Roma, 22 settembre 2017 - 21 gennaio 2018 / Picasso-Parade: il sipario a Palazzo Barberini
La mattina del 18 Maggio 1917, al Théâtre du Chatelet a Parigi, a beneficio del Fondo per la Guerra, si apre il sipario con il preludio di una musica solenne. A sorpresa, invece di mostrare la scena, si scopre un secondo sipario: un grande telo ritrae i membri di un circo, animali compresi, in un momento di pausa. Una cavalla, con indosso il suo costume alato, si occupa del suo piccolo, una ballerina, alata anche lei, gioca con una scimmia arrampicata su una scala, un cane dorme mentre gli artisti si riposano, parlano, consumano insieme un pasto a base di frutta e caffè, avvolti nelle stoffe gonfie di velluti cremisi e viola sullo sfondo di un paesaggio arcadico italiano. La scena dura pochi minuti, è il primo atto del nuovo spettacolo dei Balletti Russi. Il libretto è di Jean Cocteau, le coreografie di Léonide Massine, le musiche di Erik Satie, i costumi e le scenografie di Pablo Picasso: il titolo è Parade, ovvero “parata”.
Non sarà un grande successo: i costumi, la danza, la musica sono troppo moderni, la trama è ostica – una sequenza di personaggi si esibisce una domenica pomeriggio all’esterno di un teatro, con lo scopo di attirare spettatori – e il finale è malinconico, con il pubblico che non entra a vedere lo spettacolo poiché gli è stato già offerto gratuitamente. Insomma Parade, nel 1917, con l’ultimo anno di guerra che infuria, non piace, e non arriverà mai a piacere quanto altri balletti della compagnia di Sergej Djagilev, ma il grande sipario che incarna tutta la storia dello spettacolo, dentro e fuori la scena, viene presto riconosciuto come una delle fasi fondamentali della vita e dell’opera di Pablo Picasso, nonché dell’arte del 1917, un momento cruciale per la politica e la cultura europea, di cui quest’anno ricorre il centenario.
Proprio in occasione di questo anniversario è possibile vedere a Roma, fino al 20 gennaio 2018, il sipario di Parade, il quadro più grande di Picasso, dieci per diciassette metri, il vero centro della mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale, dopo la tappa napoletana al Museo di Capodimonte.
Se Picasso Tra Cubismo e Classicismo 1915-1925 racconta infatti l’origine di Parade, e con garbo e bei prestiti internazionali riporta un decennio di carriera dell’artista spagnolo, a seguito del viaggio italiano intrapreso per lavorare al nuovo spettacolo dei Ballets Russes, il sipario ne è l’apoteosi, specie nella sua esposizione romana, in cui non è allestito con il resto della mostra alle Scuderie del Quirinale, ma, contribuendo non poco alla meraviglia della sua vista, sotto il magnifico soffitto di Pietro Da Cortona a Palazzo Barberini, mescolando in un colpo d’occhio tre geni: Bernini, Pietro da Cortona e, appunto, Picasso. Sì, perché il sipario a Palazzo Barberini si anima e diventa spettacolo, vivificando, insieme all’incontro dell’artista spagnolo con l’Italia, ulteriori suggestivi incroci tra visioni d’avanguardia e secoli diversi che a Roma hanno trovato il terreno per sbocciare.
L’antefatto di questa apoteosi di classicità modernissima è una storia che ha inizio all’incirca un secolo fa, nella primavera del 1917, quando Picasso giunge a Roma a seguito di numerosi incontri e scambi epistolari con Djagilev e Jean Cocteau, a proposito di un viaggio in Italia per la realizzazione dei costumi e delle scene del nuovo spettacolo dei Ballets Russes che doveva debuttare a Roma, al Teatro Costanzi, nell’aprile 1917 e sarà invece presentato a Parigi a maggio. L’artista spagnolo, fino a quel momento abbastanza estraneo al mondo della danza, si imbarca in questa nuova impresa in un momento tragico della storia europea e della sua personale. Il viaggio e la collaborazione alla messa in scena del balletto sono l’occasione per lasciare Parigi, vedere l’Italia, e riprendere un discorso sullo spettacolo appena avviato dalla collaborazione alla rivista Cabaret Voltaire di Zurigo, anima del movimento Dada e punto di partenza di un’estetica performativa mista, fatta di non sense, danza, teatro e avanspettacolo. Così Picasso parte, e non è il solo: tra l’autunno 1916 e il febbraio 1917, tutti gli artisti coinvolti nella stagione romana dei Ballets Russes confluiscono a Roma: praticamente metà dell’avanguardia.
Giunto a Roma, Picasso affitta uno studio al 53b di via Margutta, presso gli Studi Patrizi, frequenta il Caffè Aragno in via del Corso e si inserisce immediatamente nell’ambiente vicino ai Ballets Russes. Incontra Giacomo Balla, impegnato nella realizzazione della scenografia di Feu d’Artifice di Stravinsky, e il giovane Fortunato Depero che ha appena firmato un contratto con Djagilev per le scenografie e i costumi dello Chant du rossignol, sempre di Stravinsky, e realizzerà i costumi per Parade dai suoi bozzetti. Il Futurismo è al massimo della sua espressione, specie nel teatro e nella danza, e conferma, anche in questi campi, l’adesione alla dinamica simultanea della vita moderna e la distanza da Parade e dagli altri Ballets Russes: il dogma del futuro non gli permette la fascinazione per l’antichità rivelata dallo spettacolo di Cocteau.
In poco più di otto settimane di viaggio, le tappe principali sono Roma e Napoli, Picasso entra in contatto con una realtà intessuta di popolaresco e antico, rinascimento e barocco, tradizione e modernità, rimanendo folgorato dalla scoperta di una freschezza del classico a lui sconosciuta. Se in Francia l’esercizio dell’antico era stato accademico, in Italia diventa pienamente moderno, reale, tangibile al di fuori dei musei, nelle strade e nelle piazze. Il sipario di Parade ne è la massima prova: il classico, mediato dal teatro dei burattini, dalla commedia dell’arte, dall’atmosfera delle strade di Roma e Napoli, diventa sinonimo di autenticità, di ironia e rompe ogni canone: quelli dell’accademia e quelli dell’avanguardia cubista.
Tanto nelle fattezze del sipario quanto nella concezione del balletto, ogni aspettativa è elusa dall’accostamento tra moderno e classico: la grazia, la scena intima dipinta da Picasso, con lo sfondo di un paesaggio arcadico, si scontrano, dopo pochi minuti di spettacolo, con l’azione di personaggi vestiti con costumi cubisti, la musica ‘urbana’ di Satie, le coreografie moderne di Massine e le voci e i rumori fuoriscena, proponendo un circolo continuo di modernità e tradizione, proprio secondo la visione di quella che doveva apparire, all’artista spagnolo e ai suoi compagni di viaggio, l’Italia di quegli anni: un’Italia viva ancorché provata dalla guerra, fatta di passato e fermenti avanguardisti.
Oggi, a cento anni di distanza, quel connubio tutto italiano tra arcaico e moderno ritorna nella visione del sipario di Parade restituendo, nell’incontro con l’architettura di Gian Lorenzo Bernini e gli affreschi di Pietro da Cortona, qualcosa in più. L’ambiguità, la prospettiva sbilenca in cui sono inseriti i personaggi, i decori barocchi, il paesaggio rappresentato sullo sfondo del sipario, incontrano il monumentale affresco de Il Trionfo della Divina Provvidenza di Pietro da Cortona e acquistano senso.
Picasso probabilmente non ha mai visitato Palazzo Barberini ma le due opere sembrano aver avuto gestazioni simili: in entrambe il classico corrompe il moderno e il moderno il classico; in entrambe gli artisti giocano la loro partita sul gigantismo dei personaggi, sulla capacità illusoria della prospettiva e su schemi fluidi capaci di rompere ogni staticità compositiva, riuscendo insieme ad accogliere i fermenti culturali della scena artistica europea all'inizio dei due secoli, il Seicento e il Novecento, e a fondare qualcosa di nuovo. D’altra parte anche Bernini, autore dell’architettura del salone Barberini, si era cimentato con il teatro, in particolare con la commedia L’impresario, di cui era autore, una sorta, anche in questo caso, di messinscena di una messinscena, capace di combinare sublime e volgare, immagine e meraviglia. Nel corso della commedia seicentesca, il personaggio del pittore, alter ego di Bernini, afferma: «l’inzegn, el desegn, è arte mazica per mezz del quali s’arriva a ingannar la vista in modo da fere stupier» e difatti Pietro Da Cortona con il soffitto sancisce la nascita della “grande decorazione barocca” proprio in un salon de parade aperto al pubblico invitato allo stupore, alla lettura per immagini della rinascita del potere papale sulla riaffermazione del suo primato culturale e politico, come nei tempi della Roma di Giulio II, di Raffaello e di Michelangelo; e Picasso, fa tesoro del soggiorno italiano, non solo per le soluzioni trovate per il sipario e le scene di Parade, ma per l’intero orientamento della sua pittura negli anni successivi.
All’indomani del soggiorno italiano la nuova componente classica acquisita dall’artista spagnolo si fonde infatti con i ricordi della cultura simbolista del periodo blu e rosa, ma anche con le incisioni di Bartolomeo Pinelli, con gli acquarelli del napoletano Achille Vianelli, e più indietro ancora, con le prospettive allucinate della Roma barocca e con quelle lucide dell’antica, ancora vive, insieme, nel panorama metropolitano romano e napoletano.
Giocando con la commedia dell’arte, l’effimero e l’illusionismo teatrale, Picasso fa aprire il sipario, ieri e oggi, su un’altra soglia capace di dividere ma anche di congiungere lo spazio reale e quello immaginario, rivela il retroscena dello spettacolo, secondo un’ottica condivisa con l’avanguardia del barocco, prima che con quella novecentesca, e mostra, eludendo ogni canone, un’inaspettata dimensione naturalista che riguarda intimamente l’Italia di ieri, quella di ieri l’altro, ma anche quella di oggi, con tutti i suoi abitanti.