Ballare con Lásló Krasznahorkai
«[…] infine il custode allargò le mani e ricominciò a raccontare la stessa storia con le stesse parole agli astanti inorriditi, e la raccontò più e più volte».
Si parte sempre da un ambiente piccolo: una fattoria, un bar, un paese. Si parte da una situazione di staticità, che di pagina in pagina, di romanzo in romanzo si amplifica e si dilata, fino ad arrivare quasi a essere l’unica condizione possibile. Tutto è fermo mentre il tempo scorre da qualche altra parte, al di fuori dei personaggi, dei loro movimenti, delle ore che passano. Ma il trascorrere delle ore, dei minuti e dei secondi fa parte del complesso statico in cui ci troviamo: un personaggio scruta il cielo, un altro solleva un bicchiere, qualcuno pronuncia una frase come fosse una preghiera. L’azione si compie senza avvenire, all’interno dei corpi, in un gesto trattenuto, nelle pieghe ironiche di una frase, in una lampadina che fa troppa poca luce, nella malinconia che tutto scruta e avvolge, stando sopra il paesaggio, facendosi essa stessa paesaggio, facendosi racconto.
Tutto è fermo fino a un impercettibile cambio di prospettiva e di scenario: una lettera, un archivio, due morti che ritornano vivi e vegeti, lupi che dal limitare di una foresta – da tutte le foreste – prendono a ululare e arrivano. I lupi sono la lettera e l’archivio, i vivi che erano morti sono i lupi, l’archivio è il passato, la devastazione, la conservazione, il posto perduto da cui ritornano. Tutto questo avviene senza data, anche laddove un periodo di tempo è chiaramente indicato, tutto questo avviene senza trovare salvezza né spreco nel tempo che si espande da un capo all’altro delle cose senza trattenerle, senza definirle.
Tutto avviene come in un sogno che scava dentro altri sogni, tutto avviene in queste e altre luminose maniere nei romanzi di László Krasznahorkai. Tutto avviene come in un lungo ballo, più vicino al tango argentino che al valzer. Come può accadere che nell’immobilità ci si senta come se partecipassimo a un ballo? È la forza della lingua, del ritmo delle frasi, del talento visionario di questo scrittore, bellezza.
«Tutti erano in attesa di sentire i lupi ululare sulle colline, ma nessuno avrebbe saputo dire che cosa fosse peggio, se il momento in cui li avrebbero sentiti ululare o la silenziosa attesa del momento in cui li avrebbero sentiti ululare».
Quando leggiamo un romanzo di Krasznahorkai avvertiamo una sorta di smarrimento, di disorientamento simile a quello che si prova in un labirinto, ma solo in apparenza. Nelle storie che racconta lo scrittore ungherese più che perdere noi stessi perdiamo il senso di orientamento letterario, così come lo abbiamo studiato, conosciuto. La struttura delle frasi pare nascondere sotto di sé delle micro-frasi, minuscoli nuclei sintattici, lunghe subordinate che si slanciano di periodo in periodo amalgamandosi in maniera esemplare, verbi che scivolano e avvolgono, tutto è verosimile perciò è falso ed è vero.
Ogni paragrafo professerà quel che afferma e il suo possibile contrario, i nodi vengono sciolti molte pagine avanti e poi riannodati, trattenuti prima di essere di nuovo lanciati al lettore come fossero dadi. Che la sorte concluda il gioco, che la storia si dipani ma non del tutto, che lasci a chi ha letto il tempo di ripensare, di immaginare piccole lucine dentro al buio, di diventare chi è stato creduto morto (come in Santantango), l’uomo che ragiona a voce alta per fissare un punto, per convincersi di un ragionamento, per convincersi finanche dell’assurdo (come in Guerra e Guerra), di trasformarsi in uno dei lupi che prendono a ululare al confine della foresta con Kana Turingia (come in Herscht 07769, edito da Bompiani qualche settimana fa e tradotto da Dóra Várnai, così come gli altri due romanzi citati).
Tutti i personaggi di Krasznahorkai sono solitari, un po’ filosofi, capaci di lunghi silenzi, di evocare riflessioni epocali soltanto pronunciando una frase mentre fissano il cielo. Non sono né eroi né saggi, sono persone normali che si trovano a un certo punto al centro delle cose, nella cellula intorno alla quale ruota un fatto. Non si riesce a non amarli e non si può dimenticarli. Nel tempo, qualche gesto, una frase (tra le moltissime) che abbiamo sottolineato, un’impressione, l’immagine di un paesaggio così come ce lo siamo figurati mentre leggevamo, torneranno e ci riporteranno a quel capitolo, a quella esatta sospensione. Situazione di blocco che somiglia a quella che prova chi sta danzando e si ferma al centro della sala prima che il disco successivo attacchi, tra il respiro ancora accelerato e l’attesa della prima nota a venire. Restiamo soli ma sulla pista non lo siamo mai per davvero.
«[…] anche qui ci sarà il campanello fuori uso, non puoi immaginare, mio caro ragazzo, in quanti posti non funziona, sto camminando da ore per la città con la mia gamba malandata, raccontò, ma moltissimi posti non hanno i campanelli funzionanti, non avrei mai pensato che così tante case non li avessero, non capisco proprio come possa fare la gente senza campanelli funzionanti, tu lo sai, Florian?»
I protagonisti delle storie di Krasznahorkai a volte ci appaiono come membri di una comunità inerte, stanno là in attesa degli eventi, pronti a subirli, perché molto è già avvenuto anche al di fuori delle pagine, la storia è passata, ha fatto danni o meno e li ha lasciati in qualche periferia del mondo. Il loro limite è sapere che i fatti sono occorsi a prescindere dalle azioni che hanno compiuto, dai pensieri che faranno. In Santantango attendono una sorta di miracolo, in Guerra e Guerra che l’archivio aiuti a capire ciò che non si può afferrare, in Il ritorno del Barone Wenckheim (vincitore del National Book Award nel 2019) che un amore di gioventù ritorni. Allo scrittore interessano le macerie, il disfacimento, i pensieri che siamo portati a fare quando rimane poco.
Gli importa la ruggine lungo un binario sul quale non passa più un treno da tempo, il colpo di vento che si infila in una casa da un buco lasciato da tegole rotte, l’animale che s’accorge delle ferite degli umani prima ancora delle proprie. I piccoli centri, le periferie, l’incrocio tra sconosciuti che hanno perso molto e che ancora hanno da perdere. Così è la storia degli uomini: le cose da perdere non finiscono mai. Se fosse per Krasznahorkai la frase «Non ho più niente da perdere» non sarebbe mai stata scritta.
In Herscht 07769 il protagonista è Florian Herscht, un personaggio davvero riuscito e indimenticabile. Florian vive a Kana, una cittadina sperduta della Turingia. Lo stato d’abbandono e desolazione in cui versa il luogo attrae un gruppo di neonazisti, chenaturalmente vengono guardati con sospetto, paura e tenuti a distanza di sicurezza dai residenti. Tutti eccetto Florian che si muove all’interno dei due blocchi residenti/neonazisti con la certezza di essere benvoluto da entrambe le parti. Florian è una persona gentile, crede in Bach, ha il terrore dei tatuaggi, è convinto che l’universo svanirà nel nulla – ed ecco Krasznahorkai, ecco il legame con ognuna delle sue storie –; di questa convinzione fa una vera e propria missione, scrive lettere a chiunque per informare del disastro alle porte, lo fa in maniera costante, ossessiva, scrive persino a Angela Merkel, che – guarda un po’ – non gli risponde mai.
Mentre i neonazisti a poco a poco mostreranno la loro vera natura, nella foresta che confina con Kana arrivano i lupi, la comunità prende a consumarsi in attesa degli ululati, nell’attesa dei lupi che piomberanno presto tra le case. Florian sente la fine del mondo sempre più incombente. Leggendo avvertiamo il peso, il respiro dei lupi, sentiamo una specie di tremito, come se la precarietà di un luogo presente in un romanzo si trasferisse nelle nostre case e non occorre qua dire più niente della trama, perché il lettore merita di costruirla insieme a chi ha scritto il libro, merita di immaginare, merita di seguire il filo di tutta la mappa letteraria disegnata da Krasznahorkai. Merita di tremare, merita di perdersi.
L’umorismo malinconico che attraversa tutta l’opera di Krasznahorkai è presente anche in questo nuovo romanzo. Le frasi – e torniamo al ballo – paiono muoversi assecondando un ritmo a noi sconosciuto, si allungano fino a toccarsi, si sdoppiano, si sostituiscono. La sintassi ci avvolge, ci rende viaggiatori del linguaggio che conta come la storia che racconta, al punto che alcune volte – nei passaggi più intensi – i periodi danno la sensazione di suonare, come si ci trovassimo all’ascolto di una canzone molto riuscita, nella quale musica e parole sono inscindibili l’una dall’altra. Il lettore ai bordi di questa scrittura non farà fatica a scovare echi della letteratura sudamericana, borghesiana ovviamente, ma non solo; il modo in cui László Krasznahorkai tiene insieme tutti i suoi romanzi e racconti ricorda quello di Roberto Bolaño, anche per lui il singolo libro non esaurisce mai la sua missione in solitaria ma è destinato a confrontarsi con il resto delle opere e noi con lui.
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