Genova 1960/1970 / Lisetta Carmi: travestiti e camalli
“O mi metti in copertina o non accetto”. È il 1972 e la Gitana ride soddisfatta. Ci è riuscita, ha convinto la fotografa Lisetta Carmi a farsi mettere sulla copertina di un libro: a torso nudo, senza reggiseno, con il volto leggermente rovesciato e i capelli cotonati. Lo sfondo della foto? Nulla è davvero a fuoco. La luce è tutta sul suo corpo. Il libro si intitola “I travestiti”. La Carmi inizia a fotografarli nel 1965 durante una festa di Capodanno e per cinque anni non smette di frequentarli. Ne diviene amica e condivide con loro i problemi della vita quotidiana. Impara a conoscerli: Morena, quella che ha ispirato a Fabrizio De André la canzone Via del Campo, “un po’ mamma di tutte, lettrice di “Bolero Film”, e poi Novia, “una ragazzina giovane e bellissima che lavorava in coppia con la Gitana, che a vent’anni era stata l’amante di De Pisis e aveva in casa un suo piccolo quadro”. Non è stato facile diffondere questo libro. Le librerie lo tenevano nascosto. “La polizia mi avrebbe arrestato con molto piacere, sapevano che ero figlia di una famiglia borghese. Una volta un poliziotto è andato da un travestito e l’ha interrogato: “Cosa fa Lisetta Carmi con voi, viene a letto?”, “No, non viene a letto, ci fotografa”.
Luciano D’Alessandro, che nel 1969 aveva pubblicato Gli esclusi, dedicato ai malati mentali, la aiuta a selezionare le immagini e la presenta a Sergio Donnabella, che si impegna a pubblicare il libro a sue spese. Lo scandalo era soprattutto aver fotografato i travestiti con affetto e amicizia, ricorda il fotografo. C’erano tutti gli ingredienti per inquietare i benpensanti: volti androgini, biancheria intima esibita come un segno di conquista, occhi eccessivamente truccati e sguardi ammiccanti. Così come le loro case, un insieme di scenografie domestiche dentro cui esplodono corpi perturbanti.
Oggi, molte di queste immagini sono pubblicate nel volume “Genova 1960/1970” (Humboldt Books, 2019), insieme a quelle scattate al porto e dentro il cimitero di Staglieno. Accostarsi ai travestiti è accostarsi alla propria esperienza: “Io stessa in quel tempo ero assillata - forse a livello inconscio - da problemi di identificazione maschile e femminile… E i travestiti (o meglio il mio rapporto coi travestiti) mi hanno aiutato ad accettarmi per quello che sono: una persona che vive senza un ruolo”. Allo stesso modo Lisetta Carmi ha fotografato la città, senza alcun pregiudizio e soprattutto a partire da sé.
Sta qui la differenza tra le sue foto e quelle del reportage degli anni Settanta: lo scarto compiuto dalla fotografa risiede nell’urgenza di dare corpo innanzitutto al suo travaglio interiore. L’impegno di testimoniare, illustrare e documentare fatti e persone è un impegno prima di tutto verso di sé. Si tratta della ricerca di un dentro attraverso il fuori, la scoperta progressiva e autentica che “il personale è politico”. Ma se la fotografia di quegli anni è una scelta di partecipazione politica e il fotoreporter è parte del movimento, le foto della Carmi si collocano sul crinale tra ricerca e impegno, dove la ricerca non riguarda solo le angolature impreviste, i tagli arditi, i giochi di linee che caratterizzano molte delle sue immagini, quanto, soprattutto, il desiderio di partire da sé e di non farne mistero.
“Non ho mai cercato dei soggetti; (…) mi sono venuti incontro, perché nel momento in cui la mia anima vibra insieme con il soggetto, con la persona che io vedo, allora io scatto. Tutto qui.” Quello che conta per la Carmi è l’incontro fra lei e ciò che intende rappresentare, la sua prossimità con il mondo di coloro che non hanno né forza né voce. Lo spazio della ricerca è quindi quello di una relazione fra sé e il mondo. L’atto di fotografare non è mai passivo. Si tratta di un percorso lungo e incessante di cui la fotografia è solo uno dei sentieri seguiti per una certa fase della sua esistenza. La sua prima vita, come lei la definisce, è legata alla musica e ad una carriera da concertista di pianoforte; la seconda, scelta a trentacinque anni, la vede dedicarsi alla fotografia; nella terza, a partire dal 1977, conosce Babaji Herakhan Baba, fonda un ashram a Cisternino e smette di scattare; nella quarta, grazie all’incontro con lo psicoterapeuta Paolo Ferrari, da bambino suo allievo di pianoforte, ritorna alla musica; infine una quinta, l’attuale, fatta di assenza, libertà e silenzio.
Per lei, che a causa delle leggi razziali ha dovuto interrompere gli studi, il bisogno di comprendere il mondo coincide con quello di capire i motivi di quella segregazione traumatica e assurda. Una ragione per cui dalle sue immagini è bandita ogni forma di chiusura e di divieto. Non può esistere opposizione tra ciò che si può vedere e ciò che resta nascosto. Nelle sue fotografie si genera quello che Didi-Huberman definisce un doppio movimento, un “battito dialettico che agita insieme il velo e il suo strappo”. I travestiti, come i portuali, sono i volti dello strappo. Le case, come le stive delle navi, si aprono e diventano i luoghi in cui si deposita la memoria e l’identità.
Giuliano Scabia, in un breve saggio pubblicato sulle pagine di questo libro, scrive che Lisetta Carmi è “in volo”. Forse il senso delle sue foto sta davvero in questa descrizione. Volare è un modo per entrare nei luoghi di cui non è possibile varcare la soglia. Le sue immagini scattate dall’alto suggeriscono che ci si può elevare al di sopra dei divieti e delle regole, anche se volare comporta un rischio.
Alcune delle immagini più belle del porto di Genova sembrano scattate da un punto sospeso nel vuoto. Il reportage del 1964 si intitola: “Genova Porto: monopoli e potere operaio”. Enrica Basevi, dirigente della società di cultura di Genova le aveva proposto di fotografare il porto, con l’obiettivo di informare e denunciare lo sfruttamento del lavoro operaio. Anche in questo caso la Carmi fa amicizia con i portuali. Si finge cugina di uno di loro, che la passa a prendere all’alba e riesce a farle varcare i cancelli al porto. Fotografa quelli che “non avevano scarpe e per lavorare si legavano dei giornali sui piedi, che non avevano tute e si mettevano addosso stracci scaricati dalle navi”, ma anche l’atmosfera dei traffici al porto. Dice bene Uliano Lucas, quando osserva che le sue foto fanno di Genova una sorta di Shanghai anni Trenta, un inno alla città marinara dei commerci.
L’operaio che scarica i fosfati mostra come è possibile rappresentare nello stesso fotogramma il lavoro dell’uomo e la bellezza. Non vi è alcuna forma di compiacimento né di concessione agiografica. Semplicemente, con il suo sguardo solidale, la Carmi riesce a fondere bellezza e fatica. Perché lavorare al porto è soprattutto fatica. La foto viene scattata dall’alto, l’uomo è appoggiato a una parete che lo sovrasta. La luce inonda il suo corpo, proprio come accadeva nella foto della Gitana.
A torso nudo, ricoperto di polvere bianca, sembra reggersi sulla grande pala che è anche simbolo del suo lavoro. Nell’immagine del Molo dei vini lo sguardo quasi perpendicolare trasforma la fotografia in un insieme di forme astratte: la curva del molo, il tondo dei barili, i rettangoli del pavimento. Si direbbe che stia respirando l’arte concettuale nella galleria che il fratello pittore, Eugenio, aveva aperto in quegli anni a Boccadasse. Del resto lei stessa fotografa molti artisti, fra cui Lucio Fontana, César, Emilio Scanavino, Emanuele Luzzati. Ma ciò che sembra asserire è che le forme del porto non hanno minore dignità di quelle dell’arte. I travestiti ed i portuali esigono di stare al mondo. È quello che più colpisce anche a distanza di molti anni. La Carmi, insieme alla città, mette a nudo anche il suo sguardo. “Io non sovrappongo un pensiero preconcetto alla realtà. (…) Bisogna cercare di vedere le cose per quello che sono. Se uno le vede per quello che sono, tutto ha un significato diverso. Molto più vero”, racconta in un’intervista. Anche questo è coraggio. Togliere tutto ciò che è superfluo, significa capire cosa si deve guardare. Cosa non vediamo quando guardiamo? Da chi siamo guardati quando crediamo di vedere? Levare gli orpelli e alleggerire lo sguardo è essenziale per rendere concreta la possibilità di stare sospesi e poi di volare.
Uno sguardo nitido e leggero è quello che scruta le tombe monumentali del cimitero di Staglieno a Genova, una sorta di Spoon River dei ricchi, dove la buona società genovese ha perpetuato la memoria di sé e delle proprie imprese. Le statue dei monumenti funebri, imponenti e millantanti, reiterano verso l’eternità le gerarchie e le sudditanze dei rapporti sociali e familiari. Già nel titolo, “Erotismo e autoritarismo a Staglieno”, (1966), si insinua la sua carica corrosiva: “Detestavo ciò che molte sculture rappresentavano, per esempio lo stereotipo della donna timorosa e dipendente dagli uomini, ma ero colpita dalla capacità di chi, ancora in vita, aveva progettato la propria tomba”. È una visione singolare della realtà, che la rende somigliante e insieme diversa da come normalmente la si percepisce. Nelle sue fotografie non si vedono mogli e ragazze sottomesse, ma donne dalle forme procaci che incombono dall’alto. L’eros sembra aver sconfitto la morte insieme al conformismo, poiché niente è come appare. Le fotografie della Carmi si collocano in questo scarto della percezione, una forma di devianza che da problema sociale, come nel caso dei travestiti, diventa normalità. Lo sguardo della Carmi coincide con quello della Gitana.
Una fotografia lo mostra in modo particolare: un angelo bellissimo e seminudo occupa gran parte del fotogramma. I suoi occhi sono chiusi, il petto coperto con le mani. La foto, scattata dal basso, conferisce maestosità al soggetto, immerso in una dimensione di pace interiore. Nulla esiste fuori dal suo sguardo, come se la Carmi volesse mostrare la volontà di guardare innanzitutto dentro di sé. Ma in basso, il volto di un uomo calvo con degli enormi baffi e un’espressione arcigna, ci riporta immediatamente alla realtà. La personificazione dell’autoritarismo sta dinnanzi ai nostri occhi a recitare tutta la sua potenza. Ma è l’eros ad essere più dirompente. L’angelo con le sue ali spiegate è enorme, bellissimo, etereo. Pronto a volare.