National Portrait Gallery (Londra) / Thomas Ruff. Photographs 1979 - 2017
Nella sua sinteticità, il titolo Thomas Ruff - Photographs 1979-2017, è indiscutibilmente esaustivo.
Sin da subito, presenta, infatti, tutte le principali coordinate della mostra allestita alla Whitechapel Gallery, cui si affianca una limitata incursione di quattro ritratti della serie Porträts nella National Portrait Gallery di Londra.
Una personale, o meglio, una retrospettiva dedicata al fotografo tedesco (classe 1958), in cui sono esposti quasi quarant’anni di attività. Una carriera, il cui esordio risale ai primi anni Settanta, quando, a sedici anni, realizzò delle immagini, con l’apparecchio fotografico di un suo amico. Poiché per il giovane Ruff l’unico luogo dove potersi avvicinare al “bello dell’arte” era l’Accademia, trasferirsi dalla sua città natale (Zell am Harmersbach) nella sola città tedesca che, nel 1977, organizzava un corso di fotografia nella rispettiva Kunstakademie, Düsserldorf, fu una scelta inevitabile. La capitale del Land della Renania Settentrionale-Vestfalia, come la grande maggioranza dei centri abitati della Germania, uscì dal secondo conflitto mondiale completamente rasa al suolo. L’immediata ricostruzione la rese un vivace laboratorio di ricerca (nella città fu eretto il primo grattacielo della Germania, e qui si sperimentarono le teorie costruttive della Bahaus) e un attrattivo polo culturale.
Dagli anni Cinquanta, nella Kunstakademie insegnavano i celebri coniugi Bernd (1931-2007) e Hilla Becher (1934-2015), promotori della famosa Scuola di Düsserldorf. La documentazione delle differenti tipologie di architettura, finalizzata alla creazione di un repertorio, di una catalogazione, è al centro della ricerca dei Becher, influenzata dalla tradizione fotografica tedesca, a partire dallo straordinario lavoro Uomini del Ventesimo secolo, di August Sander. Inoltre, è bene ricordare che, nel 1984, a loro fu assegnato il prestigioso Hasselblad Award perché “per più di 40 anni hanno registrato il patrimonio del passato industriale. Le loro foto dell'architettura funzionalista, sistematiche e spesso organizzate in griglie, hanno portato al loro riconoscimento sia come artisti concettuali sia come fotografi. Come fondatori di quella che è stata denominata scuola dei Becher essi hanno durevolmente influito sia sulla fotografia documentaria sia sugli artisti.”
Attraverso una puntuale e abile traslitterazione dei canoni artistici dei coniugi, Ruff costruisce un personale, precipuo e peculiare linguaggio. Non più esclusivamente circoscritto alle strutture industriali, il fotografo, però, applica alle sue immagini le stesse regole impiegate dai Becher. Seppure “il bianco e nero è più carico di sensi” (Jean Baudrillard), egli abbandona tale prassi e utilizza il colore, esasperandolo in spinte sovraesposizioni o in sottili procedimenti di colorazione o nella rielaborazione digitale.
Dall’osservazione complessiva delle diciotto serie esposte, affiora immediatamente un importante elemento: il doppio ruolo della fotografia; non solo mero mezzo espressivo/messaggio, ma anche campo di ricerca e riflessione in quanto medium/supporto, aprendo la rispettiva superficie ad una continua indagine. Analisi attraverso la quale supera in modo definitivo la posizione di Marshall McLuhan (per il quale il medium coincide con il messaggio), corrispondendo a quella di Rosalind Krauss (che non sovrappone i due concetti e sottolinea, anzi, la necessità di re-inventare il medium attraverso l’uso che se ne fa).
Tuttavia, a interessare Ruff, è anche il modo in cui la fotografia rispecchia il ritmo veloce della società, della politica, della tecnologia, della cultura, o quello lento dei fenomeni cosmici. In sintesi, egli non agisce “con la fotografia” bensì “sulla fotografia”, “non prende immagini, ma lavora con loro”; non più mera meccanica traduzione di un medium strutturato in regole e convenzioni (fotografia ottenuta attraverso lo scatto calcolato dell’apparecchio fotografico), bensì un medium utilizzato in qualità di linguaggio da rinnovare, un supporto per incursioni e travalicamenti, per sperimentarne tutte le potenzialità in esso racchiuse. La storia della fotografia diventa, così, un grande archivio, una banca dati, da cui attingere a piene mani, per ripensare le rappresentazioni e ri-attivare un originale rapporto con lo spettatore, anche attraverso “il fascino del comune” (Andrew M. Goldstein).
Apre il percorso espositivo L'Empereur (1982), rari autoritratti realizzati durante il suo soggiorno a Parigi, quando gli fu assegnata la borsa di studio alla Cité Internationale des Arts. Nel modo di Bruce Nauman, nel suo Walking in an Exaggerated Manner Around the Perimeter of a Square (1967), o in Wall-Floor Positions (1968), anche Ruff, nel suo piccolo studio, costruisce delle eccentriche situazioni con pose strampalate, nel tentativo di impossessarsi dello spazio e di confondersi in esso, adeguandosi agli scarsi oggetti (due poltrone e una lampada) presenti nella stanza.
A fare la parte del leone è senza alcun dubbio la serie Porträts, sulla quale ha lavorato per cinque anni (1986-1991). È in questi ritratti di amici e studenti, realizzati in studio, che si palesano le nozioni dei Becher. Mettendo in campo il sistema della foto-ritratto dei documenti di identità o le foto segnaletiche della polizia degli anni Novanta, ne sovverte la logica attraverso la scala monumentale (210x165cm): dimensioni rivoluzionarie, che conferiscono alla fotografia l’entità di “oggetto” occupante uno spazio, alla stessa stregua di una scultura o di un dipinto (bisogna infatti ricordare che nel 1995 il Nostro condivise il Padiglione Germania alla Biennale di Venezia, con gli scultori Katharina Fritsch e Martin Honert). Nonostante la scala sia prossima a quella dei cartelloni pubblicitari, egli elimina qualsiasi voluttà, seduzione, persuasione e emozione.
La ripresa asettica, oggettiva, distaccata, del realismo documentaristico, della fotografia concettuale dei Becher delle loro “sculture anonime” (non si dimentichi che i coniugi nel 1990 vinsero il premio della scultura alla Biennale di Venezia), è applicata a questi volti: come le strutture industriali, trattate alla stessa stregua di veri e propri ritratti, viste nella totalità della serie, acquisiscono un certo valore estetico e attirano l’attenzione sulle singole diversità formali, altrettanto pregio conquista Porträts. Anche qui, i soggetti sono posti al centro dell’inquadratura ortogonale all’asse della fotocamera, completamente isolati dal contesto circostante, e il fondale neutro (qui il bianco dei pannelli dello studio, lì la tonalità grigia del cielo ripreso in b/n) concorre a restituire una dimensione atemporale e a consegnare maggiore corporeità e spazialità al soggetto ripreso, che altrimenti apparirebbe banale e anonimo, destinato all’oblio, conferendo così quella “specie di immortalità” (McLuhan) che la “selettività” (Abbott) della fotografia riesce ad assegnare. Dalle serie successive, Ruff forza maggiormente il concetto di fotografia. Già nella serie Sterne (1989-1992), ma anche in Nächt (1992-96), andere Porträts (1994-95, con i quali partecipa alla Biennale di Venezia sopra citata), ma.r.s. (2011-13), solo per citarne alcune di quelle esposte, si attesta la sua pratica di reinventare il medium, spaziando in numerosi e differenti campi, dal ritratto, al paesaggio, agli interni, all’architettura.
Consapevole che gli apparecchi fotografici in suo possesso non sarebbero mai stati in grado, per quanto sofisticati, di effettuare delle riprese perfette delle stelle, in Sterne è intervenuto sulle lastre fotografiche scattate da un telescopio ad alte prestazioni dell'European Southern Observatory, situato nel deserto di Atacama in Chile: in queste lastre seleziona particolari aree del cielo dove il punto focale dell'oscurità e della luce crea una composizione monocromatica. Molte delle stelle di queste immagini sono in realtà estinte, e ogni fotografia trasforma innumerevoli realtà temporanee in un solo momento.
Quindi l’utilizzo di immagini realizzate da altri, o riprese dal web, su cui interviene con differenti modalità, riconsegnando loro significati nuovi, creando una realtà altra, con le quali abbandona in maniera definitiva il concetto di autorialità. Come in m.n.o.p. (2013), presentato per la prima volta proprio alla Whitecapel Gallery, che si riallaccia al suo esordio con Interieurs (1979): una serie di fotografie in bianco e nero, acquisite da Ruff alle aste di Parigi e Berlino, delle sale allestite in occasione dell’esposizione inaugurale del Museum of Non-Objective Painting di New York, voluto da Solomon R. Guggenheim nel 1939, che lui ha digitalizzato, aggiungendo colori saturi ad alcuni accessori decorativi, evocando le tinte degli anni Cinquanta, elevando il soffitto, creando così una documentazione astratta e reinventata. Immagini che identificano un nuovo genere individuato dallo stesso Ruff denominata “installation shot”: le immagini degli allestimenti sono un nuovo tipo di immagine storica. Il suo procedere in parallelo con la tecnologia e gli avvenimenti circostanti è pienamente attestato dalla serie Nächte (1992-96): immagini realizzate con la strumentazione utilizzata durante la Prima Guerra del Golfo.
Lenti infrarosse montate sulla sua telecamera con le quali ha fissato dettagli della sua città, conferendole una certa atmosfera estraniante e inquietante. Sono altresì esposte le serie che lo hanno reso famoso e riconoscibile, quali nudes (1999-2012) e jpeg (2004-08), entrambe realizzare con le immagini scaricate negli anni in cui il web faceva il suo ingresso nella comunicazione. La prima composta con le immagini pornografiche selezionate in base ai colori e all’illuminazione, delle quali ha mantenuto la scarsa qualità della bassa risoluzione, aggiungendo soltanto una maggiore sfumatura. La seconda con le immagini scattate con i cellulari il giorno dell’attacco alle Torri Gemelle, ingrandendole e enfatizzando i pixel. Chiudono il percorso le serie press++ (2016 -) e negative (2014 -), quest’ultima ulteriore affermazione dell’ampio spettro di indagine di Ruff. Qui egli eleva a oggetto di osservazione e contemplazione, ciò che nell’era analogica era considerato solo strumentale al risultato. Sovvertendo il processo, egli ricava il negativo da stampe: ha scansionato delle fotografie ottocentesche e digitalmente ha invertito i toni, così che la patina “seppia” si trasformasse in bianchi e “blu”, peculiari dei negativi (e nello spazio Studio, è possibile vedere in modo dettagliato il processo da lui attuato). Lavori che nel loro insieme, indirettamente e senza l’intenzionalità dell’artista, mostrano e, soprattutto, raccontano la storia nonché lo sviluppo tecnologico degli ultimi decenni.
Thomas Ruff – Photographs 1979 - 2017, fino al 21 gennaio 2018 (Whitechapel e National Portrait Gallery, Londra).