Ivan Vladislavić, La distanza
«In generale non ero attratto dal pugilato, invece l’interesse per Muhammad Ali mi assorbiva completamente. Avrei potuto dimenticare quell’ossessione, come dimentichiamo molto di ciò che pensavamo e facevamo in passato, non fosse stato per l’archivio di ritagli».
C’è qualcosa di familiare in alcune storie di sport, nel racconto delle vite e delle imprese di certi atleti. E più queste storie sono distanti nel tempo più si fa forte quell’odore di fatto familiare, che il più romantico di noi potrebbe abbinare a quello delle bucce di mandarino appoggiate sulla stufa durante le sere più fredde, appoggiate lì da una nonna. Familiare è un oggetto che è sempre stato dentro casa e se lo rivediamo, lo tocchiamo a distanza di tempo, sentiamo un transfert sentimentale e veniamo catapultati a venti, trenta, quarant’anni di distanza. Ricordiamo sempre la rara precisione della frase di Ferdinando Scianna che suona più o meno così: La massima ambizione per una fotografia è finire in un album di famiglia. Un album di famiglia è fatto di fotografie, certo, ma anche di altre numerose cose, oggetti, come detto, e poi diari, collezioni, ritagli di giornale, storie tramandate all’ora di cena. Da una serie di cose che concorrono a formare un album familiare nasce La distanza, il nuovo romanzo dello scrittore sudafricano Ivan Vladislavić, edito da Utopia editore con la traduzione di Carmen Concilio. Una di queste cose è una parte della vicenda sportiva di Muhammad Ali, di come veniva raccontata sui giornali e dai telecronisti e radiocronisti dell’epoca; quanti frammenti di quelle gesta – sotto forma di poster, fotografie, articoli ritagliati da riviste e quotidiani – andavano a incastrarsi con la vita di un ragazzino sudafricano negli anni Settanta, alimentandone i sogni? Molti a leggere il libro e l’interessante e sperimentale modo in cui è costruito.
«Il giorno successivo alla Sfida del secolo, il Pretoria News riportava una ricostruzione round per round. Tutti e quindici sono descritti in paragrafi di circa centocinquanta parole. Frazier viene menzionato novantaquattro volte; in una di queste occasioni viene chiamato Joe. Il suo avversario è menzionato centosette volte; ottanta volte è chiamato Ali, ventisette Clay. Per dirla in un altro modo, è Ali per tre quarti del tempo e Clay per quello rimanente».
I protagonisti del racconto di Vladislavić sono due fratelli Joe e Branko, figli di una famiglia benestante nel Sudafrica degli anni Settanta, una famiglia di bianchi. Joe e Branko sono anche i due narratori della storia. Il romanzo scorre a corrente alternata, in un capitolo parla Joe, nell’altro Branko. Vladislavić è particolarmente bravo nel far scorrere la prosa senza che il peso dei virgolettati dei dialoghi la appesantiscano, perciò, quando narra Joe, i suoi dialoghi con il fratello, con il padre o con la madre entrano nel tessuto principale senza rallentarlo, oppure quando ci entrano gli estratti dai giornali, inseriti con un tono di carattere sul grigio.
«Poi, di nuovo, il bisogno di mio fratello di essere qualcun altro non scompare mai. Diventa uno scrittore. Potete presagire l’approssimarsi della catastrofe».
Branko è il maggiore dei due, pare più realista e meno sognatore, ama il cinema e anche la musica e, apparentemente, rispetto ai problemi sociali la fa abbastanza semplice. Joe è un sognatore puro, anche non sapendo nulla di boxe, quasi per caso comincia a ritagliare e accumulare articoli di giornale che riguardano Muhammad Ali, sono i giorni che precedono il suo primo combattimento con Joe Frazier – il primo dei leggendari tre, probabilmente i tre match di boxe più famosi di sempre, ne abbiamo parlato già qui: I tre finali di Ali –. Tutta quell’attesa, il susseguirsi di interviste e di tensione, gli insulti e gli sfottò lanciatisi dai due (gli appassionati di boxe ricorderanno la capacità di Ali di provocare, pungeva con le parole così come sapeva colpire sul ring), il fascino per un evento che sarebbe accaduto tanto distante da Pretoria, a New York, al Madison Square Garden, diventano la miccia che accende la curiosità e la passione del ragazzo. Da lontano, senza mai averlo visto combattere, diventa molto più di un fan, diventa un archivista delle gesta di Ali. Crea degli album, tre in tutto, li costruisce con rigore assoluto, in ordine cronologico, qua una foto, qua un ritaglio di giornale, qua un appunto che riporta una radiocronaca. Da quegli anni matura un’idea, che poi è un’espansione del primo sogno, vuole scrivere un romanzo che parta da quegli album per raccontare la storia della propria famiglia a quel tempo, e quindi anche di quel tempo. Pur facendo poi lo scrittore di mestiere Joe impiegherà molti anni prima di mettersi a scrivere quel libro, ci proverà e rimanderà diverse volte, fino a che si convince che l’unico che può aiutarlo a ricostruire la memoria di quegli anni sia suo fratello Branko. Questo è l’impianto, da qui muove i passi questa bellissima storia.
«L’antipatia di mio padre per Ali quasi mi dava piacere. Capii che la mia fedeltà si era concentrata sull’eroe sbagliato e questo mi dava una certa notorietà».
La famiglia di Joe in quegli anni non aveva ancora il televisore, tutto avveniva sui giornali, sulle riviste e alla radio, i pugni di Ali potevano essere solo immaginati, figuriamoci se rivisti mille volte come facciamo adesso. Proprio i giornali, i modi in cui venivano riportate le notizie, l’importanza che avevano nel dialogo di una famiglia, diventano lo strumento importante per descrivere quegli anni e per parlare anche di apartheid, da vari punti di vista, compreso quello di Ali che ne avrebbe applicato volentieri uno al contrario sui bianchi. Leggendo La distanza si comprende come si viveva in Sudafrica, chi stava bene e chi no, anche come il razzismo non fosse davvero percepito nemmeno da chi lo praticava quotidianamente – la famiglia di Joe non era razzista; eppure, suo padre e suo fratello non avrebbero mai tifato per Ali – era una sorta di dato di fatto, un terribile ordine naturale delle cose.
«Il manoscritto è un fermo immagine della famiglia».
Ali è qui una passione e uno strumento per mostrarci le vicende di una famiglia e del suo tempo. L’evoluzione rapidissima degli ultimi cinquant’anni dei mezzi di informazione, del racconto sportivo e della maniera in cui dentro un ambiente familiare succedevano e si raccontavano le cose è presentata benissimo, non come cronaca o documento, ma come fatto avvenuto mentre due ragazzi crescono e poi invecchiano e fanno i conti con la memoria, e magari si capiscono un po’ di più di un tempo.
Tra le cose più belle del romanzo c’è un altro album: la madre di Joe, che annota settimana dopo settimana le canzoni della Hit-Parade, lei che canta benissimo, senza darsene pena costruisce un altro archivio, una memoria familiare che fa combaciare perfettamente una cena, una canzone al primo posto in classifica, a un gancio di Ali. L’autore inventa un modo originale per parlare del pugile, forse sapendo che stando al racconto del gesto sportivo una come Joyce Carol Oates è inavvicinabile (va bene, forse lo è in assoluto), e lo cala nel contesto sudafricano senza che Ali ci vada mai a combattere, lo rende di nuovo il simbolo di qualcos’altro.
«Perfino allora sospettavo quel che so adesso: siamo una famiglia di custodi di segreti, ladri di segreti e mercanti di segreti. Vogliamo essere scoperti».
Ivan Vladislavić è uno dei principali scrittori sudafricani, autore di romanzi, racconti e anche di testi ibridi, Utopia editore tradurrà e pubblicherà anche altri suoi libri, che attendiamo con curiosità.
Infine, tra le cose che lascia questo libro alla lettrice e al lettore ce ne sono alcune di molto personali, è molto facile sostituirsi a quel ragazzino e tornare nelle camerette e nelle cucine dell’adolescenza. Chi scrive questo pezzo ha rivisto chiaramente la radio appoggiata su un frigorifero che trasmetteva la Hit-Parade all’ora di pranzo del sabato, e ha sovrapposto facilmente Diego Maradona a Muhammad Ali quale oggetto di casa, quale fotografia che è entrata nell’album di famiglia, Scianna approverebbe.