Speciale
Il 2 giugno delle donne / Ada Gobetti. La partigiana educatrice
Torino, via XX Settembre
La conosciamo come Ada Gobetti perché, «per ragioni politiche, gli amici hanno sempre voluto chiamarmi Gobetti. E allora io, per affetto e rispetto di Ettore, ho sempre aggiunto Marchesini», disse riferendosi al secondo marito cui si era unita dopo la vedovanza. Ma l’identità e la personalità di Ada Prospero, classe 1902, vanno ben al di là dei cognomi acquisiti, e del resto non fu un caso se l’intellettuale Piero Gobetti se ne innamorò perdutamente.
Un amore, ricambiato con la stessa intensità, nato a Torino nel palazzo di via XX Settembre 60, in cui entrambi abitavano, lei figlia unica di una coppia di benestanti commercianti di frutta, lui ambizioso giovane di cultura con la vocazione a sostenere ideali di libertà. L’incontro è quasi predestinato, Piero la coinvolge nel primo dei suoi progetti editoriali, la rivista «Energie Nove» – quindicinale politico-letterario cui collaborano Balbino Giuliano, Mario Attilio Levi, Maria Marchesini – e da allora non si separano. Siamo nel 1918, nel clima di generale mobilitazione della fine della Grande guerra, Ada ha 16 anni, lui uno di più. Insieme cominciano un percorso di formazione impegnativo, studiano il russo e traducono, tra gli altri, alcuni racconti di Leonid Andreev e Aleksandr Kuprin, che pubblicano nella collana «Il genio russo» della casa editrice Slavia.
Il sentimento che li unisce si sviluppa e consolida nel tempo; è Piero ad avere un maggior peso nelle scelte della coppia, come dimostra anche la rinuncia di Ada a coltivare professionalmente la passione del pianoforte per dedicarsi invece agli studi universitari (si iscriverà a Lettere e filosofia).
Tuttavia, Piero preciserà di essere «scolaro e maestro insieme e solo a questo patto (di poter) amare. Se fossi costretto a pensare per un momento la differenza di sesso come differenza di capacità spirituale non so qual senso pauroso di desolazione proverei». E lei, in una delle lettere del fitto carteggio in cui compaiono non poche frasi d’amore in cirillico, analizzerà con lucida consapevolezza il loro legame:
Per te il mio amore è il solo conforto nei momenti sempre più rari di debolezza, è anche qualche cosa di più: ma è qualche cosa nell’organicità della tua vita […] per me invece questo amore non è qualche cosa nella mia vita, è la mia vita stessa, è l’aria che respiro, è la ragione per cui vivo […]. In questo non mi pare che ci sia né inferiorità mia né superiorità tua: ma semplicemente in questa differenza la necessaria intima ragione della nostra unità.
Si sposano l’11 gennaio 1923. Vanno in viaggio di nozze a Napoli, dove incontrano Benedetto Croce, e Ada nemmeno può immaginare, nel momento in cui il filosofo la «consegna» nelle mani della moglie Adele per parlare in libertà con Piero, quanto un giorno quell’uomo sarà cruciale nella sua vita. Intanto, già dall’anno precedente il giovane Gobetti dirigeva il settimanale di cultura politica «La rivoluzione liberale», cui lei dà un contributo per la parte organizzativa e amministrativa; più tardi, nel 1924, Piero creerà anche la rivista letteraria «Il Baretti», che prende il nome dall’anticonformista letterato del Settecento al quale il giovane intellettuale torinese si ispirava sin dalle sferzanti cronache teatrali scritte per «L’Ordine Nuovo». Parallelamente, le edizioni di casa Gobetti pubblicano autori, nell’ambito della cultura politica, invisi al fascismo come Salvemini e Nitti, Amendola e Sturzo, Einaudi e Salvatorelli, fino a John Stuart Mill, distinguendosi per acume e coraggio nel panorama intellettuale italiano. Non solo: la casa editrice riconosce il valore e la grandezza dei versi di Montale, pubblicando Ossi di seppia. È l’acme nella breve esistenza di Piero, prima che la violenza fascista si abbatta sul suo corpo e sui principi di libertà.
Come ricorderà Norberto Bobbio, «per quante volte mi sia accaduto in questi anni di tornare a riflettere sull’opera di Piero Gobetti, non posso trattenere ogni volta un moto di sorpresa, quasi di incredulità, di fronte alla sua prodigiosa giovinezza. Mi sono domandato spesso se vi siano altri esempi nella nostra storia di tanta ricchezza e varietà e densità di opere in così breve spazio di anni. Non ne ho trovati». Ada si alimenta in effetti di tanta straordinarietà, ma da par suo segue con determinazione la propria strada laureandosi nel giugno 1925 – già incinta e a nemmeno 23 anni compiuti, essendo nata il 23 luglio – in Filosofia teoretica con una tesi sul pragmatismo angloamericano. A dicembre mette al mondo Paolo, una gioia che condivide con il marito per pochissimo tempo. Il regime ha intensificato progressivamente la repressione, al punto da ingiungere alla «Rivoluzione liberale» di terminare le pubblicazioni e alla casa editrice di chiudere i battenti. Le condizioni fisiche di Piero sono ormai precarie, gli scompensi cardiaci di cui soffriva si sono via via acuiti per una brutale aggressione di un gruppo di fascisti, che l’aveva picchiato selvaggiamente sulle scale di casa. Rifugiatosi a Parigi, dove spera di riprendere con nuovo vigore l’attività editoriale, Piero non regge alle complicazioni sorte dopo una bronchite e il 16 febbraio 1926 muore.
A neanche 25 anni. Ada, rimasta a Torino con il bambino, entra in uno stato di prostrazione di cui parlerà pochissimo. L’amica Bianca Guidetti Serra racconterà che solo nell’inverno 1943-1944, accartocciate nell’oscurità di un carro bestiame, con la paura di essere ammazzate da un momento all’altro dai tedeschi e senza neanche la possibilità di guardare l’una il viso dell’altra, le sussurrò che le era parso di «vivere nel buio» per lungo tempo.
La vita senza Piero
Paolo Gobetti non ha dunque neanche 2 mesi ed è certamente lui a dare la forza alla madre di rialzarsi. Qui comincia in qualche modo una seconda vita, la vita dopo Piero, perché quella morte segna un prima e un dopo. L’inglese che i suoi genitori, fornitori ufficiali della Real Casa, le avevano sempre fatto coltivare, torna utile: vince un concorso e insegna la lingua prima a Bra, poi a Savigliano, infine a Torino al ginnasio Balbo, lo stesso che aveva frequentato da ragazzina, mentre le lezioni private le consentono di arrotondare le entrate. Dall’estate del 1927 nella sua vita entra in gioco l’amicizia con Croce, che inciderà moltissimo. La timidezza, la sensazione di inadeguatezza provate nell’incontro durante il viaggio di nozze, lasciano spazio a un rapporto franco e affettuoso in cui la distanza di età ed esperienze non impedisce scambi e conversazioni gratificanti. Estate dopo estate, a Meana, un paese della Val di Susa dove entrambi trascorrono le vacanze, Croce le offre consigli e appoggio, la incoraggia a tradurre (procurandole importanti contratti con Laterza e Garzanti).
Ada si lascia guidare e risponde con l’impeto della necessità, ma anche dell’interesse, alle sollecitazioni del maestro, applicandosi al Civitas Dei di Lionel Curtis, alla Vita di Samuel Johnson di James Boswell, alla Storia d’Europa di A.H.L. Fisher, al Calvino di Carew Hunt, ai Drammi del mare e L’imperatore Jones di Eugene O’Neill (per Frassinelli), a I loro occhi guardavano Dio di Neale Hurston e a tante altre traduzioni con le più importanti case editrici. Un’attività che è, in sé, un contributo di conoscenza non da poco di un pezzo di storia della letteratura angloamericana, in anni in cui già soltanto avere padronanza di una lingua straniera è un segno d’eccellenza.
Se questo è il côté culturale che garantisce alla giovane madre il sostentamento familiare, la casa di via Fabro, al 6, a Torino, dove aveva vissuto con Piero e che era stata un punto di riferimento di tanti amici e intellettuali antifascisti, continua a essere il fulcro politico della sua esistenza. Perché Ada, e questa è una caratteristica che ne fa una persona fuori dell’ordinario, non è mai «una». È tante cose insieme, è una donna di grande complessità: la sua sensibilità politica e la sua militanza civile, il «dover fare» qualcosa per la comunità non rimarranno solo teoria, come vedremo; è una mamma attenta ma non soffocante; sarà impegnata sul fronte della difesa della donna; si occuperà dei problemi dell’educazione, al fianco delle famiglie e soprattutto dei genitori italiani, con una visione moderna e illuminata.
All’indomani della morte di Piero, dunque, l’appartamento non cessa di essere una sorta di base per quanti condividevano ideali di opposizione al regime. Ada va a Parigi, dove al Père-Lachaise era sepolto il marito e dove riparavano molti esuli antifascisti, e incontra alcuni militanti, tra cui Carlo Rosselli. Contribuisce così alla formazione del movimento Giustizia e libertà e si spende senza risparmio nella costruzione della rete di rapporti giellina. Nel giugno del 1937 sposa Ettore Marchesini, fratello minore di Maria, Ada e Nella, amiche di lunga data dei coniugi Gobetti, come del resto lo stesso Ettore, tecnico dell’Eiar, l’emittente radio di Stato. Il commento di Croce riassume il senso di un’unione meditata e ben riuscita: «Fa bene, ha la serenità e la dolcezza di carattere che a lei mancano». Un ingegnere dalla personalità e dall’indole completamente diverse da quelle di Piero e, per questo, non in competizione con il suo ricordo.
Attività letteraria e dissenso nei confronti della dittatura trovano una perfetta conciliazione nel primo romanzo per bambini di Ada, Storia del gallo Sebastiano, pubblicato nel 1940 da Garzanti con lo pseudonimo Margutte e le illustrazioni di Ettore. È la storia di un gallo nato bruttino e alquanto strano in una famiglia borghese che vive in modo conforme a una società rigida, governata da leggi cui si obbedisce pedissequamente anche se insensate. Sebastiano si ribella e, cocciuto, fa il contrario di quello che ci si aspetta che faccia. Una chiara metafora della società fascista priva di libertà e contro la quale ci si dovrebbe rivoltare.
Ada partigiana
Il 10 giugno 1940, intanto, l’Italia entra in guerra. E qui si avvicina la fase culminante dell’attività politico-militante di Ada, che è tra i fondatori del Partito d’azione e «andrà in guerra» con Paolo nel settembre del 1943. Madre e figlio, partigiani. Per giorni senza sentirsi, senza avere idea se l’uno e l’altra fossero vivi o morti. Quando il figlio – che aveva 17 anni e ne avrebbe compiuti 18 di lì a poco, pronto per essere chiamato al servizio militare – le dice che sarebbe andato in montagna, rispetta la sua decisione, pur sapendo l’ansia che l’avrebbe colta, perché lei per prima avverte l’impellenza di fare altrettanto. I due anni resistenziali sono raccontati in Diario partigiano, scritto ancora una volta su invito di Benedetto Croce, il quale dopo la Liberazione le confessa di non poter capire davvero nel profondo che cos’è stata la Resistenza e la prega di rendere pubblica la sua testimonianza. Così sarà: il materiale per il Diario, pubblicato da Einaudi nel 1956, non sono solo i ricordi ma le tracce scritte in un inglese cifrato (torna anche l’inglese: quante sfaccettature si ricompongono nell’unicità di Ada Prospero), con il quale molto difficilmente tedeschi o fascisti allora avrebbero potuto raccapezzarsi. Scrive nell’introduzione Goffredo Fofi, intellettuale molto vicino ai Gobetti, che collaborerà al «Giornale dei Genitori» e al futuro centro studi di via Fabro:
Nacque così uno dei più schietti, dei più completi e avvincenti libri sulla Resistenza la cui pulizia e chiarezza lo destinavano anche a un altro scopo e ad altri lettori: e il libro ha finito per trovare i suoi destinatari naturali nei giovani che la Resistenza conoscono in modo distorto, spesso annebbiato dalla retorica delle celebrazioni ufficiali che fanno di vicende difficili, contraddittorie, ma anche esaltanti, una cosa da monumento o da banda.
Ada lascia il segno per come conduce le operazioni da commissaria politica della IV Divisione GL «Stellina» in Val di Susa, per la lucidità nelle azioni più propriamente militari, per la capacità di coinvolgimento della popolazione. Sia la casa di Torino sia quella di Meana diventano punti di incontro e luoghi di rifugio di partigiani e antifascisti (come da tradizione), con la portinaia Espedita Martinoli a vegliare e ad avvertirli nel caso di controlli della polizia. Ettore mette in campo le sue competenze tecniche, costruendo marchingegni per sabotaggi e realizzando potenti apparecchi trasmittenti che collegavano le diverse vallate piemontesi. Il Diario è un resoconto della vita di quella stagione: leggendolo si entra nel flusso della tesa e rivoluzionata quotidianità, fatta di imboscate, torture, lacrime, paura, sospiri per averla scampata. Ada fa vivere al lettore la scoperta del primo giovanissimo cadavere:
No, non era Paolo, anche se non se ne scorgeva il viso, reclino. Ma non provai nessuna reazione di sollievo. Una pena insostenibile mi scosse tutta alla vista di quella giovane carne denudata e straziata, come se fosse stata la mia stessa carne, quella di mio figlio. Mai come in quel momento sentii quanto sia forte l’istintiva profonda solidarietà materna per cui ognuna sente come figlio suo ogni figlio d’ogni altra donna.
O racconta come ineluttabile lo sconvolgimento della sua routine:
9 giugno, Torino. Giornata vertiginosa. Ho calcolato che oggi son passate in casa mia cinquantaquattro persone. E qualche volta mi chiedo se questo mio affidarmi all’istinto e alla sorveglianza di Espedita e alla benevolenza dei vicini non rasenti l’incoscienza. Ma poi mi dico che difficilmente il punto di riferimento rappresentato dalla mia casa sarebbe sostituibile.
Memorabile la descrizione della missione in Francia a fine dicembre 1944, quando con gli sci ai piedi lei, Paolo e altri compagni attraversano il Passo dell’Orso, valico alpino transfrontaliero, rischiando moltissimo, per prendere contatto con gli Alleati. Un’impresa, sotto una tormenta di neve, le tracce delle piste irriconoscibili, la stanchezza e il freddo che si possono immaginare a tremila metri.
L’impegno di Ada si estende all’emancipazione delle donne, cui dedica molte energie creando assieme a Maria Bronzo Negarville, Irma Zampini, Medea Molinari e Anna Rosa Gallesio i Gruppi di difesa della donna (GDD) e divenendo presidente dell’Unione delle donne italiane (UDI) di Torino. Nel Diario racconta la sua visione dei GDD, sorti dall’impulso di spiegare alle donne più semplici il significato della guerra che stavano combattendo e del perché valesse la pena dare un contributo – pur attraverso modeste mansioni femminili – alla Resistenza, sentendosi parte della Storia. La pagina del 1o agosto 1944, a Torino, è dedicata al giornale che il Movimento femminile di Giustizia e libertà, nel quale pure è coinvolta, vorrebbe lanciare: «s’è deciso per il titolo La nuova realtà.
La nuova realtà è proprio quella che tutti, uomini e donne, vogliamo creare per il domani. Ma ci riusciremo?». Queste esperienze la porteranno fuori dai confini nazionali, a Parigi, dove nel 1945 partecipa alla fondazione della Federazione democratica internazionale delle donne (la FDID, per la quale andrà in Cina nel 1954) all’interno della delegazione italiana unitaria, composta da azioniste, cattoliche, comuniste, liberali, socialiste, repubblicane. L’appuntamento è entusiasmante: 850 rappresentanti arrivate da 40 Paesi, delegate di 181 associazioni femminili, ognuna delle quali porta la propria testimonianza e il proprio messaggio. Il suo, in un momento di «grande risveglio di coscienze e forze – anche femminili» è rivolto ai ragazzi:
A loro lasceremo compiti nuovi e importanti da assolvere; dobbiamo creare per loro la possibilità di crescere e formarsi in modo adeguato a quei compiti; aprire loro il cammino, con libero passo e nella giusta direzione; e adoprarci in tal senso, subito, con slancio coraggioso e generoso.
L’approdo in comune
Al termine della guerra, Ada viene smobilitata con il grado di maggiore (successivamente sarà decorata di medaglia d’argento al valor militare «quale fulgido esempio di suprema dedizione e fervido entusiasmo agli ideali di libertà e di Patria»). Non finisce qui: è nominata vicesindaco di Torino, prima italiana a ricoprire questo ruolo in una grande città. Lo interpreta con spirito di responsabilità e senso del dovere, prendendo l’incarico dell’Istruzione e dell’assistenza, decisamente nelle sue corde: l’azione immediata è per gli ex prigionieri, i sopravvissuti nei campi di concentramento, i liberati dal carcere, i poveri e chi ha perso tutto in una guerra che ha reso irriconoscibile la città. In consiglio comunale si concentra sugli aiuti ad anziani e malati, sul cambiamento dei regolamenti scolastici, sulla ristrutturazione di musei, gallerie e biblioteche: Torino doveva tornare a essere un punto di riferimento culturale, come lo era stata prima del conflitto e durante la sua adolescenza.
Nel febbraio del 1946 partecipa al Congresso del Partito d’azione e nell’ottobre vola a Mosca con la delegazione femminile italiana. L’anno successivo va a Londra per un incontro internazionale organizzato dalla Lega dei diritti dell’uomo, e qui accade uno di quegli eventi imprevedibili che possono cambiare il corso di un’esistenza: un grave incidente (viene investita da un autobus) la costringe a lungo in ospedale, tra la vita e la morte. Addirittura, racconta la nuora Carla Nosenzo, credendola morta l’avevano già portata all’obitorio, dove però – per dare segnali inequivocabili – con voce appena udibile aveva cominciato a recitare diversi brani di Shakespeare in inglese13. Rientrata in Italia, a Torino le tocca un altro lungo periodo di recupero. Il risarcimento di 6 milioni per quanto accaduto le permette di comprare una bella casa in collina a Reaglie, alle porte della città, dove si trasferirà con la famiglia. Qui comincia la terza vita di Ada Prospero, che abbandona l’aspetto più militante e peregrino per il mondo per ripiegare su un impegno altrettanto intenso ma di tipo sociale ed educativo.
Dalle colonne dell’«Unità», di «Paese Sera», del «Pioniere», dove tiene delle rubriche, il suo sguardo si volge in particolare al mondo dell’infanzia – nel 1952 e nel 1954 arrivano i nipotini Andrea e Marta – e della scuola, alla luce anche della lunga esperienza di insegnante, senza trascurare il diritto delle donne ad affermarsi nel rispetto della loro diversità. Esemplare, a questo proposito, e ancora di estrema attualità, la risposta a una giovane lettrice dell’«Unità» che ha problemi in famiglia perché si sente oppressa da regole antiquate:
Non è vero che non c’è nulla da fare per voi ragazze. Poiché tutte potete partecipare alle battaglie che oggi in Italia si combattono in ogni campo per imporre il rispetto e l’applicazione della Costituzione. Affermando l’uguaglianza di tutti i cittadini senza nessuna distinzione, la nostra Costituzione garantisce implicitamente quelle che sono le vostre esigenze fondamentali: il diritto al lavoro e il diritto all’amore. S’impegna cioè a creare una organizzazione sociale in cui non esista incompatibilità tra le due cose; in cui una ragazza possa iniziare e seguire una carriera indipendente, esprimere le proprie capacità, inserirsi nel lavoro produttivo del paese, senza dover per questo rinunziare ad avere una famiglia o una casa, o senza dover inevitabilmente trascurare l’una o l’altra cosa; o senza doversi infine sottoporre, se vuole farle bene entrambe, a una fatica, una tensione di cui finirà presto o tardi col sentire le conseguenze.
Ada si occupa dei temi della contraccezione e della scelta della maternità volontaria, cosciente e responsabile: lo fa in modo concreto fondando, insieme ad Alessandro Galante Garrone, l’Associazione per l’igiene e l’educazione matrimoniale e prematrimoniale (AIEMP), rivolta alle donne. Con Dina Bertoni Jovine, nel 1953, dirige «Educazione Democratica», prima di buttarsi anima e corpo nell’avventura del «Giornale dei Genitori», la sua creatura.
Nel 1956 compie un passo spiazzante. Aderisce al PCI, proprio nel momento in cui molti intellettuali prendono la decisione opposta ed escono dal partito a seguito dei fatti d’Ungheria. Ci sono poche testimonianze dirette su questo punto. Per Guidetti Serra «le motivazioni si possono trovare nelle parole che allora disse: “Non si può restare tutta la vita spettatori; bisogna saper scegliere, assumersi le proprie responsabilità”». Goffredo Fofi va oltre le spiegazioni formali, lasciando intendere un’intima fragilità:
La verità è che si iscrisse al partito per seguire le orme del figlio Paolo, per stargli vicino anche in questo. Lei ha sempre pensato che Paolo potesse essere un secondo Piero, un po’ ne parlava perché si rendeva conto di questa debolezza. Paolo non aveva voluto fare il Piero e quindi, finita la Resistenza, era entrato nel PCI. E lei ha detto: «ti frego, ci entro pure io». Il punto è che Paolo ha evitato di fare il politico. Con il cognome che aveva, Togliatti l’avrebbe subito mandato in Parlamento, figuriamoci. Invece lui scriveva di cinema sull’Unità di Torino, e si era costruito una sua identità.
Il processo educativo e il «suo» giornale
La vocazione sociale e pedagogica di Ada si esprime in modo compiuto e a tutto tondo, in questa fase della sua vita. Coerentemente, nel suo pensiero, l’impegno civile, gli insegnamenti della Resistenza, i più alti valori della democrazia, il rigore del saper vivere non sono concetti astratti rispetto alla crescita di un figlio, perché, osserva, il bambino di oggi è l’uomo di domani e dunque nell’educazione quotidiana devono trovare uno spazio adeguato e costante. Per questo gli interlocutori di Ada sono principalmente i genitori, cioè i primi artefici della costruzione del cittadino. In Non lasciamoli soli. Consigli ai genitori per l’educazione dei figli (1958), si sofferma con lungimiranza anche su quelli che oggi definiamo «stereotipi di genere», contestando capacità e interessi attribuibili in base al sesso e ad attitudini «tipicamente» maschili o femminili. Tratta dunque con intelligenza argomenti che nel mondo odierno sembrano scontati (purtroppo non a tutti):
Questa netta distinzione di compiti nasce da una visione della vita che vorrebbe costringere la donna nell’ambito delle pareti e delle faccende domestiche riservando all’uomo l’iniziativa e l’attività in ogni altro campo […] L’emancipazione comincia proprio da qui; nel non alimentare e incoraggiare la boria nei ragazzi e il senso di dipendenza nelle bambine e nell’abituare invece gli uni e le altre a comportarsi su una base di collaborazione e d’uguaglianza.
Alla fine degli anni Cinquanta i tempi sono maturi per la realizzazione di un giornale che condensi tutto questo. D’altro canto lo spazio per la redazione c’è, ed è la casa di Reaglie, una redazione «naturale», dove quel che occorre sul piano degli strumenti intellettuali è ampiamente a disposizione. Fa presto a dotarla di quelli tecnici. La nuora Carla, forte di anni di esperienza all’«Unità» in segreteria di redazione e agli spettacoli, disegna la testata: il «Giornale dei Genitori» parte il 1o maggio 1959 con una tiratura di 10 mila copie. Dalle riflessioni sul rapporto madre-figlio alla ricchezza di una famiglia aperta, dall’importanza di una corretta educazione sessuale al tema della merce e dei ragazzi trattati come una massa di consumatori (siamo in pieno boom economico, nei nascenti anni Sessanta), fino all’esplosione delle proteste studentesche, senza snobbare gli argomenti concreti (le vacanze, lo sport, l’abbigliamento): i contenuti del suo giornale nascono dalle urgenze della vita e vogliono essere un contributo ad affrontarle.
Quella giornalistica a Reaglie è un’esperienza di vita tout court perché, come ricorda Fofi, allora giovane redattore, Ada è un gradevole generale: si lavora dalle 9 alle 11 del mattino, si fa una breve pausa caffè, si riprende fino all’ora di pranzo; si mangia tutti insieme, intorno a un grande tavolo, con l’ospite del giorno; nel pomeriggio il ritmo è analogo con un’interruzione un po’ più lunga, poi si continua fino alle otto, e la sera… chiacchiere! Tutti i giorni, con metodo. Ma la caratteristica in qualche modo
eccezionale rispetto all’ambiente oppressivo di Torino, una città dove le classi non s’incontrano, gli operai stanno con gli operai, gli immigrati con gli immigrati, è l’interclassismo di Reaglie: lì c’era un gran via vai di tutti, dalla maestrina di provincia alla moglie del sindaco di un paesino meridionale ecc. E lei è lì, si fa raccontare, prende gli indirizzi, dà suggerimenti, fornisce contatti. Ada in questo è straordinaria, ha una grande capacità di creare reti e far entrare le persone in un circuito virtuoso.
Quando può, il direttore si stacca dal suo giornale e partecipa ancora in prima persona a iniziative politico-sociali che ritiene significative, come la prima marcia della pace ad Assisi, nel 1961, dove davanti a una folla immensa spiega che la pace bisogna conquistarla e per farlo bisogna conoscere le condizioni necessarie alla sua esistenza e le ragioni che conducono invece alla guerra. Né, avverte, ci si deve limitare a denunciare la guerra nelle forme più cruente e violente, ma in tutte le declinazioni e aspetti, anche quelli meno appariscenti che spesso sono la precondizione dell’esplosione dei conflitti: l’ingiustizia sociale, lo sfruttamento, la miseria, l’ignoranza, il pregiudizio, il colonialismo, il nazionalismo, il fascismo inteso nel significato più ampio del termine.
Dalla parte degli studenti
Ada è anche molto sensibile e attenta ai messaggi che arrivano proprio dai ragazzi. Per questo firma un articolo, il 1o gennaio 1968, che suscita scalpore fin dal titolo, Gli studenti hanno ragione, a proposito delle occupazioni universitarie e delle manifestazioni di protesta, nelle quali vede una continuazione della lotta resistenziale:
Ricordo che ventitré anni fa, all’incirca in questi giorni, quando, nell’imminenza della fine della guerra, si cominciavano a far progetti per l’avvenire del nostro paese (e della nostra scuola), ebbi a dire che si sarebbe dovuto chiudere l’Università per vent’anni e ricostruirne una nuova nata dalle esigenze reali dei giovani cresciuti in un mondo nuovo quale quello che si sperava. […] Questa volontà dura e intransigente di rinnovamento totale, questa fiducia totale nell’azione per risolvere i problemi non è forse quella che ci ha animati nella nostra lunga battaglia di antifascisti e resistenti? Perché non dobbiamo riconoscere ai giovani di oggi il merito di riprendere – naturalmente in condizioni e con metodi assai diversi – la battaglia da noi lasciata incompiuta?
Nel febbraio 1961, con il figlio Paolo e la nuora Carla, con un comitato promotore in cui figurano amici di una vita e intellettuali come Norberto Bobbio, Giorgio Agosti, Franco Antonicelli, Alessandro Galante Garrone, Aldo Garosci, Franco Venturi e Alessandro Passerin d’Entrèves, aveva inaugurato nella casa di via Fabro il Centro studi Piero Gobetti, di cui sarà direttrice fino alla morte. Che la coglie per un’emorragia, nello sgomento di tutti, il 14 marzo 1968. Il «Giornale dei Genitori», poi affidato alla guida di Gianni Rodari, le dedica un numero monografico con il ricordo delle persone più care e di coloro che l’hanno conosciuta intimamente, l’hanno stimata, ne hanno apprezzato la semplice grandezza. Due anni prima un infarto l’aveva colpita e indebolita, e in quei giorni aveva scritto una sorta di testamento spirituale, con cui in qualche modo si era congedata:
Verrà al mio funerale gente per semplice convenienza, per curiosità o anche ozio o per necromania; ma verranno anche quelli che mi hanno voluto bene e a cui ho voluto bene. Ho voluto bene a molti, in modo più o meno intenso, ma posso dire con coscienza che non ho mai avvicinato un essere umano senza sentirmi in qualche modo legata da un senso di solidarietà. Il che non vuol dire che abbia voluto bene indiscriminatamente a tutti. Ho odiato certe persone per le idee che sostenevano o rappresentavano: ho odiato i fascisti e – pur umanamente comprendendo e compatendo gli individui – non ho esitato a lottare contro di essi. Per questo non sono pacifista. Odio tutte le forme di neutralità. Penso che si deve avere un’idea e per questa battersi, non impersonalmente, ma con tutta la passione più viva.