Storia d'Italia attraverso i sentimenti (7) / Nel buio delle sale cinematografiche
Una “caverna” attraversata da una lama luminosa. Spente le luci, la sala cinematografica sprofonda in una schiuma ribollente di emozioni. È una frattura quel buio, una frontiera, segna la fine dell’ordinario, anche quando ordinarie, o comuni, sono le storie che prendono vita sullo schermo. E lo schermo è il mondo, una inesplorata geografia dei sentimenti e delle relazioni. Ognuno può evadere dal recinto della propria posizione sociale, o al contrario, riconoscere le costrizioni che lo soffocano, fare il “giro della prigione”, e soppesare il cumulo delle sue afflizioni.
Questo accadeva nel buio delle sale cinematografiche italiane fra gli anni trenta e cinquanta. Accadeva al “Sala Roma” di Napoli, allo “Smeraldo” di Roma, e nelle centinaia di “Eden”, “Excelsior”, “Splendor” che hanno acceso le loro luci nelle nostre città. E accadeva nel “marasma fumoso e vociante” del “Fulgor” di Rimini, dove Federico Fellini ha innescato la miccia della sua creatività visionaria. Siamo nel 1926, Fellini ha sei anni. In uno stupore eccitato, assapora le immagini sulfuree di Maciste all’inferno, un film di Guido Brignone, che ambienta l’Inferno vicino casa, nella piemontese val di Stura, tutt’altro che infernale. Il ricordo di Fellini è ben più di una semplice escursione della memoria, perché nella visione infantile di Maciste all’Inferno comincia a lievitare l’estro immaginativo del regista: “Ero in braccia a mio padre in piedi tra una gran calca di gente con il cappotto zuppo d’acqua perché fuori pioveva. Ricordo un donnone con la pancia nuda, l’ombelico, gli occhiacci lampeggianti…Quell’immagine mi è rimasta così profondamente impressa che ho tentato di rifarla in tutti i miei film”.
Dieci anni dopo, Italo Calvino, sedicenne, si tuffa quasi quotidianamente, e talvolta anche due volte al giorno, nel buio del “Centrale” di Sanremo, e nelle altre due sale di prima visione della città. Il cinema è un frutto proibito. Per gustarne il sapore, Calvino sfugge, appena dopo pranzo, al controllo dei suoi, soccombendo all’imperativo di una passione travolgente. Gli piace andare al primo spettacolo, alle due, quando la sala è ancora quasi vuota, come se fosse più libero di immergersi nell’“altro mondo” che prende vita quando le luci della sala si spengono. In “Autobiografia di uno spettatore”, rievocando le sue fughe sanremesi, Calvino si interroga sul significato che una passione così assoluta come quella per il cinema ha assunto nella sua esistenza di adolescente. E la risposta è: “un bisogno di distanza, di dilatazione dei confini del reale, di veder aprirsi intorno delle dimensioni incommensurabili”. Questo cercava Italo Calvino nel buio del “Centrale” di Sanremo, e il cinema americano da lui tanto amato era il racconto epico di questa “distanza”.
Le cose cambieranno: si ridurrà, e drasticamente, la “distanza” che aveva sostenuto l’“altro mondo” e la sua narrazione. Dopo la guerra, l’incantesimo sembra smorzarsi, per poi tornare a generare la forza del suo mito. Che cosa è accaduto? il mondo si è fatto più “vicino”, “ci è addosso”, dice Calvino: “La sala buia scompare, lo schermo è una lente d’ingrandimento posata sul fuori quotidiano, e obbliga a fissare ciò su cui l’occhio nudo tende a scorrere senza fermarsi”.
Nel dopoguerra le sale si moltiplicano. E si affollano, a tutte le ore, con la gente in piedi. Il cinema dilaga. Nei primi anni cinquanta rappresenta il 70 % delle spese delle famiglie italiane per i divertimenti. È un grande rito collettivo e uno spazio di socializzazione. Al cinema si sogna, e si conosce, scoprendo che il mondo “vicino” non era poi così “vicino”, e per anni, lungo l’arco del ventennio fascista, è rimasto nascosto. “Una finestra aperta sul mondo”, dice Attilio D’Amico, uno dei tanti testimoni incontrati da “Cine ricordi”, un sito che raccoglie i minuti ricordi degli spettatori cinematografici degli anni cinquanta. Rovistare fra queste briciole di memoria, come io ho fatto, non credo sia una sommaria cristallizzazione del passato. Credo, invece, che si capisca meglio la forza e il ruolo che ha avuto il cinema nella nostra storia, la sua capacità di attrazione di segmenti sociali assai diversi, che nel buio delle sale si sono quantomeno accostati, forzandoci a “vedere noi stessi – dice ancora Calvino – e il nostro esistere quotidiano in un modo che cambi qualcosa nei nostri rapporti con noi stessi”.
Al cinema insomma s’impara a guardare, e se si porta tanta attenzione agli anni cinquanta, è perché negli anni cinquanta, rimarginate le ferite della guerra, avviata la ricostruzione, è come se l’intero paese per la prima volta aprisse gli occhi. E dunque il desiderio di cinema, così ampiamente diffuso, non è che il desiderio di vedere. A lungo ci si era nascosti, e ora siamo lì, spettatori e, al tempo stesso, protagonisti, proiettati sullo spazio bianco dello schermo, non più le caricature del ventennio, ma noi, le nostre vite, il nostro sentire. Il cinema vibra con il paese, porta sullo schermo le sue emozioni e i suoi sentimenti, racconta la trasformazione che, nel corso degli anni cinquanta, ha investito l’Italia come un vento impetuoso.
Gian Piero Brunetta, che a lungo ha esplorato il buio della sala cinematografica facendo percepire la sua profondità, ha disteso, con grande intelligenza, il lungo filo del cinema italiano, definendolo una sorta di “diario pubblico”: “Un diario scritto da un io collettivo, un registro, o un libro dei conti, dove vengono annotati profitti e perdite, inutili dissipazioni di energie e durezze e difficoltà degli ostacoli da superare, dolore e rassegnazione insieme all’ottimismo e alla volontà di ripresa”.
Fonti:
Federico Fellini, Intervista sul cinema, a cura di Giovanni Grazzini, Laterza 1983.
Italo Calvino, “Autobiografia di uno spettatore”, in La Strada di San Giovanni, Mondadori 1990.
Gian Piero Brunetta, “Il cinema legge la società italiana”, in Storia dell’Italia Repubblicana 2**, a cura di Francesco Barbagallo, Einaudi 1997
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