Altri mondi / Quando la Terra aveva due lune
Difficile mantenere uno slancio prometeico dopo aver letto Quando la Terra aveva due Lune di Erik Asphaug. Per quanto si possa coltivare, denunciare o magari giustificare la hybris di homo sapiens, l’avventura in questa “storia dimenticata del cielo notturno” eccede ogni possibile scala nella percezione del tempo e dello spazio. È tremenda e terribile, nel senso dell’epica e delle tragedie antiche.
Si pensi al Sole, una stella benigna, come la racconta Asphaug, che "durante i suoi primi milioni di anni" ebbe sporadici eccessi di iperattività e che poi, molto convenzionalmente, "ha continuato ad emettere la luce e il calore a un tasso relativamente costante per 4,5 miliardi di anni". Ma non sarà benigna per sempre. "Tra cinque, sette miliardi di anni" inizierà il Ragnarok, il caos finale. Il Sole diventerà una gigante rossa e nell’arco di qualche milione di anni si espanderà inghiottendo Mercurio, Venere e forse la Terra, quindi collassando e perdendo nello spazio metà della sua massa. A quel momento (!) la Nube di Oort festeggerà la sua personale liberazione e si ricongiungerà con le comete sorelle. E già, perché il sistema solare esterno, quello oltre l’orbita di Giove, è costituito da due popolazioni di piccoli corpi: quelli che erano lì fin dall’inizio e quelli che furono eiettati (al tempo degli “impatti giganti”, ci torniamo) quando Giove e Saturno, una volta costituitisi, cominciarono a sgomitare per la posizione.
La stima è che "al momento della formazione di quei pianeti si sia prodotta l’eiezione di mille miliardi di comete"… la Nube di Oort, appunto. "Cento miliardi circa di queste comete riuscirono a sfuggire all’attrazione del Sole. Tra miliardi di anni (5-7) quando perderà metà della sua massa, il Sole non avrà più presa sulla parte più esterna della Nube di Oort, e così migliaia di miliardi di altri oggetti si disperderanno nella galassia."
Non ci saremo. Sicuramente non saremo qui, ma non siamo gli unici sfortunati: ce n’è di illustri. Nel 1705 Edmond Halley pubblica alcuni calcoli che dimostrano come le grandi comete del 1531, del 1607 e del 1682 siano in realtà un’unica cometa che si ripresenta all’incirca ogni settantacinque anni. Applicando la legge di gravitazione di Newton, Halley calcolò che sarebbe dovuta tornare nel 1758. Newton muore nel 1727, Halley nel 1742. "Nel 1758, dopo un anno di suspense, la cometa si ripresentò il giorno di Natale."
Ma vogliamo provare a vedere come andrà a finire, invece? Basta attendere il gran finale di Betelgeuse, una stella molto più grande del Sole sulla quale sono puntati gli occhi di tutti gli astronomi, sulla spalla sinistra della costellazione di Orione. È distante seicento anni luce, che vorrebbe dire, in proporzione cosmologica, nelle nostre vicinanze anche se, fortunatamente, non proprio nei paraggi: ha dieci milioni di anni e la sua massa è "otto volte quella del Sole e brucia, a centinaia di milioni di gradi, idrogeno, elio, carbonio, azoto, ossigeno e silicio nel corso di processi di fusione interna spaventosamente violenti". E sembra pronta ad esplodere.
Quando lo farà, per un paio di settimane la sua luminosità sarà simile a quella della luna. Il raggio della sua “zona della morte” è compreso tra i venticinque e i cinquanta anni luce: noi siamo a seicento e quindi, come ricordavamo, siamo al sicuro. Ma che cosa accadrà lassù, sulla spalla di Orione? Il nucleo di Betelgeuse collasserà in circa un secondo fino a ridursi al raggio di una stella a neutroni, un oggetto talmente denso che "un cucchiaino della sua materia peserà un miliardo di tonnellate". Durante il collasso vomiterà 10 alla 57 neutrini. "Somiglierà all’esplosione di una bomba atomica, però migliaia di miliardi di volte più intensa". E se avremo la fortuna di vederla brillare per qualche giorno… sarà successo ai tempi di Shakespeare e Keplero: prima di Newton, prima di Halley. Vertiginoso. Ma non basta. Perché Betelgeuse è sì una stella massiccia, che impallidisce però al cospetto di una kilonova. Quando due stelle a neutroni si catturano fino a collidere precipitando a spirale, i due corpi sono così incredibilmente densi che per farci un’idea dobbiamo immaginare "la massa del Sole compressa nelle dimensioni di un asteroide di dieci chilometri". La loro fusione emette onde gravitazionali che increspano la struttura dello spazio e del tempo. Nel 2017 una di queste increspature è stata rilevata dalle antenne di LIGO e anche dal nostro VIRGO: 1,7 secondi dopo è stata registrata un’emissione di raggi gamma. Un tuono e un lampo.
Nel 1642 Sir Thomas Brown nella sua Religio medici, riusciva a scrivere: “Possiamo capire il tempo, giacché è solo cinque giorni più vecchio di noi”: quanto poteva essere confortante pensare una Terra giovane governata dalla volontà umana già pochi giorni dopo la sua origine? E quanto è invece minacciosa quest’immensità che eccede qualsiasi dimensione del capire? Mark Twain, da par suo, ci provò: “L’uomo esiste da 32000 anni. Il fatto che siano occorse centinaia di milioni di anni per preparare il mondo per lui è una prova del fatto che esso fu creato per l’uomo. Suppongo che sia così, non lo so di sicuro. Se la torre Eiffel rappresentasse l’attuale età del mondo, lo strato di vernice sulla punta del suo pinnacolo rappresenterebbe la durata dell’uomo, e tutti percepirebbero che quel sottile strato fu ciò per cui fu costruita la torre. Io credo che lo percepirebbero, ma non lo so di sicuro”.
Sublime aforisma ma, per tornare alla terribilità delle proporzioni: il significato dello strato di vernice di Twain si staglia sulla profondità di centinaia di milioni di anni, sicché ora sappiamo che furono migliaia di milioni. E se volgiamo lo sguardo al futuro? Fobos, il satellite di Marte, sta percorrendo una spirale verso l’interno e si prevede che, nell’arco di quaranta milioni di anni, impatterà sul suo pianeta. "C’è da chiedersi se avremo la fortuna di vederlo. Il collasso sarà un evento quanto mai spettacolare, che lascerà in cielo un piccolo Saturno". Non basta la prospettiva di quaranta milioni di anni? Una nana rossa ultrafredda ha una combustione lenta, come un letto di carbone di legna: basandosi sulla fisica nucleare, si prevede che brucerà per migliaia di miliardi di anni, un tempo cento volte più lungo dell’universo, che dal Big Bang sarebbe emerso solo 17 miliardi di anni fa.
E l’uomo vitruviano?
Libro tremendo quello di Erik Asphaug, non di agevolissima lettura, con passaggi che chiedono grande attenzione e competenze tutt’altro che elementari, ma terribilmente affascinante. Un libro che promette a un tempo molto meno e più di quello che restituisce. Promette di più, giacché ciò di cui ammicca nel titolo e che annuncia come un trailer nell’introduzione – “Ora immaginate due lune lassù in cielo distanziate come le vostre braccia aperte, orbitanti in mezzo a un anello di altri blocchi e corpi più piccoli. C’era una volta… eccole là” – in sostanza arriva solo a metà del penultimo capitolo, quando racconta l’ennesimo caso di serendipity. L’autore, insieme ad un collega di ricerca, Martin Jutzi, nel 2015 studiava le strane forme delle comete e gli effetti deformanti da collisione di corpi celesti. Di venerdì il dipartimento di Asphaug, all’ora di pranzo, organizza seminari e uno di quei venerdì il tema era “La forma della luna”. Una forma oblunga, fissata a circa 4,4 miliardi di anni fa. Che la faccia nascosta sia drammaticamente diversa da quella che osserviamo in cielo lo aveva rivelato, la prima volta, la sonda sovietica Luna 3 nel 1959 (esilarante, a suo modo, la storia di uno scatto con fotocamera sovietica ma con pellicola statunitense, rinvenuta in un pallone da ricognizione americano, usato per spiare i russi, abbattuto da un MiG in una gelida mattina siberiana). In luogo dei mari oscuri e degli archi tracciati dalle montagne, the dark side mostrava un gigantesco plateau esteso per migliaia di chilometri, simile ad uno scudo ammaccato, crateri su crateri su crateri: quasi un frattale. E un mistero. Nella faccia che guardiamo dalla Terra il raggruppamento dei mari, insieme allo spessore della crosta sul lato nascosto, fanno pensare alla storia relativamente recente della Terra, quando Pangea occupava un emisfero e Pantalassia l’altro.
Può essere che la convezione del mantello lunare abbia lacerato la faccia esposta? O è stata una pioggia di impatti, tali da rimuovere completamente un emisfero? O magari è stata un’altra luna, si chiede l’autore? Prima ancora che ce ne fosse una, o due, intorno alla Terra c’era un disco di materiale pari a circa due masse lunari: i resti dell’impatto gigante. In quel disco, probabilmente, c’era un’importante massa di ferro, un frammento del nucleo di Theia, il corpo celeste che al tempo degli “impatti giganti”, incontrò la Terra viaggiando ad una velocità lenta a sufficienza da evitare la collisione hit-and-run e così da essere catturata gravitazionalmente dalla Terra, frantumata dalla collisione e dalla gravità. Il suo corpo fatto a pezzi tornò dieci ore dopo per un secondo passaggio, questa volta più lento, che diede luogo all’accrezione. In qualche ora i nuclei dei due pianeti fusero rapidamente.
Quando la terra ha finito di formarsi, scrive Asphaug, la luna si sta rapidamente accrescendo dal disco proto lunare. Perché l’ipotesi delle due lune si possa basare su descrizioni ragionevoli, nelle simulazioni degli impatti al computer bisogna scegliere alcuni parametri. Lo fa Martin Jutzi aggiungendo nel programma, sotto trenta chilometri di crosta solida, uno strato fuso spesso dieci chilometri di kreep, l’oceano di magma residuo in profondità. La simulazione dell’impatto spreme il kreep, un po’ come quando si da un pugno a una torta di ciliegie spingendo il ripieno – l’interno – verso un emisfero. Questo kreep concentrato potrebbe spiegare perché le grandi inondazioni vulcaniche siano limitate alla faccia esposta della luna: in questo caso la faccia nascosta diviene geologicamente inerte, "come quando si getta una palata di terra fredda sulla brace di un falò". Crateri su crateri su crateri. Le immagini della simulazione fanno venire i brividi – come quella dell’impatto di Theia con la Terra – l’ipotesi è più che affascinante. Ma Asphaug è uno scienziato, e attende la possibilità di confutare i dati.
Tutto qui, anche se in realtà sulla teoria della compenetrazione delle due lune anticipa e ritorna varie volte. Ma, appunto, la promessa del titolo sembra solo parzialmente mantenuta. Perché Quando la Terra aveva due lune restituisce, dicevamo, molto altro. Perché questo "è un libro sulle origini della diversità planetaria", laddove "ogni pianeta e ogni satellite mai esistiti nel sistema solare furono consumati da qualcosa di più grosso, e questo fa tutta la differenza". È un libro sulla teoria degli impatti giganti in cui i pianeti si schiantano su altri pianeti, dove l’energia è stupefacente e la fisica coinvolta attende ancora di essere compresa. Ma è anche un libro sulla teoria più bizzarra del suo tempo, ipotizzata da George Darwin, il figlio di Charles, bizzarra ma in fondo… È un libro sulla ricerca degli esopianeti abitabili e su un ipotetico viaggio sponsorizzato su Titano, dove ci sono laghi paragonabili a quelli delle Highlands scozzesi.
È un libro su Europa, il satellite di Giove, dove sotto qualche chilometro di una criocrosta a 200 gradi sottozero, si trova invece un oceano d’acqua il cui volume è pari a quello di tutti i mari della Terra messi insieme. È un libro sul cataclisma di Venere, quello che forse, mezzo miliardo di anni fa, ha rovesciato l’intera superficie del pianeta e comunque, qualsiasi cosa sia avvenuta, a quanto pare Venere ha ricominciato daccapo la sua esistenza planetaria, cancellando al contempo tutta la sua storia precedente. È un libro sulla panspermia e su quando, quattro miliardi di anni fa, Marte e la Terra si prendevano a sassate trasportando estremofili da un pianeta all’altro. E può anche darsi che mentre sulla Terra c’era già vita aborigena, questa sia poi stata soverchiata dalla panspermia proveniente da Marte… in tal caso noi saremmo gli invasori marziani. Si fa fatica a selezionare solo alcune tra le tantissime immagini della “lost history” di questo fantastico cielo notturno. Sotto il quale, ammonisce Asphaug, non possiamo guardare alla luna prescindendo dalla pienezza di significato che ne accompagna l’osservazione prescientifica e il suo affiorare nello spirito e nell’anima di ciascuno di noi.
Mai dimenticando, aggiungeremmo al culmine di questa giostra vertiginosissima, che dentro la calotta cranica di quell’uomo vitruviano c’è, in fondo, l’unico pianeta che veramente abitiamo, decine di miliardi di neuroni connessi da una quantità incalcolabile di sinapsi. Spegnendosi le quali, magari cadendo in un sonno senza sogni, tutto svanisce.
L’universo che conosciamo essendo immagine e somiglianza del nostro cervello.