Dario Voltolini, Il Giardino degli Aranci
La voce di Dario Voltolini è tornata. E ci sono ritorni e ritorni. A volte i lettori attendono che un personaggio faccia di nuovo la sua comparsa sulla carta, altre volte si aspettano un certo tipo di trama, spesso nell’autore che ritorna in libreria cercano idee da portarsi a cena o sotto le coperte, in questo caso invece quello che noi lettori abbiamo atteso per qualche anno – Pacific Palisades è del 2017 – è semplicemente una voce cucita a una qualità dello sguardo: voce generosa, zampillante, varia, che sia cartesiana o psichedelica, pur sempre viva. La prosa di Voltolini sembra quelle veroniche ai bordi delle strade che non ti spieghi dove trovino nutrimento, incastonate tenacemente nell’asfalto o nella graniglia, con una piega quasi di sfida nella loro spensieratezza. Il che significa, dal punto di vista letterario, un talento speciale nell’incorporare una sensibilità e una libertà sorprendente in tutti gli aspetti della vita narrata, i migliori e i peggiori che, dentro la pasta di questa particolare intelligenza diventano logici, grazie alla carica di ironia che è sempre insita nella volontà beffarda di salvarli.
Dal momento che però recensire una voce è impossibile, perché significherebbe scendere nel minuscolo e doppiarla, fermarsi a ogni respiro, esaminare ogni riga di ogni pagina, allora meglio ripiegare su ciò che si può vedere più da lontano. In concreto, Il Giardino degli Aranci è l’apprendistato erotico-sentimentale di un uomo di nome Nino Nino. Si tratta di un libro piuttosto breve e scorrevole, anche per via del fatto che è diviso in diciassette capitoletti: la gran parte di questi portano il nome delle donne che il protagonista ha amato nelle diverse stagioni della sua vita; i restanti, invece, si riferiscono all’incontro di Nino Nino con una di queste, dopo tanti anni dall’ultima apparizione. La donna, che è particolarmente importante nel ricordo dell’amante, si chiama Luciana.
Se si dovesse ascrivere questo intreccio a un impianto noto e letterario, con piglio genealogico, verrebbe da dire che Voltolini ha riscritto una sua versione ricondizionata e ruspante della Vita nova. In questo catalogo di donne non c’è alcun dongiovannismo, al contrario da parte di Nino Nino c’è una postura sempre grata, trasognata, lievemente prostrata, a tratti penitente. Queste donne non sono in nessun modo vittime, anzi, causano nel bambino, poi ragazzo e infine uomo, un leggero ma disturbante trasalimento, unito a una scoperta e a una trasformazione del corpo che agisce e si disvela sotto la spinta dell’istinto. Anche il modo in cui i ricordi di donne si risvegliano non è mai in funzione di un encomio, di un esercizio di potere o di un controllo, è Nino Nino che, al pari di Dante, si sente rapito e agito da una strana forza, «per che si fa gentil ciò ch’ella mira».
Questa gentilezza, però, a differenza di quella cortese, sta in un rapporto stretto e necessario con la carne. A un certo punto, per esempio, dopo che sulla spiaggia la bella Ester gli ha fatto il solletico sul ginocchio, Nino Nino si alza e corre via: «correva come Coppi e non come Mennea, perché era incurvato a nascondere quella gloriosa erezione che voleva deflorare gli slip», e poco più avanti: «era un pezzo di lui che nasceva come provenendo da un abisso, come un delfino che appena nato cerca istintivamente e con un’urgenza di salire in superficie per respirare, per la prima volta respirare, come un soffocato che cerca l’aria», e dopo: «mentre correva gli cresceva dentro una smisurata forza, una gioia di vivere che però aveva incastonata nel suo nucleo l’irridente malinconia di una melodia andina». È raro trovare un’altra rappresentazione tanto efficace e poetica del punto di vista dei nino nino: ci sono passaggi che ricordano il Wallace di Per sempre lassù, dove un ragazzo sta per buttarsi dal trampolino il giorno del suo tredicesimo compleanno, e con intensità sente nel mondo e nelle sue membra il cambiamento che ora vive in presa diretta, da bambino ad adulto, in un salto.
Ma a differenza di quanto capita in quel caso, qui, in Voltolini, non c’è nessun rito di iniziazione che lo scrittore adulto proietta sul suo giovane personaggio, il pensiero regredisce e si riavvolge fino a coincidere con l’esperienza di quel giorno precisamente come l’ha vissuto un nino nino, solo con un’esattezza diversa nella scelta delle parole e della loro modulazione. Di fronte alla grazia della donna che di volta in volta ne colpisce la fantasia, Nino Nino prima sta e poi scappa. Persino quando il corpo agisce per conto suo, nel protagonista non c’è neppure l’ombra di una violenza, non c’è nessuna tensione a possedere la farfalla o a spillarla, c’è piuttosto un coro puerile di sorpresa.
La violenza è come sfilata dal quadro, è il colore che manca. E questo produce un effetto di bellezza e di sollievo: ciò che accade è ciò che è, ed è in movimento, in modo tale che l’uomo lo osserva capitare in lui insieme a noi che leggiamo, senza fare in tempo ad aggiungere note a margine. Così, quando Nino Nino si gonfia, è come la corolla di un fiore che cresce e si disfa, con la differenza che la coscienza lo imbarazza, lo rende inadeguato, oppure comanda alle gambe di scappare (vedi corsa nel mare), mentre una genziana non può farlo – perché non ha l’impiccio della civiltà e del suo riflesso nel pensiero individuale. Va detto poi che in ciascuno dei quadri in cui si articola il libro, in Nino Nino traspare un sentimento di gratitudine maggiore, come se ogni epifania di Beatrice aggiungesse un tassello a quello che infine Voltolini definisce il «bene di vivere».
In quanto al Giardino degli Aranci del titolo, non è altro che l’ultimo spazio attraversato da Nino Nino oramai adulto, al termine del libro. Dal punto di vista geografico, queste pagine contengono una ascesa, una sospensione, infine una discesa. Dopo tanti anni, il protagonista ha incontrato Luciana all’Ikea e i due si sono dati appuntamento in un bel posto panoramico di Roma, così adesso, dopo aver osservato la sua vita dall’alto, riavvolgendo il nastro del tempo e dei suoi pensieri, Nino Nino l’ha lasciata andare e scende giù, provando la dolce malinconia dei fili che per un istante si sono riallacciati. È uno scioglimento da manuale. Per come si dipana nel libro, l’incontro tra Nino Nino e Luciana rende evidente che ogni fatto diventa una storia, a condizione che lo si sottoponga alla sollecitazione del tempo: l’apparizione di Luciana al liceo, via via che la narrazione prosegue incorporando le stagioni che passano e i flashforward nel presente, diviene sempre più potente e profonda. E l’immagine stessa del giardino evoca nei lettori l’idea di una ritrovata purezza, una stagione dell’oro che per un attimo ritorna a galla senza che intervengano delusioni o rimorsi, anzi con una dolcezza particolare e delicatissima.
Finalmente Luciana e Nino Nino hanno la possibilità di parlare in maniera nuda e complice di com’erano, di che cosa provavano, del modo in cui si erano reciprocamente visti («mi faceva piacere la tua attenzione, però mi seccava anche», dice lei): possono farlo solo ora che hanno attraversato la vita e che hanno guadagnato una saggezza sulle conseguenze delle parole. La nudità umana tra i due non sta all’inizio del viaggio, è il frutto finale dell’esperienza. Perciò, in questo semplice dialogo sui ricordi di scuola, è racchiuso l’effetto che ogni buon romanzo dovrebbe produrre, cioè far sentire che del tempo è trascorso.
A quest’altezza, infatti, quando Luciana e Nino Nino chiacchierano sopra i colli romani, sembrano passate molto più di centoventi pagine dalla scena in cui lui, attratto dal buono in lei, iniziava a rispondere prodigiosamente bene alle domande di geometria della professoressa al punto da guadagnarsi il soprannome di «cateto». La sequenza dell’innamoramento verso Luciana, tra l’altro, è una specie di applicazione perfetta dell’amore platonico: un cammino che procede dal desiderio del corpo fino all’anima dell’amato, per poi estendersi in un istinto verso il buono che sta nelle cose, nelle leggi, e ancora più su, fino al sapere e al sommo Bene, qualunque cosa esso sia. Nino Nino all’apparizione della ragazza «era travolto prima di tutto lui da quella uscita, alla quale si affidava alla cieca per raggiungere misteriosamente l’obiettivo di coinvolgere nella tracimazione anzitutto Luciana, poi il mondo circostante, il mondo intero e infine (o meglio, per cominciare) l’universo». Questo calore pranoterapeutico, che per la prima volta si espande nell’essere dell’uomo davanti a lei, non è esclusivo di Luciana: torna con le altre donne dell’indice, ed è il bel collante che tiene insieme il libro, la ragione per cui la voce di Voltolini è tornata a parlare.
Per il resto, le pagine sono piene di ironia, a volte condensata in passaggi colti e pirotecnici come: «il nonno era più atletico e aveva un sorriso umano, del tutto privo di quell’appuntito sguardo da roditore selvatico disturbato e vendicativo che aveva il grande pensatore». Qui, per esempio, si sta arrangiando un paragone molto interessante tra un anziano signore e Martin Heidegger. Ma ovviamente si potrebbero fare centinaia di altri esempi. Questa lingua assomiglia alla borsa di Mary Poppins al punto che uno dei piaceri di leggerla sta esattamente nel fatto di non sapere quale sarà il prossimo arnese che ne verrà fuori.
L’alto e il basso, la poesia e la balera, l’Ikea e Rilke, gli umori di un corpo adolescente e il latino letterario si trovano affettuosamente insieme, nel montaggio e nel pensiero. Ne risulta un mondo punk che è difficile non trovare irresistibile, qualunque ansia Voltolini ritragga. Cosa che alla fine non è poi così importante, con buona pace di Nino Nino. Perché l’attenzione di chi legge finisce per concentrarsi sull’intarsio, sulla grana preziosa del fondo, sulla provocazione del fiore che sboccia in mezzo allo smog.
Per chi si appassiona a questa voce e vuole recuperare le puntate precedenti, c’è l’imbarazzo della scelta: la compilation di Voltolini, dal suo esordio in avanti, è ampia, e l’ordine di lettura indifferente.