Il viaggio di Virgilio Sabel
Il fervore di un’intera nazione in una sola immagine, ed è questa: Molti sogni per le strade. È il titolo di un film del 1947. Mario Camerini il regista; attori principali due stelle dell’epoca: Massimo Serato e Anna Magnani. Uno scrigno di sogni il volto antico di Anna Magnani, capace di portare alla luce, in un rapido passaggio, desideri in movimento, strati sotterranei di speranze, illusioni e chimere a lungo trattenute. Ricordo le parole che si scambiano Pina (Anna Magnani) e Francesco, i due protagonisti di Roma, città aperta: “Forse la strada sarà lunga e difficile… Ma arriveremo e lo vedremo un mondo migliore! E soprattutto lo vedranno i nostri figli”.
A partire dall’ultimo terribile anno di guerra, il sogno di una pacifica e libera convivenza non è soltanto la vaporosa proiezione di pochi, ma s’insinua fra le rovine e comincia a correre per le strade del paese ancora dissestate. Per almeno un decennio si mescolerà a una miriade composita di altri sogni. Gli italiani cavalcano manici di scopa, come nell’ultima scena di Miracolo a Milano. Anni dopo, sul limitare di una nuova epoca, Volare, la canzone di Domenico Modugno che trionfa al Festival di Sanremo del 1958, è il prolungamento della favola di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini: “L’annuncio di un sogno possibile, la fine dell’Italia povera e umiliata del dopoguerra”, scrive lo storico Guido Crainz (Il paese mancato).
Chi si trova ad attraversare l’Italia in quell’arco di anni, non può che registrare, come un fedele sismografo, la tensione tellurica che scorre sotto la superficie del paese, scuotendo le zolle d’inerzia che ancora ne bloccano lo sviluppo. “L’Italia compie una rivoluzione in sordina, ottenuta mediante una somma di adattamenti empirici e disordinati, a realtà già stabilite nei fatti”, dice Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia, che si snoda lungo tutta la penisola, da Bolzano a Trapani, regione per regione, provincia per provincia, fra il maggio del 1953 e l’ottobre del 1956. È un analitico resoconto dello stato in cui versa l’Italia, ma trascrive anche la sua inusitata trasformazione.
Un altro viaggio, sono molti all’epoca, come se la nuova Italia, quella uscita dalla guerra, fosse da considerare una “terra incognita”, che occorre tornare a sondare per poi mapparla palmo a palmo. Le mascherature del fascismo ne avevano nascosto il profilo, che ora sta riemergendo dal fondo della tragedia, prima lentamente, poi con ritmo sempre più convulso.
Un altro viaggio, e altre strade da percorrere. E altri sogni, piccoli e grandi, individuali e collettivi, una nube densa che avvolge l’intero paese, dagli anni affannosi del dopoguerra al primo benessere, fino a toccare gli anni settanta. Lì, su quella linea temporale, i sogni si faranno cupi, e, prima del desolato risveglio, prenderanno coloriture luttuose. Ma non ci siamo ancora.
Un altro viaggio, con una strumentazione del tutto diversa, quella del “reportage” televisivo, che può consentire, se lo si sa usare, una nuova narrazione, un nuovo “epos” del paese. Ma nessuna celebrazione, nessuna enfasi; qui si vuole guardare alla realtà così come appare. Il cinema, d’altra parte, lo ha già fatto, e con grandi risultati. La parabola della televisione è molto più recente. Comincia nel 1954 e, con una progressione fatale, arriverà a colonizzare il tempo degli italiani. Quattro anni dopo il leggendario inizio, nell’aprile del 1958, la Rai mette in onda la prima delle dieci puntate di Viaggio nel Sud. “Non si tratta di una passeggiata alla ricerca del folklore locale, ma di una seria indagine che presenti con chiarezza un mondo in piena trasformazione”, avverte Virgilio Sabel, l’autore del ciclo.
Uomo singolare Sabel, con esperienze cinematografiche (nel ’52 è aiuto regista di Luciano Emmer ne Le ragazze di Piazza di Spagna), qualche prova letteraria, e la regia di caroselli rimasti celebri, quello, ad esempio, del dentifricio Chlorodont, con una giovanissima e sorridente Virna Lisi, e il fortunato slogan “con quella bocca può dire ciò che vuole”. Nessuno nella televisione di stato può dire “ciò che vuole”, ma nella sua “seria indagine” Sabel ha il coraggio di scattare una fotografia impietosa dell’arretratezza italiana. Glielo lasciano fare, credo, per una sola ragione: per documentare che le cose stanno cambiando.
Una grande trasformazione è in atto (in particolare per effetto della riforma agraria) e il mezzo televisivo le deve dare risonanza. Sembra fatto apposta. Sabel non si sottrae, ma quello che mostra è un paese in bilico tra un pesante passato, un presente assai problematico e un futuro ancora da decifrare. Le stigmate della miseria continuano a sanguinare, e Sabel non le cela. Non risparmia nulla: l’abbandono in cui si trovano i paesi, il dissesto di strade ed edifici, lo squallore degli interni domestici, neppure le bocche sdentate, timidamente sorridenti; non risparmia neppure l’italiano incerto e sgangherato con cui si esprimono gli intervistati. Se la macchina da presa poi si sofferma sulla scritta – W L’ITALIA IMPERIALE – che ancora campeggia su un muro ormai sbrecciato, sopravvissuta a tutte le intemperie storiche, non è certo per irridere all’impero in rovina che è sotto gli occhi. Forse è solo un piccolo monito sulla precarietà dei sogni.
Viaggio nel Sud è una delle produzioni più belle e importanti che la Rai abbia mai realizzato. Nelle sue immagini passa davvero il Paese, o almeno una sua parte (Sabel completerà il suo ritratto dell’Italia con un ciclo gemello, Viaggio nel Nord), c’è la sua fragilità, la fatica, c’è l’avvilimento e c’è la speranza. Ci sono uomini e donne che raccontano le proprie ansie e le proprie aspettative. È l’“affresco collettivo” di un’umanità in lotta o in cammino con il suo bagaglio di afflizioni e di sogni. Sabel li raccoglie girando per le piazze, i vicoli, le scuole, i negozi, le case. Va dove la gente vive. Si muove con disinvoltura, ma anche con rispetto. L’insistenza delle sue domande può talvolta risultare indiscreta. Ma sa mettere a suo agio l’interlocutore.
A Bisaccia (il paese del poeta-paesologo Franco Arminio), un ultimo lembo di Campania prima della pianura pugliese, si fa ancora la fila per l’acqua, e sono numerosi gli analfabeti. Ma ora è stata aperta una scuola solo per loro. Di sera è affollata. Sono seri e composti questi studenti in ritardo. Con qualche impaccio si sistemano nei banchi, e ascoltano il maestro che legge “la cavallina storna” di Pascoli. Leggono a loro volta. Stentatamente, incespicando in qualche scoglio verbale, ma senza fermarsi. Sembrano felici di aver fatto crollare le mura del loro ghetto secolare.
In un passaggio successivo, Sabel entra in una casa di contadini, marito e moglie. Chiede loro come è andato il raccolto. “Scarso”, dicono. “Ma ci basta!”, aggiunge l’uomo con orgoglio. Poi Sabel vira sul quotidiano, si rivolge alla donna: “Oggi è domenica…che cosa prepara per pranzo?”. “Maccheroni”, risponde la donna un po’ sulle difensive. “Nient’altro?” insiste Sabel. “Maccheroni!”, replica la donna. Sabel allora azzarda, il suo tono è comunque giocoso: “Senta, lei sa che alla televisione si può chiedere qualsiasi cosa, qualcuno che ora è in ascolto potrebbe esaudire il suo desiderio, realizzare il suo sogno… Che cosa le piacerebbe chiedere?”. La donna sorride imbarazzata, guarda il marito come per chiedergli aiuto. Ha sul volto un’espressione da bambina. Dopo qualche attimo di silenzio, dice a mezza voce: “Un po’ di carne?”. Ed è come se volesse essere legittimata nella sua richiesta. Da Sabel, o forse dal marito.
Questo è il piccolo sogno della contadina di Bisaccia, provincia di Avellino, 1958. Lo stesso anno in cui, a Sanremo, Modugno sogna di volare “nel blu dipinto di blu”.
Nel 1958, per la prima volta, i lavoratori dell’industria superano quelli impiegati in agricoltura, il prodotto interno lordo tocca il 4,8%, e a fine anno sarà inaugurato il primo tratto dell’Autostrada del Sole, da Milano a Parma.
La contadina di Bisaccia lo ignora. Un “po’ di carne” le basta.