Il colore perfetto di Gianni Maimeri / L'anima a colori
Gianni Maimeri dirige l'azienda che porta il suo nome, produttrice di tempere, pastelli, colori a olio, acquerelli e simili. L'ha ereditata dal padre che, a sua volta, l'ha avuta dal nonno che era pittore e imprenditore. La fabbrica dei colori era nata nel 1923 nell'ex mulino Blondel nel quartiere Barona di Milano, si era poi trasferita in via Ettore Ponti, lungo la roggia Carlesca e, dopo i bombardamenti del 1945, a Bettolino di Mediglia, dove si trova l'attuale stabilimento. Oggi fa parte della Fila, Fabbrica Italiana Lapis ed Affini S.p.A., mantiene però il suo marchio.
Del nonno Gianni Maimeri non porta solo lo stesso nome, ne ha ereditato anche la passione per il colore. Vissuto fin da bambino tra i pigmenti e i dipinti, rifugio cromatico nella città grigia, ne vuole capire gli enigmi, le suggestioni, le declinazioni nei vari ambiti della cultura e dell'attività umana.
Per questo decide di intervistare in questo libro i personaggi famosi che conosce oppure che vivono, lavorano o transitano per Milano, e che hanno in qualche modo a che fare con il colore, con qualche eccezione che lo costringe a uscire dalla Lombardia. D'altra parte a Milano e dintorni ci sono molte occasioni di incontro, anche se gli esiti dei colloqui sono molto diversi, talora curiosi o sorprendenti, qualche volta un po' deludenti poiché rivelano che a questo tema non era stata dedicata eccessiva attenzione. Le domande che Maimeri rivolge ai suoi interlocutori sono psicologiche e antropologiche, riguardano il diverso approccio al colore nelle persone che hanno lavori diversi e differenti esperienze del colore derivanti da culture differenti. In particolare Maimeri sembra interessato anche a un problema fisiologico, all'effetto della percezione dei colori puri, argomento sul quale pensa di proseguire la ricerca.
Il libro si apre con una prefazione bellissima: Luigi Serafini scrive nel suo alfabeto immaginario, interrotto qua e là da simboli colorati e da omini sparati come tappi di spumante che forse impersonano dei punti esclamativi; in aggiunta, tra le righe illeggibili per chi non possiede immaginazione, compare una strana illustrazione: un macchinario fantastico, fatto di arcobaleni, eliche e fili, tirati da un piccolo pilone a un altro, da un'astina all'altra, secondo geometrie improbabili, e al quale sono appesi, come a un albero di Natale, dei piccoli oggetti-giocattolo.
Di tutte le interviste non è possibile dare conto; sceglierò quindi quelle più particolari e quelle più dense di significato per il nostro tema. Partiamo da Steve McCurry. Maimeri lo incontra in occasione della mostra delle sue fotografie al Palazzo Visconteo di Pavia; ne descrive il volto e il vestito, come farà per tutti quelli che incontrerà poi. È l'autore della foto icona che ritrae Sharbat Gula, la ragazza afghana incontrata nel 1984 in un campo profughi alla frontiera con il Pakistan, della festa indiana e coloratissima dell'Holī, dei monaci Shaolin nelle loro vesti arancione. Maimeri, affascinato dall'equilibrio e, insieme, dall'esplosione del colore delle foto in mostra, sembra deluso dalle risposte del fotografo: «non ho – afferma McCurry – un vero rapporto con il colore, ho un rapporto con le immagini. Il colore è nell’immagine, non vado a cercarlo. Non parto da una riflessione sui colori» (p. 26). Eppure è una risposta importante: il colore è nelle cose; cercando di cogliere l'essenza delle cose e l'anima della persona ritratta, il colore non può che manifestarsi nella sua pienezza.
Dalla fotografia passiamo alla cucina: Wicky Priyan, originario dello Sri Lanka, conoscitore della cultura giapponese, propone nel suo ristorante in corso Italia a Milano la cucina kaiseki, fondata sull'armonia e sul contrasto dei colori, che prefigurano il gusto del cibo e richiamano l'ambiente e la città: il colore del risotto alla milanese gli fa pensare alla Madonnina del Duomo. Il legame con il colore in Gualtiero Marchesi è invece legato a un procedimento più astratto, alla riproduzione di alcuni quadri famosi: un esempio è Il Rosso e il Nero, ispirato a un Concetto spaziale di Lucio Fontana, interpretato con un gazpacho di pomodoro, rana pescatrice e nero di seppia.
Un altro incontro importante è quello con Salima Hashmi, artista pakistana e professore d'arte, anche lei incontrata in occasione di una mostra al Museo Diocesano di Porta Genova. Salima parla dei colori della tradizione, strettamente legati alla natura del luogo, i nomi dei quali i nuovi pittori riescono a stento a tradurre, combattuti tra storia locale e globalizzazione. Sul legame con la tradizione sono interessanti anche le note del pittore giapponese Tetsuro Shimizu, docente all'Accademia di Brera, il quale racconta che molti nomi sono legati alla materia, spesso anche al carattere fugace del loro apparire: akane in giapponese indica il rosso ed è il nome di una radice che, cotta, diventa rossa; esiste poi il nero di lacca, il nero carbone e il nero di corvo bagnato.
A Oliviero Toscani Maimeri chiede dove abbia sviluppato la sua sensibilità al colore e la risposta è: a scuola. Certo si tratta di una scuola molto particolare, la Kunstgewerbeschule di Zurigo e l'insegnante è Johannes Itten, il maestro del colore del Bauhaus. Toscani racconta che un giorno Itten fece disegnare ai suoi allievi un quadrato di venticinque centimetri, lo fece dividere in venticinque quadratini e chiese di colorarli con i colori che piacevano loro. Poi ne fece fare un altro con i colori che gli studenti odiavano di più. I migliori risultarono quelli con i colori più odiati: la creatività – conclude Toscani – nasce dal dubbio, dall'incertezza, «dal momento della massima insicurezza, quando si mette in dubbio ogni valore su cui si è fondato chi siamo e si ha paura. Allora si fa qualcosa di interessante» (p. 151), «per fare qualcosa di interessante devi essere il primo a provarne imbarazzo» (p. 155).
Alla fine della conversazione, che si svolge all'ora dell'aperitivo sulla terrazza di un albergo in via Santa Marta, Oliviero Toscani sembra distratto, quasi addormentato, ma aggiunge: «il colore è una filosofia, è un modo di vivere, [...] io quando faccio un ritratto cerco la vibrazione nelle pupille dell'essere umano. Lì dentro riesci a fotografare l'anima». Maimeri è d'accordo: «in fondo ho sempre pensato che l'anima debba per forza essere a colori» (ib.).
Gli incontri di Maimeri sono numerosissimi, comprendono medici e psichiatri, scenografi e costumisti, musicisti e architetti, restauratori e disegnatori: ne abbiamo citati soltanto alcuni rimandando alla lettura del libro, Il colore perfetto. Viaggi, incontri e racconti dal nostro immaginario cromatico, pubblicato ora dal Saggiatore. L'idea fondamentale che emerge da tutte le interviste è che il colore non è un elemento decorativo aggiunto all'esperienza, ma fa parte della fenomenologia della percezione, del nostro modo di vivere e organizzare il mondo.