Interviste a Marta Giaccone, Michele Nastasi e Valerio Polici / Tre autori italiani a Fotografia Euopea 2019

16 Maggio 2019

Laura Gasparini in occasione di Fotografia Europea 2019 a Reggio Emilia dal tema LEGAMI. Intimità, relazioni, nuovi mondi ha intervistato Marta Giaccone che espone nella mostra Giovane fotografia italiana #07; Michele Nastasi che espone Arabian Transfer e Valerio Polici autore della mostra Ergo sum.

 

1. MARTA GIACCONE

 

Laura Gasparini: I tuoi studi letterari ti hanno portato a una lettura documentale della realtà che hai affidato alla fotografia. Qual è stato il tuo percorso?

Marta Giaccone: Ho studiato lingue e letterature straniere a Milano, poi ho fatto un Master in fotografia alla University of South Wales a Newport, in Galles. Evidentemente gli studi letterari mi hanno sollecitato, dopo aver letto alcuni libri, ad adottare un metodo visuale che dalla parola mi porta all’immagine.

 

Marta Giaccone, Ritorno all'isola di Arturo.


LG: Quali libri, in particolare?

MG: Qualsiasi libro leggo – se mi piace! – tengo a tradurlo immediatamente in progetto fotografico nella mia testa, non posso farci nulla… ovviamente poi non sempre (quasi mai) si realizza, ma in generale il mio lavoro prende largo spunto dalla lettura. Questo è di certo in gran parte grazie alla biblioteca di casa che è ricchissima e che mi ha posto nella direzione della letteratura come fonte non solo di arricchimento, ma anche d’ispirazione. Il primo libro che mi ha spinto a realizzare un progetto è stato L’isola di Arturo di Elsa Morante (1957), nel 2015. Il tema dell’adolescenza è una dimensione molto interessante, quel momento della vita di transito, pieno di entusiasmi, di germinazioni; è per me di grande stimolo. Ho trascorso un’adolescenza in una grande città, anni tranquilli, normali, quasi banali, non ero ribelle. Forse è per questo che mi interessa osservare da vicino adolescenze “alternative” alla mia. Ci ho lavorato per la prima volta a partire dal 2014 quando vivevo in Galles e mi sono concentrata su un gruppo di mamme adolescenti, che seguo tutt’ora. Quando ho letto L’isola di Arturo ho intravisto un’altra interessante possibilità di (ri)scoprire il mondo adolescenziale, e sono rimasta colpita dalla storia che si svolge in un microcosmo del tutto particolare: l’isola di Procida. Elsa Morante, nelle parole di Arturo, descrive l’isola come un luogo magico e ho subito sentito la necessità di visitarla. Nel romanzo non ci viene indicato un esatto periodo storico, anche se si intuisce che la storia si svolge alla fine degli anni Trenta, e mi è piaciuto molto quest’aspetto atemporale. Nel 1962 il regista Damiano Damiani realizzò un film basato sul romanzo, che vidi appena prima di leggere il libro, e che mi suggerì una prima sceneggiatura per il mio lavoro: desideravo seguire un ragazzo dai capelli scuri, scoprire il suo mondo, raccontare la sua vita attraverso fotografie in bianco e nero. Ma erano solo idee, ipotesi di lavoro. Il giorno dopo aver terminato la lettura del libro sono andata a Procida, senza conoscere nessuno sull’isola, e nella luce dorata di fine settembre, sulla spiaggia della Chiaiolella, ho incontrato una ragazza di 13 anni, il mio primo preziosissimo contatto con Procida. Le ho chiesto di farmi conoscere i suoi amici e i loro luoghi: mi ha presentato tutti.

 

Marta Giaccone, Ritorno all'isola di Arturo.


LG: Cosa è nato?

MG: È nata un’amicizia e una collaborazione che mi ha visto a Procida tantissime volte dal 2015 ad oggi. Sto creando, credo, spero, un lavoro parzialmente atemporale, certamente non un reportage, composto di fotografie quasi mai costruite, scattate nei momenti dopo la scuola, nei luoghi di ritrovo dei ragazzi. Sono fotografie realizzate in un’atmosfera di amicizia e di gioco. Ora, parte di queste sono esposte in mostra.

 

LG: Com’è crescere a Procida?

MG: È molto diverso da una metropoli, ma molto simile alle piccole cittadine sul mare, immagino. La differenza è che, per spostarsi, qui serve la nave o l’aliscafo. Una ragazza mi ha detto pochi giorni fa: “per me sarebbe stranissimo prendere la metropolitana… invece la nave per noi è normale, la prendiamo anche tutti i giorni se serve!”. Ho osservato come, a Procida, i bambini sin da piccolissimi vanno in giro da soli tranquillamente, è una comunità molto piccola (11.000 abitanti su 4km2) in cui tutti si conoscono e si prendono cura l’uno degli altri. Quando i ragazzi crescono, però, forse questa dimensione inizia a diventare stretta, e allora in molti, tradizionalmente i maschi e ora anche alcune femmine, si iscrivono all’Istituto Nautico per poi diventare macchinisti o capitani di navi. Altri invece si spostano sulla terraferma per studiare, e in molti poi ritornano sull’isola per iniziare una famiglia. Altri rimangono. Nelle grandi città la dinamica è opposta: da piccoli viviamo protetti ma poi siamo soggetti a più stimoli e occasioni di apertura al mondo più facilmente.

 

Marta Giaccone, Ritorno all'isola di Arturo.


LG: Ho letto una cosa interessante nella tua biografia e cioè che sei molto interessata allo sguardo, alla prospettiva femminile.

MG: L’essere donna mi ha indubbiamente aiutato a entrare nelle relazioni delicate tra giovani madri e figli nel mio lavoro gallese. Mi interessa fotografare le madri senza i padri dei bambini perché, in quel contesto, spesso i padri non sono presenti, mentre le madri restano, sempre. Credo che anche per il lavoro di Procida il fatto di essere donna mi abbia aiutato a farmi accogliere dalle famiglie dei ragazzi.

 

LG: Hai svolto lavori di documentazione anche con il linguaggio cinematografico, in quale direzione hai svolto le tue ricerche?

MG: In Galles ho realizzato dei video insieme alle giovani mamme; ne facciamo di nuovi ogni volta che torno. A Procida ho integrato brevi video in cui ho fatto leggere ai ragazzi alcuni paragrafi di L’isola di Arturo per dare voce alle immagini e per far sentire il loro particolare e bellissimo accento. In particolare ho scelto dei brani in cui viene descritta l’isola di Procida e il rapporto tra Arturo e il padre, e i ragazzi hanno scelto i pezzi che più sentivano vicini. Inoltre ho anche fatto fare loro delle polaroid raffiguranti i loro luoghi preferiti dell’isola.

 

 

2. MICHELE NASTASI

 

Laura Gasparini: Michele Nastasi, curatore [Luigi Ghirri. Il paesaggio dell'architettura. Triennale di Milano, 2018], saggista, fotografo, redattore, docente universitario, storico dell’arte. Come ti sei avvicinato alla fotografia tanto da farne una professione?

Michele Nastasi: Fotografo da quando ero ragazzo perché, a livello amatoriale, era una pratica diffusa nella mia famiglia. All'università ho iniziato a fotografare, più seriamente, persone e spazi... Mi sono laureato in Industrial Design, ma per un lungo periodo non ero contento dei miei studi perché li sentivo allo stesso tempo astratti dal mondo reale e troppo orientati al marketing, per cui ho unito il mio interesse per la fotografia al desiderio di fare qualcosa di concreto cominciando a lavorare come assistente di fotografi professionisti a Milano. Da lì è nata la mia doppia anima che progressivamente si è sviluppata, come fotografo e come ricercatore in senso più ampio. Innanzitutto come redattore di Lotus International, rivista di architettura in cui lavoro da quando ero ancora studente, e poi con un dottorato in storia dell’arte. Anche come fotografo ho sviluppato un profilo di ricerca, perché mi sono sì specializzato nella fotografia di architettura lavorando per le riviste e per gli architetti, ma allo stesso tempo ho sviluppato una serie di ricerche autonome legate a questo ambito, che sono variamente intrecciate al lavoro commissionato. La fotografia, di fatto, per me è un mezzo per entrare in relazione e comprendere la realtà, o almeno una sua parte che si rende accessibile attraverso la visione. In questo l'architettura offre un canale più diretto di altri.

 

Al Satwa, Dubai, Dubai, UAE, 2015 ∏ Michele Nastasi.


LG: Di recente hai pubblicato un saggio sulla penisola araba ["A Gulf of Images. Photography and the Circulation of Spectacular Architecture". In The New Arab Urban. Gulf Cities of Wealth, Ambition, and Distress. A cura di Harvey Molotch e Davide Ponzini. New York University Press, New York 2019] dove hai spiegato in modo serrato, attraverso testo e immagini, il significato del tuo lavoro. Potresti parlare di questa tua metodologia di analisi e di restituzione?

MN: Ho riflettuto su come alcune città del mondo arabo, Dubai, Abu Dhabi e altre, negli ultimi decenni sono stati dei laboratori di architetture spettacolari e, più in generale, di un certo immaginario urbano contemporaneo che si esprime attraverso immagini fotografiche sensazionali. Mentre tutti i luoghi hanno una loro complessità, una loro storia – e nel caso di luoghi “nuovi” come queste città può essere difficile da decifrare – la rappresentazione dell'architettura attraverso fotografie e rendering tende a eliminare tutto quello che turberebbe una restituzione astratta degli edifici nel paesaggio. Nel mio saggio ho tentato di spiegare cosa succede quando, grazie alla fotografia, metti a confronto progetti formalmente simili in luoghi diversi, evidenziandone la diversità non tanto sul piano architettonico, ma nel rapporto tra i nuovi edifici e il contesto e la vita della città in cui si trovano. Come fotografo, quando mi reco in quei luoghi, cerco di capirli e di decifrarli per come mi appaiono, e uno degli sforzi è proprio di non seguire i percorsi visivi di chi mi ha preceduto. Le fotografie di queste città, Dubai in particolare, sono ben note a livello professionale, dove protagonista è sempre l'architettura: il singolo edificio senza contesto, il luccicare astratto dello skyline, la strada non si vede mai, i gesti stereotipati delle persone. Altri tipi di fotografie, che afferiscono alla sfera e al mercato dell’arte, insistono sistematicamente sull'idea del sublime, dato dall’enormità delle architetture, dalle loro forme stravaganti, al contrasto tra quelle architetture e il deserto. Tutti temi ormai classici che raccontano solo una parte di quei luoghi. Nelle città, infatti, c’è una vita minuta che si svolge e, al di là di queste grandi visioni, esiste una quotidianità grazie a cui è possibile tentare di capire alcuni fenomeni, come si stanno sviluppando, perché in quelle città accadono certe cose e non altre, e anche stabilire un rapporto con le città occidentali. La possibilità che ho avuto di sviluppare questo lavoro, ma anche il mio metodo di lavoro, è scaturita dal continuo scambio con altre discipline – per esempio l'urbanistica e la sociologia. Per me la ricerca deve avvalersi di una molteplicità di strumenti e non solamente di un linguaggio fotografico che si esaurisca nella bellezza o compiutezza dell’immagine. Credo che costruire immagini forti, iconiche e coinvolgenti dal punto di vista emotivo, sia importante perché le rende più immediate, ma anche più persistenti, contribuendo a comunicare a più persone i messaggi che desidero esprimere, ma in realtà non è questo l'obiettivo del mio lavoro. Si tratta piuttosto di costruire un gruppo di fotografie, una serie di immagini, una sequenza in grado di attirare persone diverse coinvolgendole nel dialogo e dibattito. Ho iniziato a lavorare nella penisola araba nel 2010 proprio perché insieme a Davide Ponzini, che è un urbanista, avevo cominciato una ricerca su come e perché l'architettura spettacolare è utilizzata in diverse città del mondo, tra cui Abu Dhabi [pubblicata nel volume Davide Ponzini, Michele Nastasi. Starchitecture: Scenes, Actors, and Spectacles in Contemporary Cities. The Monacelli Press, New York 2016 – seconda edizione]. Lavorando sul campo ho cominciato a chiedermi più consapevolmente cosa volessi rappresentare e perché, e lo scambio con altri ricercatori, per esempio il sociologo Harvey Molotch, mi ha aiutato a considerare aspetti del mio stesso lavoro a cui non avevo dato la giusta importanza. Anche lo scambio con te, Laura, è stato importante per orientare un diverso editing del lavoro, che è poi confluito in questa mostra. In questo senso di scambio, anche con persone che hanno un approccio molto semplice e diretto, la fotografia diventa uno strumento importante per interpretare la realtà, e acquisisce via via una maggiore profondità di significati.

 

Doha, 2017, Skyline View Point, photograph by Michele-Nastasi.


LG: Ha importanza, ad esempio, la figura umana che appare, nelle tue fotografie, non solamente come misura spaziale di queste architetture e di questi paesaggi ma è… qualcosa di più.

MN: La figura umana per me rappresenta un incontro e dunque significa molto all'interno di un paesaggio.

 

LG: Io la vedo come una testimonianza della condizione umana di quel luogo, non solo un elemento per la composizione.

MN: Certamente, la figura umana, così come la messa in posa, il ritratto, non è un tema che cerco a tutti i costi, ma è fondamentale per la restituzione dell’architettura e dei luoghi, perché mi aiuta a rendere nelle fotografie la loro particolare intensità. Il che non vuol dire fare solo ritratti, ma piuttosto di essere in grado di fotografare una situazione più o meno come si presenta nella realtà, con le persone e tutto il resto. È come una fotografia turistica, che sembra spontanea ma che in realtà è molto artefatta. Nel momento in cui tiri fuori la macchina fotografica professionale, tutto intorno a te cambia... come il principio di indeterminazione: nell'osservare c’è già qualcosa che sta cambiando. A seconda del tuo comportamento e dell’attrezzatura che utilizzi, influenzi le persone sulla scena che, banalmente, a volte si allontanano da te. Per me è importante stare all'interno della scena e trovare un equilibrio tra la mia presenza e il modo in cui potrebbe essere se io non ci fossi. Questa intensità dei luoghi è un aspetto che a me interessa molto perché desidero trasmettere un senso di vicinanza al soggetto, al tema che esprimo. Non è un caso che spesso chi osserva le mie fotografie mi dice che gli “sembra di essere lì”, perché riconosce un proprio punto di vista, personale, individuale, nel mio. È per me un profondo senso di presenza. Se nelle mie fotografie ci sono delle persone, inoltre, è importante perché documentano la quotidianità di quei luoghi, che è raramente rappresentata e che ha infinite forme. 

 

Michele Nastasi, Plant Souk Riyadh, Arabia Saudita, 2017.


LG: In Arabian transfer, hai lavorato molto sul tuo archivio e hai riscoperto nelle immagini che non hai mai esposto prima, parte di quel laboratorio vivente dove l’oriente e l’occidente si sono incontrati, mescolati e insieme hanno costruito un mondo, se non nuovo, diverso, in luoghi in cui il deserto era apparentemente inviolabile, ma che poi queste architetture hanno violato. Ora, quel deserto, si sta riprendendo lembi di quella città. 

MN: Questi due temi ci sono... lavorare in queste città ti induce a una riscoperta della natura nella città, una natura estrema fatta di deserto con temperature proibitive, e che in effetti tende a riprendersi gli spazi non appena non c’è più attenzione. C'è poi un tema geopolitico delle migrazioni, che è molto ampio: sono città e spazi abitati da diverse popolazioni, persone venute da lontano per lavorare o per sfuggire alle guerre o alla miseria, costituendo così un melting pot di culture diverse, anche molto antiche. Nell’immaginario europeo ci sono già state, in effetti, situazioni analoghe: Londra, Parigi, New York, Amsterdam, ecc. sono città dove questi fenomeni si sono già presentati nel passato, sia per la storia coloniale che per le migrazioni. Quello che è interessante nella penisola araba è che quella terra largamente inospitale, che non ha alle spalle la storia dell’Occidente e dell’Europa in particolare, sta vivendo un fenomeno simile in un mondo ampiamente globalizzato, quindi in un modo del tutto inedito, al punto che l'immigrazione arriva a toccare, in una città come Dubai, il 90%. Sono luoghi di approdo, di partenze e ripartenze... Ormai queste città hanno assunto un nuovo tipo di centralità a livello globale, e in molti paesi, soprattutto asiatici, le città di riferimento non sono Parigi, Roma o Londra, ma Dubai, Doha e Riyadh. Questo è molto interessante perché, se sei disposto a farlo, ti costringe a riconsiderare molti aspetti della cultura Occidentale e delle nostre abitudini, convenzioni sociali legate alla nostra etica, che noi europei tendiamo a dare per scontato. In fondo viaggiare non è sempre stato una fonte di riflessioni di questo tipo? Basti pensare a Montaigne.

 

LG: La fotografia come scrittura.

MN: Nella mia pratica la fotografia e la scrittura sono due cose diverse, ma certamente la fotografia ti costringe a essere là, a stare nei luoghi, e la mia è certamente una fotografia in cui c'è un aspetto narrativo, un'esperienza che si costituisce come narrazione sia all'interno di singole immagini che attraverso le sequenze e i gruppi di fotografie. È un aspetto che cerco di affrontare con grande attenzione e responsabilità rispetto a ciò che voglio comunicare, perché i messaggi della fotografia possono essere davvero molto diversi.

 

 

3. VALERIO POLICI

 

LG: Valerio Polici è nato artisticamente negli anni Novanta come graffiti writer, la pratica illegale di dipingere a spray il proprio nome sui treni. A margine dell’esperienza da writer ha avuto il suo primo incontro con la macchina fotografica.

Ergo sum è il risultato di questo incontro, una prima indagine del medium combinata con la ricerca intima di una consapevolezza artistica nuova.

VPErgo Sum cerca di raccontare e di tradurre in fotografia l’immaginario della mia post adolescenza. Io nasco come writer ed ho dipinto treni per circa 10 anni; anni intensissimi, di lunghi viaggi alla ricerca di una forma di libertà. Ad un certo punto però, qualcosa si è rotto: claustrofobia e mancanza di respiro hanno preso il sopravvento, la libertà si era trasformata in una prigionia fatta di stessi gesti, luoghi, rituali. Quasi per caso, senza consapevolezza tecnica del mezzo o del linguaggio della fotografia ho iniziato un nuovo percorso.

 

LG: Quindi la fotografia ti ha permesso di prendere distanza dalla tua ricerca di writer

VP: Sì, in effetti è stato così: mi ha permesso di fare un passo indietro e, attraverso un linguaggio nuovo, comprendere cosa stessi facendo davvero.

 

LG: Sicuramente la fotografia in bianco e nero, quella che tu utilizzi in particolare in Ergo sum, concettualizza molto la realtà aggiungendo altre distanze.

VP: Assolutamente sì. Astraendo, riduce ancora di più la linea spazio temporale e trasforma questi sei anni di viaggio tra Europa ed Argentina, in un unico grande istante. 

Ergo sum è il mio primo lavoro fotografico; un lavoro che solo su un primo livello racconta una comunità, ma è soprattutto un’indagine interiore. Anche per questo motivo, ho prediletto per la selezione finale, immagini più aperte e metaforiche. Allontanate da un contesto specifico, amplificano il loro potere aprendo la strada ad un carattere più ambiguo. L’ambiguità mi interessa molto, permette in quella sua incollocabilità di instaurare un rapporto più libero tra fruitore e prodotto finale. Ho accettato di esporre allo spazio C21, uno spazio privato, perché utilizza una formula inedita per supportare con continuità l’etica e l’estetica del mondo del writing e dell’arte urbana nel quale io sono vissuto. Lo ringrazio molto per questa preziosa occasione così come Pietro Rivasi che attraverso il suo prezioso testo offre un punto di vista del tutto inedito e fa chiarezza in questo fenomeno molto complesso.

 

Ph Valerio Polici.


LG: Ma come è stato possibile passare dalla dimensione del graffito, dei treni, delle tag... alla distillazione alchemica dell’immagine fotografica che qui in mostra presenti come una grande installazione e che suggerisce un possibile andamento in espansione infinita… L’impressione è che le tue fotografie desiderino riprendersi quei vasti spazi del writing

VP: La transizione, tra questi due mondi è stato un processo abbastanza inconsapevole e naturale. In principio, la fotografia e il video mi sembravano solo linguaggi interessanti. Rispondevano ad una mia ulteriore urgenza espressiva. Inoltre la fotografia, come il graffito, riguarda un’organizzazione degli spazi, e può essere un gesto molto violento. 

 

LG: …quindi era l’esperienza dell’arte ad interessarti…

VP: Quello che mi interessava era indagare una condizione di prigionia esistenziale, un bisogno di fuga, una necessità di perdizione, un’urgenza di sentirsi speciali. 

Te lo dico perché io appartengo alla generazione nata negli anni ottanta; una generazione cresciuta nel benessere, che ha visto lentamente sgretolarsi tutte le promesse fatte. Il mondo dei graffiti da questo punto di vista ti offre un riscatto, la possibilità di ricreare una nuova identità nelle viscere delle metropoli, fuori dai tracciati pre impostati. I sotterranei sono spazi magici, terre di nessuno nelle quali ci si muove con incertezza e spavalderia, scenari di gesta eroiche e storie folli spesso al limite del reale, più vicine a quelle di un commando militare altamente organizzato che di un gruppo di giovani amici: incursioni, scalate, una via d'entrata una via d'uscita, odori insopportabili, sporcizia ovunque, corse infinite, è come un videogioco, ma terribilmente reale.

 

LG: Nella tua biografia hai fatto riferimento a Rafal Milach, fotografo documentarista polacco. Come mai vi siete incontrati? Quali sono i punti di vicinanza o di lontananza che vi accomunano?

VP: Ho voluto incontrare Rafal quando ho deciso di far diventare Ergo Sum un libro, perché mi piaceva la sua sperimentazione linguistica. Con lui abbiamo ragionato sull’editing, con sua moglie Ania, che si occupa di book-design, sulla forma. È stata un’esperienza interessantissima e il risultato molto soddisfacente. In un secondo momento, durante una mostra che avevo in Germania, mi è stata proposta la pubblicazione da una casa editrice tedesca (Dienacht publishing) ed abbiamo presentato il lavoro al Paris Photo nel 2016. 

La scelta di fare un libro è nata da un bisogno di dare una forma più definita ad un pensiero. Questo progetto ha incontrato una buona accoglienza editoriale (Washington Post, Newsweek, L’Espresso tra i vari), ma mi rendevo conto che ad ogni pubblicazione, il photoeditor della rivista in questione, metteva in campo la sua storia, che non era mai veramente la mia. 

Per il resto, direi che il forte amore per Lynch è la cosa che più ci avvicina, la nostra ricerca invece è molto diversa: lui è un grande documentarista, sperimentatore e riflessivo, io sono istintivo, ossessivo, il mio sguardo si rivolge sempre all’interno, Mi interessa il senso d’oppressione costante che mi accompagna e gli strappi che provo a dargli.

 

Ph Valerio Polici.


LG: E con Antonio Biasiucci?

VP: Antonio l’ho conosciuto dopo aver chiuso Ergo Sum. Era un periodo di grande confusione per me. Avevo appena terminato il mio primo progetto, ne ero felice ma mi chiedevo chi fossi io come autore, quale fosse il punctum della mia ricerca. Sono stato selezionato per la seconda edizione del suo Laboratorio Irregolare, ed è iniziata un’altra grande avventura. Antonio, oltre ad essere un grande artista, sa essere un grande maestro. Per due anni e mezzo ho frequentato il suo studio 

sbattendo la testa al muro come poche altre volte in vita. Il suo è un laboratorio speciale perché ti mette di fronte a te stesso, senza inganni e in silenzio. La mia è anche una generazione manchevole di maestri purtroppo, la fortuna di averne avuto uno, per giunta di questo calibro, è un enorme dono e un enorme responsabilità. 

Con fare discreto, ci ha aiutato a fare pulizia, nel cuore e negli occhi. Solo così puoi arrivare al centro delle questioni. L’onestà prima di tutto, poi il resto. Era vietato parlare di altri fotografi, si parlava solo di rigore e di disciplina. Il suo maestro era Antonio Neiwiller, grande regista teatrale napoletano scomparso prematuramente, che a sua volta ha trasmesso a Biasiucci questo metodo di indagine interiore. Metodo che essenzialmente si fonda sulla ripetizione ossessiva di un gesto o di una parola in un lasso di tempo notevole. Questa ripetizione comporta una scarnificazione del soggetto in esame, e attraverso un senso rinnovato si giunge all’essenza. 

Terminato il laboratorio, siamo tutti entrati in un’altra profonda crisi, il peso che la sua presenza ha avuto in ognuno di noi ha lasciato anche un grande vuoto. Ma le crisi sono necessarie. Oggi, a due anni dalla fine di questo percorso, posso dire di aver digerito a pieno ed aver trovato esattamente la mia misura. La gratitudine che provo, non sarà mai abbastanza. 

 

LG: Oltre le modalità di installazione che hai elaborato mi interessa approfondire anche l’utilizzo della tecnica al platino palladio. Perché questo ritorno a una manualità colta e raffinata di fare la fotografia?

VP: L’installazione della mostra è stata ideata in collaborazione con una meravigliosa curatrice napoletana, Chiara Pirozzi, nell’intento di regalare ai visitatori un’ esperienza strutturata su diversi linguaggi.

La prima sala che accoglie il visitatore, è un ambiente asettico e privo di riferimenti, per aiutare una prima sensazione di smarrimento. Varcata la soglia d’entrata, un’installazione musicale che riproduce i suoni dei sotterranei avvolge e catapulta direttamente in un’altra dimensione, suggerendo un sentimento ansiogeno e claustrofobico. La sola fonte luminosa è un box al centro dello spazio che spinge ad avvicinarcisi perché l’unico in grado di svelarci qualcosa. Quasi come un monolite proveniente da un’altra dimensione, imprigiona sei schermi che riproducono in loop le esplorazioni nei sotterranei. Senza mai giungere ad un punto definito, mostrano un peregrinare inquieto e senza meta.  

Nella stanza a fianco, un polittico di 26 foto, un’opera unica che si sviluppa nella congiunzione di due piani e si estende in più direzioni. 

Provando a dare forma a quella duplice forza di attrazione e repulsione, prigionia e libertà che sta alla base del mio discorso. Una scala vortice al centro, risucchia come un buco nero tutto quello che le sta attorno. Man mano che si arriva alle estremità, la forza diventa centrifuga, la materia si dirada e si perde come in una deflagrazione. 

Le quattro fotografie esposte all’esterno, che rimarranno per tutta la durata del festival, sono la sintesi di tutto questo, lasciando maggior spazio all’immaginazione. 

La stampa utilizzata per queste ultime, è quella del platino palladio, realizzata da uno straordinario artigiano di Milano, Giancarlo Vaiarelli; l’unico maestro stampatore in Italia, in grado di farle. È una tecnica antica molto complessa, che permette di ottenere il livello qualitativo più alto possibile per la stampa in bianco e nero. Ognuna è una copia unica perché il composto chimico è steso con delle pennellate fatte a mano. Mi piaceva l’idea di questa dicotomia, tra una tecnica così raffinata e un soggetto così violento e sporco. 

 

LG: Quindi hai recuperato il gesto del dipingere, oltre che dello scrivere. Hai recuperato una grande fisicità.

VP: Si, questa tecnica ha permesso di recuperare anche quel gesto deciso, rabbioso, dell’azione con la bomboletta. La stesura del colore e la matericità che ritornano e fondono due linguaggi, due periodi differenti della mia vita, la fotografia che dialoga con la pittura. 

 

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