La caviglia del mondo che si chiama Calabria / L'antropologo dolente
Mauro Minervino ci racconta nei suoi libri la caviglia dolente del mondo che si chiama Calabria.
I suoi libri non sono saggi e non sono racconti. Sono l’elettrocardiogramma dei suoi viaggi. La sua è una terra anginosa, ferina. I suoi non sono luoghi per spiriti tiepidi. Il paesaggio è una furia di bellezza, ma in Calabria la bellezza ha fieri nemici più che altrove. Difficile trovare nei luoghi abitati un metro quadro che non risenta di un lieve oltraggio. Qui le betoniere arrivano ovunque. Allora è importante leggere Minervino perché ci fa vedere l’Italia nella sua parte teminale. La penisola finisce a Reggio Calabria, dopo comincia la Sicilia ed è come se cominciasse un’altra cosa.
I libri di Minervino sono scritti in macchina, il paesaggio entra direttamente nel finestrino. In questo ultimo libro si avverte come un senso di dolore più acuto, un senso di solitudine. E questo dà belle impennate a tante pagine del libro. In effetti ci sarebbe da dire: non può essere che un regione italiana sia messa in queste condizioni. E invece il lamento di Minervino non produce molta eco. Sembra inascoltato già dove avviene. Si sente che il viaggiatore ha pochi approdi, è come un animale braccato che non ha alcuna tana in cui proteggersi. E per questo io credo che il libro di Minervino sia bello. È un libro spaesato e senza pellicola, senza quella patina a cui ci hanno abituato gli autori più celebrati. Leggi e sei nella ferita, non nella sua rappresentazione. Ed un continuo salire e scendere: il mare è subito profondo e la montagna vicina al mare è subito altissima. Minevervino non ha la pazienza di sistemare, di elaborare un ragionamento sistematico. Procede a strappi. Il cuore della faccenda è nel vedere, un vedere che non è mai pacifico, gli occhi e il cuore stanno nello stesso luogo, è un vedere emozionato.
Minervino su questa strada potrà darci sicuramente altri libri belli, ma già mentre scrive ti fa sentire che le sue parole non saranno accolte. L’Italia non riesce a guardare la Calabria, tutto si risolve in una sentenza frettolosa e senza appello. Il compito dello scrittore è trovare le prove di un’innocenza non riconosciuta, di una colpa non riconosciuta. Lo scrittore è l’ultimo e più affidabile grado di giudizio. Basterebbe leggere la pagina in cui Minervino racconta l’incontro con Danilo Dolci per sentire in che miserabile bancarotta culturale siamo finiti. Ma Minervino non si arrende, continua a oltrepassare la letteratura e l’antropologia per cercare un punto di vista più alto, meno ovvio, meno sicuro. E scrive e guida, frena, accellera, la pagina è il suo abitacolo e noi sentiamo i fossi, i tornanti, sentiamo improvviso il profumo delle ginestre, la luce lontana in mezzo al mare.
“La Calabria che conosco io oggi è un groviglio di strade senza una via d’uscita. Un posto per me e contro di me.” In questo stradario di uno spaesato si coglie l’intimità e la distanza con la sua terra, la mancanza di compromessi già nello sguardo: è un continuo subbuglio di stupore e insofferenza. Manca una classe dirigente che possa fare una sintesi. Manca una classe intellettuale che ci possa offrire amicizia, che sappia costruire comunità. La bellezza di questo libro sta nel fatto che lo sguardo non è tutto sulla Calabria, c’è il corpo di chi scrive, c’è un continuo alternarsi del dentro e del fuori. È lo scrittore a muoversi, agitato in una terra agitata. Il lettore può sistemarsi tranquillamente sul sedile posteriore, come se questo libro fosse un taxi. Noi guardiamo il paesaggio e chi ci guida nel paesaggio. Il prezzo della corsa non la paga chi legge ma chi scrive.