Quaderni giapponesi / Conversazione con Igort, maestro del fumetto
Complice l’uscita del secondo volume dei suoi Quaderni giapponesi, abbiamo incontrato Igort, maestro del fumetto italiano contemporaneo, per parlare non soltanto della sua ultima opera. Il 2017 è stato infatti anche l’anno che ha visto il varo della sua nuova avventura come editore con Oblomov, marchio dedicato al fumetto di qualità. Nel catalogo Oblomov figurano fra gli altri autori italiani quali Fior, Ferraris, Carpinteri e grandi maestri internazionali quali Burns, Ware e Taniguchi di cui è in uscita La foresta millenaria, opera incompiuta sulla quale il grande maestro giapponese stava lavorando poco prima di morire nel febbraio 2017. A partire dunque dal Giappone, la conversazione si è aperta su una molteplicità di temi e riflessioni, affrontati da Igort con l’intelligenza, l’eleganza e il rigore che da sempre lo contraddistinguono.
Partiamo dal tuo nuovo fumetto, Quaderni Giapponesi Volume 2: il vagabondo del manga. Pur nel solco del tuo lavoro precedente questo nuovo volume dedicato al paese del Sol Levante mi pare un'opera molto diversa. Il primo libro era un viaggio orientato lungo due direttrici principali: l'interiorità e il passato. Pur lontano da una visione dell’esistenza binaria e oppositiva, anche questo secondo Quaderno si muove seguendo due percorsi assai diversi e - seppur in modo non evidente - quasi antitetici a quelli del primo Quaderni giapponesi: tanto quanto la memoria e il vissuto individuale erano il fulcro del primo volume, in questo secondo libro è certamente il desiderio di scoperta del mondo esterno, dell'altro da sé, ciò che ti mette in moto, ciò che ti spinge ad iniziare questo nuovo viaggio/racconto.
Quando le idee si condensano e creano un filo narrativo non seguo un progetto concettuale, sto all'ascolto. La mia unica preoccupazione, nel processo di sedimentazione e scelta delle idee e dei filoni di racconto, è “ho già detto questo?”. Ed è l'unico discrimine, l'unico limite che mi pongo. Detesto ripetermi, e dunque in quel caso butto via. Altrimenti procedo. Non mi sono mai posto l'idea di confrontare due libri, neppure se, come in questo caso, il Giappone era elemento importante di narrazione.
La seconda linea che anima il libro è ancora la dimensione temporale, che questa volta però non è quella del tempo passato, quando piuttosto quella del presente, del mistero nascosto nello scorrere del tempo nel suo farsi o, per utilizzare il termine più corretto, dell'esperienza del tempo come sostanziale accettazione dell'impermanenza che regola la nostra esistenza. Nel solco di Matsuo Basho, con cui apri il libro, mi pare che tu abbia cercato questa volta non tanto di fare della pagina uno strumento per ricostruire il passato, quanto piuttosto di farne la superficie su cui far sedimentare il significato (e il mistero) di ciascun istante.
Prendiamola bassa, altrimenti parliamo di un libro che non riconosco. L'idea è quella di un'opera aperta, in cui ogni piccolo elemento contribuisce a costruire il puzzle del racconto. È un libro di viaggio, certo, ma anche un saggio disegnato che indaga la pratica del “perdersi”, come possibile sentiero per scoprire un disegno non logico, non pianificato nei dettagli. Una piccola modestissima ricerca. Il protagonista del libro sono i paesaggi, che furono per centinaia di anni protagonisti delle stampe giapponesi. E la domanda (implicita) “ma raccontare permette la pratica della contemplazione, che in teoria è una sospensione?”.
Il libro è un viaggio nei luoghi della penisola del Kii, Giappone meridionale, visitati fisicamente e filtrati poi attraverso appunti e un lavoro di pittura su carta, di sequenze narrative, teso a scartare, rispetto alla narrazione classica del racconto a fumetti. Uso la forma del diario, perché mi consente di essere seguito facilmente, poi mi addentro in concetti astratti cari alla poesia zen e alla pittura del mondo fluttuante, alla ricerca di quella consonanza, di quel “risuonare” possibilmente universale. Mi interessa indagare, molto banalmente il mistero che la natura cela secondo gli antichi. Una ricerca che richiede semplicità e grande concentrazione, piccoli riti quotidiani, preparare la carta, aspettare le velature del colore, che si depositino, e cercare di evocare, quando possibile, la meraviglia di quella natura giapponese che attraversa secoli di cultura, dalle stampe xilografiche sino ai manga e i cartoni animati di oggi.
Rimanendo sul concetto di "istante" mi ha molto incuriosito l'uso che fai nel libro della fotografia. Strumento per eccellenza che fissa la realtà, congelando un momento per l'eternità, gli scatti fotografici presenti in questo ultimo libro diventano in alcuni pannelli molto precisi un sostitutivo del tuo disegno, di quello strumento che è in fondo il tuo modo per dare forma poetica a ciò che Basho faceva con le parole dei suoi haiku.
La fotografia si inserisce e alterna ai disegni con una funzione di contrappunto. A volte serve perché l'acquerello, come nel caso dei paesaggi devastati di Hiroshima diventerebbe troppo lirico, estetico, e dunque inappropriato (non si rende estetizzante l'orrore, non se ne ha il diritto, credo). Mi interessa che la “temperatura” del racconto, sia precisa. Io volevo porre il lettore davanti allo sbigottimento che io stesso ho provato, nel museo della bomba di Hiroshima, non “abbellirne l'impatto”. Dunque, come racconto la scelta della fotografia in quel caso era inevitabile. Le 4 fotografie di Miyajima invece erano il silenzio. Quando le ho scattate ho pensato che erano perfette per quello che rappresentavano nel libro, un momento di pausa. Se le avessi ridisegnate avrei solamente cercato di imitare un momento che in realtà funzionava già di per sé, non ce ne era bisogno.
L’altro “spirito guida” del libro insieme a Basho è certamente il Maestro Jiro Taniguchi, recentemente scomparso, un artista unico nonché un tuo grande amico. Un altro fumettista che ha fatto del lavoro sul passato e sull’istante il fulcro della propria opera.
Jiro è stato un grande amico e collega. Non so se proprio una guida, ho certamente imparato delle cose da lui, ma io l'ho sempre pensato come un compagno di viaggio, con cui ho attraversato un lungo percorso. Abbiamo lavorato per gli stessi editori con gli stessi editor per decenni. In Giappone e Francia. Ho pubblicato dal 2000 I suoi lavori in Italia, abbiamo continuato a frequentarci in tutti questi anni. La sua scomparsa mi ha lasciato senza fiato, la devo ancora assorbire, ci siamo scambiati tante cose, nel tempo. Il libro è a lui dedicato.
Nel processo di realizzazione dei primi Quaderni giapponesi è stato molto interessante l'uso che hai fatto dei social network. Una parte fondamentale della tua presenza in rete è legata alla condivisione del tuo percorso creativo e del lavoro sui tuoi libri, ma spesso usi Facebook anche come luogo di confronto con colleghi e lettori.
Facebook è uno strumento di scambio, mi interessa come base per un confronto che prosegue nella mia attività di editor all'interno delle case editrici. Scrivo saggi sul fumetto, e scritti teorici, è la mia forma, il mio approccio. Non sono uno che si accontenta di pubblicare racconti disegnati, mi interessa fare il punto sul “dove stiamo andando” con il racconto.
Tu vieni dalla tradizione delle riviste e dei gruppi creativi, dove le dinamiche di interazione e costruzione di "comunità" erano ben altre. I tempi erano più lunghi, i viaggi forse più difficili, ma forte era il senso di appartenenza. Oggi siamo tutti incredibilmente vicini, l’accesso ai contenuti è quasi istantaneo, ma è probabilmente più difficile costruire delle reali piattaforme di confronto e di condivisione creativa. Usando i social che idea ti sei fatto di questo nuovo strumento che ha sostituito molte delle modalità di relazione fra autori e fra autori e lettori?
Sì, i social network sono un possibile strumento, abbastanza utile, ma non li sopravvaluterei. Sono solo una parte della contemporaneità. Il lavoro è molto più lungo e complesso e ha a che fare con un laboratorio che condivido con autori e osservatori, teso a stimolare per esplorare nuove mete narrative. È un lungo dialogo che dura da molti anni all'interno dell'industria del fumetto, fin dagli anni Settanta con le esperienze delle prime case editrici che ho fondato, fino a oggi con la Oblomov. E riguarda le dinamiche con cui si costruisce una storia e la si pubblica, comprende l'idea stessa di libro, la ricerca sui materiali, le carte, la grafica intesa come parte stessa del racconto e sulla confezione, attraverso una ricerca cartotecnica. Il libro è, nella mia idea, un oggetto magico che va ridefinito nella sua forma, tenendo presente il cosa si racconta e dunque, ovviamente, nella sua ricerca cruciale sulle tecniche stesse di narrazione. Nel fumetto i contenitori sono importanti, determinano spesso anche le dinamiche stesse di un certo tipo di approccio allo storytelling. Mi spiego, il fumetto nasce sui quotidiani, a pagina piena. Si sono create formule di racconto immaginifico (Little Nemo, Katzenjammer Kids, Yellow Kid, solo per fare 3 nomi) che hanno esplorato la bellezza grafica grazie al formato gigante che le pagine dei quotidiani di cento anni fa consentivano. Poi c'è stata la stagione per esempio delle riviste contenitore, e si è verificato un fiorire di racconti brevi, che hanno prosperato per decenni. Ora siamo nell'onda dei romanzi grafici. E dunque si elaborano storie a lungo respiro, ci si interroga sulla possibilità di creare una sintassi grafico narrativa che consenta racconti mai visti prima. Ecco, io credo che il mio ruolo sia in una certa misura anche questo, mi occupo di depositare binari possibili per locomotive del racconto che se hanno vapore abbastanza ci porteranno chissà dove. Ho pubblicato poco meno di mille libri dal 2000 a oggi.
Una delle discussioni interessanti che hai attivato su social è quella relativa alla possibilità di una nuova forma di fumetto popolare che, come accaduto in passato con Pratt o Magnus, possa far convivere il lavoro di autori "forti" e personali con una narrazione programmaticamente commerciale e rivolta al grande pubblico.
Credo molto nel fumetto popolare. Solo che non credo alla formula con la quale si interpreta il fumetto popolare oggi. Che è un approccio di disegno realistico e con tematiche già note e rimasticate già da decenni. Se dovessi paragonare il fumetto popolare di oggi alle serie tv credo che siamo davanti a fenomeni anacronistici come Beautiful e Dinasty, mentre oggi il pubblico mostra di apprezzare serie narrativamente smaliziate e altamente innovatrici come True Detective, Fargo, Narcos, The Crown, Westworld, per non menzionare I classici Breaking Bad o Better Call Saul. A me interessa lavorare sul racconto e sulla forma visiva di questo partendo dalla grande lezione dei classici, Magnus in testa, che non era affatto realistico, o Eisner. O per guardare a est a Tsuge o Tatsumi, per riscoprire un approccio allo storytelling pieno di fantasia e non soporifero. Non è con la noia che si conquisteranno i nuovi lettori. Pratt era altro, non è mai stato popolare allo stesso modo, come neppure Crepax, che erano avanguardie di una “narrazione colta”, molto felice.
Il 2017 è stato l'anno della nascita di Oblomov, la tua nuova avventura editoriale. Merito indiscusso di Coconino fin dai suoi esordi fu quello di costruire con il proprio catalogo uno spazio che fino ad allora non esisteva negli scaffali delle librerie italiane. Oggi il reparto fumetti è un must per le piccole librerie indipendenti come per la grande distribuzione. Cosa credi possa distinguere questa tua nuova impresa in un mercato come quello attuale, certamente sovraffollato di proposte?
Non c'è nessun bisogno di distinguersi dagli altri poiché il mio modo approccio è riconosciuto da anni. Come detto la realtà che io difendo è una dimensione del racconto, un metodo. A me non interessa molto l'idea astratta di editoria, quanto il fatto di produrre narrazione in un modo che curi tutte le sue componenti, se possibile. Non si fa per distinguersi dagli altri, si fa per cercare di fare bene. Molto umilmente mi importa se un racconto sta in piedi, e cosa possa io fare nel mio ruolo di autore, oppure di editore, per rendere possibile che questo lavoro arrivi ai lettori curiosi ed esigenti che ci seguono da anni. La Oblomov semplicemente comincia dove la Coconino, da me fondata 18 anni fa, ha finito. Ora quell'approccio deve diventare più capillare, deve estendersi ad altre fasce di lettori, deve giungere per esempio ai lettori che solitamente non frequentavano il fumetto, spesso lettori forti, lettrici. Che ci scrivono e seguono. Prima, negli anni duemila, si cercava di capire cosa fosse un romanzo grafico, oggi bisogna aprire le frontiere, sappiamo cosa sia, è ora di aprire al fatto che il romanzo grafico possa essere anche un saggio, magari, a fumetti, o un libro di viaggio, una riflessione che non metta sempre al centro l'eroe (sono formule imbolsite, che magari andrebbero riformulate seguendo l'esempio dell'opera aperta teorizzata da Eco negli anni Sessanta)
Uno degli elementi che distinguono Oblomov mi pare essere l'accento posto sugli autori dei vostri libri, intesi come artisti ciascuno con la propria voce e il proprio universo. Da questo punto di vista anche la scelta di lavorare sistematicamente su edizioni di pregio va nella direzione di fare del libro il centro di una esperienza estetica che va al di là del veloce consumo di una storia.
Esistono edizioni classic, a prezzi popolari e di alcuni libri le edizioni deluxe, che hanno meno limiti, ma il progetto è quello di fornire tutti i tipi di formati aprendo a collane le più disparate che pongono al di fuori degli standard industriali l'idea del racconto. Il mio approccio nei libri a fumetti è dialettico. Io mi pongo rispetto alla grande industria come uno che fa le cose su misura. Su misura dei lettori, e degli autori, soprattutto delle opere.
Quella che hai stabilito con forza con Oblomov mi pare una interessante "politica degli autori", in un panorama come quello italiano dove lo sdoganamento della categoria merceologica "graphic novel" ha portato a una saturazione dell'universo delle storie. Se mi passi il gioco di parole, oggi in Italia mi sembra ci sia molto novel, anche di dubbio spessore, e molto poco graphic.
Per anni si è pensato a un disegno scrittura. Ora sta tornando l'interesse per il disegno importante. Sono fasi. Nulla di drammatico. Quando erano presenti Moebius o Munoz con i loro disegni meravigliosi, un signore come Jacques Tardi imponeva un disegno altrettanto potente e meno estetico. Sono semplici dinamiche.
Da editore nonché da decano del fumetto d'autore mi piacerebbe avere una tua opinione suo uno dei principali effetti collaterali dell'esplosione del fenomeno graphic novel in Italia: tutti i fumettisti, anche se al loro esordio, vengono automaticamente già bollati come autori, seguendo logiche di marketing mutuate dal mondo della narrativa e che spesso hanno ben poco a che fare con il fumetto. Come leggi questo passaggio del Graphic Novel da forma espressiva a genere narrativo come potrebbe essere il noir o la fantascienza?
Sono categorie linguistiche sbagliate il graphic novel non è un genere, è un linguaggio. Come dire romanzo, poesia, racconto breve, che appartengono alla letteratura. I generi sono altri, fumetto di guerra, rosa, western, fantastico ecc. E, a loro volta, possono esserci fumetti brevi o graphic novel, o seriali, di genere western fantastico, noir ecc. Se un autore si sente tale io credo che ne abbia il diritto, l'unica cosa che io chiedo a un autore non è come si definisce, ma di sentire la sua “voce”. Mi interessa cioè che esprima un punto di vista sul mondo. E questo non è cosa che ti cada addosso, o che si possa indossare come un abito, ma il frutto di un'elaborazione di lunghi anni. In passato la figura dell'editor mi pareva antipatica, non la comprendevo. Solo dopo la mia “iniziazione” giapponese ho capito quanto prezioso può essere uno sguardo esterno che ti ponga delle domande. Essere un buon editor significa saper leggere e saper intervenire nello spirito di totale rispetto del mondo dell'autore. Ho imparato molto, come autore, lavorando con Tsutsumi san. Poi, anni dopo ho cercato di restituire. E con il tempo, con lo sviluppo editoriale del pianeta graphic novel forse ho dato un piccolo contributo.
Nell'ultimo anno praticamente tutti i grossi gruppi editoriali hanno aperto divisioni e collane dedicate al fumetto. Ultime in ordine di apparizione sono arrivate anche Feltrinelli e Mondadori. Mi piacerebbe sapere una tua opinione a riguardo, un tuo punto di vista che lasci parlare tanto l'Igort autore quanto l'Igort editore.
Il mercato è florido, c'è spazio per tutti, sin quando chi si occupa di fumetto all'interno di una casa editrice conosca la materia (cosa che non va data per scontata) non è un fenomeno solo italiano e non finirà tanto presto. Credo che i lettori siano sempre più attenti e che cerchino la qualità, questo sarà il discrimine, in molti chiuderanno perché semplicemente fare editoria non significa pubblicare dei libri, ma porsi delle domande un po' più complesse, creare una linea, un progetto, aiutare a far crescere gli autori, stimolare la curiosità su nuove mete, nuove frontiere. È questo quel che i lettori chiedono. Basta ascoltarli.