry Hepburn.
Anche i due sottotitoli sono diversi: “A Modern Fable of Loyalty and Betrayal”, diventa “Una fiaba moderna di amori, tradimenti, speranze e baroni universitari”, rendendo esplicito un tema, quello delle baronie accademiche e del degrado del sistema universitario, che in Italia ha avuto una recente fortuna editoriale. Difficile restituire “baronie accademiche” in un’altra lingua. In termini tecnici potrebbe rientrare nella categoria dei culturemi o realia, termini culturospecifici, anche se l’espressione “meat market” con cui si etichetta quello snervante evento dei colloqui di lavoro che ha luogo annualmente ai grandi convegni delle discipline accademiche in America non è meno inquietante.
Ma la cosa che colpisce di più leggendo le due versioni del libro è come cambino il narratore implicito del romanzo e il suo lettore implicito. Un esempio. Il narratore, dando voce a James, riflette sui vantaggi di essere un estraneo:
And being an outsider can have its charms. An outsider is not responsible. He doesn’t vote. He doesn’t have to feel shame over the shortcomings of the society he lives in. Mi vergogno di essere italiano is an expression James has grown used to hearing every time there is another corruption scandal. I’m ashamed of being Italian. Mi vergogno della mia città, the local people say when their football fans indulge in racist chants. I’m ashamed of my town.
Parks usa spesso espressioni italiane come in questo caso nel testo inglese e si preoccupa sempre di tradurle, non in modo pedante ma inserendola ritmicamente nel flusso della frase. Il lettore sa che il narratore gli verrà in soccorso, che quel narratore è una specie di guida che introduce il lettore in quel mondo esotico, meraviglioso e bizzarro. Nel testo italiano ovviamente queste piccole compresenze delle due lingue spariscono, e non potrebbe essere altrimenti. In questo modo il narratore non è più una guida inglese che parla a lettori inglesi, ma un inglese che racconta a noi italiani come siamo. Per alcuni può essere irritante: un outsider che pretende di farci una radiografia…
Recentemente Mario Draghi, commemorando al Museo storico della Liberazione in via Tasso a Roma il giorno della liberazione dal nazifascismo ha ricordato, testuali parole “che non fummo tutti, noi italiani, ‘brava gente’”. Leggendo il libro di Tim Parks viene da pensare: “ora come allora”. Sentirlo dire da un primo ministro italiano fa un certo effetto, anche se subito individuiamo quelli che “non lo furono brava gente” come “altri da noi”, diversi da noi, degli outsider, appartenenti magari a una setta di criminali politici, o di camorristi, o ‘ndranghetisti, o della mafia accademica; ma sentirlo dire da uno straniero è diverso, credo. Si tende a liquidare la cosa nei soliti modi assolutori a cui siamo abituati: “In fondo sono i soliti luoghi comuni sull’Italia e gli italiani. Non siamo così. Sono finzioni letterarie. Iperboli. Come le invettive dantesche contro l’Italia. In fondo è bello che i voti all’università siano in trentesimi e in centodecimi: sono segno della nostra creatività che tutti ci invidiano”. Così è, se vi pare. Ma purtroppo, probabilmente, non è così.
Tim Parks, Italian Life, trad. it. Eleonora Gallitelli, Rizzoli, Milano, 2021.