Niemeyer oltre Niemeyer

10 Dicembre 2012

Oscar Niemeyer è morto mercoledì 5 dicembre a Rio de Janeiro. Tra pochi giorni avrebbe compiuto 105 anni. Era infatti nato, sempre a Rio de Janeiro, il 15 dicembre del 1907.

Raramente l’età – e in modo particolare la tarda età – costituisce una prova veridica del valore di una persona, a meno che non si voglia dar retta agli antichi testi taoisti che considerano il prolungarsi della vita fino a un’età veneranda una dimostrazione indefettibile di saggezza, oppure alla Bibbia che vi scorge un segno della benedizione divina. Nel caso di Niemeyer, tuttavia, l’estrema longevità biologica ha corrisposto come in pochi altri casi al perdurare in tutta la sua pienezza della vita attiva. Ciò lo ha portato a essere testimone non soltanto della vicenda dell’architettura moderna di una buona parte del XX secolo e oltre, ma anche del proprio ruolo e del proprio contributo in tale vicenda. In questo senso, i progetti e le opere da lui realizzati negli ultimi dieci anni – raggiunta ormai un’indiscussa celebrità mondiale e oltrepassata di gran lunga la consueta età lavorativa – costituiscono una riflessione a “voce alta” sul significato di un’architettura che non è chiamata a “dimostrare” altro che se stessa, nella propria purezza e assolutezza.

La vicenda di Oscar Niemeyer prende il via nel 1929, allorché Charles-Edouard Jeanneret, in arte Le Corbusier, giunge a São Paulo, in Brasile, per recarvi la “buona novella” della Ville Radieuse, che egli cerca di adattare a ogni possibile contesto urbano. In tale occasione entra in contatto con Lucio Costa e con il suo collaboratore Niemeyer, più giovane di questi di cinque anni. Quando a metà degli anni ’30, in seguito alla rivoluzione capeggiata da Getúlio Vargas, Costa e Niemeyer, insieme a Jorge Machado Moreira e ad Alfondo Eduardo Reidy, ricevono l’incarico di realizzare la sede del Ministero dell’Educazione e della Sanità a Rio de Janeiro (1936-43), decidono di rivolgersi a Le Corbusier per una consulenza: l’esito è la prima architettura moderna brasiliana, issata su alti pilotis, scandita in facciata da un fitto brise-soleil e conclusa, al di sopra della copertura piana, da volumi puri curvilinei. Il sostegno dato da Le Corbusier all’utilizzo – in combinazione con il rigoroso linguaggio modernista – di lavorazioni tipiche della tradizione coloniale portoghese, come i rivestimenti di ceramica decorata e colorata di blu (azulejo), fornisce ai giovani architetti brasiliani un elemento capace di caratterizzare le loro opere in senso autenticamente nazionale.

 



Su questi presupposti Niemeyer ha intrapreso, dagli anni quaranta fino ai giorni nostri, la sua lunghissima e prolifica carriera. Nel corso di essa egli ha avuto modo di realizzare, tra l’altro, la nuova capitale del Brasile (su piano urbanistico di Costa), nonché un numero considerevole di edifici in patria e all’estero. Un percorso segnato per tutta la sua durata dall’iniziale incontro con Le Corbusier, imprescindibile punto di riferimento per il suo lavoro, anche quando  Niemeyer si distanzia dalle opere del “maestro” per assumere una propria fisionomia riconoscibile. Ma un percorso segnato anche dal costante impegno politico e dalla militanza comunista di Niemeyer, e dall’incontro, all’inizio degli anni ’40, con Juscelino Kubitschek, futuro presidente del Brasile, sostenitore e committente di molte sue opere.

 

 

È proprio Kubitschek, in qualità di prefetto, a richiedere all’architetto il progetto per un Casinò nella zona di Pampulha, vicino a Belo Horizonte (1940-42), alla cui costruzione si vanno ad affiancare, nel medesimo luogo e periodo, la Casa do Baile, lo Iate Club e la Cappella di San Francesco d’Assisi.

 

 

Come il Padiglione Brasiliano alla World’s Fair di New York del 1939, progettato insieme a Costa, le prime tre opere di Pampulha citate coniugano il rigore di aeree griglie strutturali con la libertà di forme incurvate e serpeggianti. In particolar modo, le pensiline – essenziale congiunzione di scheletrica verticalità dei pilotis e morbida flessuosità delle tettoie orizzontali – sono l’incarnazione, piuttosto che del cerebrale processo di astrazione geometrica che connota molta architettura moderna, della tendenza ad abbandonarsi al gioco sensoriale, se non addirittura sensuale, proprio dell’architettura di Niemeyer, perfettamente in sintonia sotto tale profilo con il clima tropicale e con l’indole brasiliani.

 



Nella Cappella di San Francesco la sensualità delle forme diviene l’elemento dominante: scomparsa l’ossatura verticale, cinque volte paraboliche autoportanti di diverse altezze e curvature generano una voluttuosa intersezione e una fusione di volumi che sembrano riprodurre i paesaggi naturali del Brasile, e che al contempo costituiscono l’ideale cortice ondulata per la sinuosa raffigurazione in azulejo di Candido Portinari, apposta sul fronte posteriore. La spontaneità, la levità, la grazia – popolari o infantili – che caratterizzano la Cappella, di dimensioni contenute ma potenzialmente adattabile anche a dimensioni molto maggiori, diverranno il paradigma delle migliori opere di Niemeyer, animate da una verve immaginativa in grado sovente di sorprendere.

 

 

È il caso di molti edifici (tra essi, il Palazzo delle Arti, nel Parco Ibirapuera a São Paulo, 1951-54; l’Auditorium del Collegio Statale a Belo Horizonte, 1954; il progetto di Moschea ad Algeri, 1968; l’Università di Costantina ad Algeri, 1969-77; la Borsa di Bobigny, presso Parigi, 1972-80; la Casa della Cultura a Le Havre, 1972-82; il Memorial da América Latina, a São Paulo, 1989-92; il Museo di Arte Contemporanea a Niterói, presso Rio de Janeiro, 1991-93; il Museo Oscar Niemeyer a Curitiba, 2002; l’Auditorium di Ibirapuera a São Paulo, 2005), le cui forme fluenti, eleganti e apparentemente prive di peso, sono ottenute per curvatura o per ripiegatura di sottili lastre di cemento. Calotte, tende, coppe, iperboloidi, tronchi di cono, archi parabolici – tutti rigorosamente bianchi – costituiscono alcuni degli esemplari del ricco campionario di soluzioni escogitate da Niemeyer: una ricerca inventiva che, se ha esiti più o meno felici ed è segnata da talune ricorrenze, ha però come proprio costante obiettivo il raggiungimento di una sintesi formale che, al di là di qualsiasi altra ragione di ordine pratico-funzionale, cerca di farsi integralmente portatrice dell’essenza dell’edificio. Un trattamento della struttura-involucro di tipo scultoreo, più ancora che architettonico, che è valso in più di una circostanza all’opera dell’architetto brasiliano il sospetto di “formalismo”. Ma se la ricerca dello stupefacente – e in certi casi addirittura dell’“acrobatico” – colloca evidentemente l’architettura di Niemeyer fuori dalla più rozza e schematica corrente del modernismo che vede nella forma una variabile strettamente dipendente dalla funzione, essa in compenso, nell’individuare nella bellezza una «funzione tra le più importanti in architettura» (come egli stesso scrive in La forma nell’architettura, Mondadori, Milano 1978), svolge fino alle sue conseguenze ultime – e dunque assai più liberamente di quanto non sia nella sua stessa fonte ispiratrice – la concezione lecorbusieriana dell’architettura come generatrice di commozione, come evocatrice di “emozioni poetiche”.

 

 

E infatti, in opere come l’Edificio Copan a São Paulo (1951-53) e l’edificio per appartamenti a Belo Horizonte (1954-55), Niemeyer sottopone le stecche multipiano “cartesiane” a inedite torsioni longitudinali che ne sconvolgono completamente il rigoroso assetto ortogonale, e conferiscono loro una consistenza plastica e lamellare. Un’ulteriore evoluzione rispetto al “programma di base” lecorbusieriano è costituita dall’adozione, nei Padiglioni del parco Ibirapuera, a São Paulo (1951-54) e in numerose altre opere dell’inizio degli anni cinquanta, di pilastri a forma di V che consentono di sconnettere la struttura di sostegno del primo piano da quella dei piani successivi.

 



Il manifesto della prima fase del suo lavoro è rappresentato tuttavia da un’opera di piccole dimensioni e priva di soluzioni strutturali o formali particolarmente innovative o stravaganti: la Casa Canoas a Rio de Janeiro (1953-54), costruita da Niemeyer per se stesso. A proposito di questa scriverà anni dopo: «La mia preoccupazione era quella di progettare questa residenza in completa libertà, adattandola alle irregolarità del terreno, senza modificarla e rendendola curva, così da permettere alla vegetazione di penetrarla senza esserne separata da linee nette. Inoltre ho creato una zona ombrosa per la stanza di soggiorno, in modo che le pareti vetrate non necessitassero di tende e che la casa fosse trasparente come desideravo». Disposta su due livelli parzialmente sfalsati, la Casa Canoas utilizza elementi rigorosamente appartenenti al vocabolario moderno, ma trattati e fatti interagire tra loro in modo del tutto diverso rispetto alle opere dei “maestri” europei. I pilotis di metallo distribuiti senza ordine apparente; l’aggettante copertura piana dal contorno irregolarmente curvilineo; le pareti quasi interamente vetrate, anch’esse morbidamente incurvate: tutto ciò dà alla “pianta libera” di Le Corbusier – come al “quasi nulla” miesiano – una connotazione, o meglio ancora, una dimensione, ulteriore: una nuova totalità derivante dalla concreta fusione di un’architettura ridotta all’essenziale e di una natura lussureggiante che vi penetra sotto forma di luce, acqua, piante, rocce.

 



La ricerca di forme libere – concetto e sostanza tridimensionali, da affiancare e integrare a quelli bidimensionali di plan libre e di façade libre – conosce un’applicazione a grande scala a Brasilia, la città di nuova fondazione fortemente voluta dal presidente Kubitschek. Pianificata sulla base del Piano Pilota (1956-57) di Lucio Costa, accostamento di una rigorosa maglia ortogonale di super quadras residenziali e di una zona governativa e celebrativa disposta assialmente, che nell’insieme dà luogo alla figura di un uccello (o di un aereo) ad ali spiegate dagli evidenti intenti allegorici, Brasilia è frutto dell’intensissima attività progettuale svolta da Niemeyer e dai suoi collaboratori tra il 1956 e i primi anni sessanta, proseguita poi a varie riprese anche negli anni settanta e ottanta. Non si tratta però di un’applicazione aprioristica o acritica: nella progettazione di numerosi edifici ministeriali e residenziali, infatti, Niemeyer adotta una soluzione standard ripetuta serialmente, secondo uno schema fedele ai dettami della Ville Radieuse. Accanto alle sequenze di stecche tutte uguali che scandiscono i larghi rettifili della città costruita nel cuore del sertão, tuttavia, alcuni palazzi del potere e architetture di rappresentanza di Brasilia stabiliscono tra loro un rapporto comparabile con quello stabilito dagli edifici di Le Corbusier a Chandigarh.

 

Come la vasta esplanade della capitale del Punjab, così la Piazza dei Tre Poteri accoglie entro uno spazio fisicamente limitato ma virtualmente infinito pochi “oggetti” che cercano di instaurare fra loro un dialogo, nonostante la distanza che li separa. A differenza dagli eterogenei caratteri impersonati dagli edifici di Le Corbusier a Chandigarh, però, il Palazzo del Planalto (sede del Governo Federale, 1958-60) e la Corte Suprema (1958-60), affacciati sulla grande spianata punteggiata soltanto da qualche isolata scultura – ma pure il più discosto Palazzo dell’Alvorada (residenza presidenziale, 1956-58) – incarnano un unico carattere, declinato differentemente da ciascuno di essi. Il modello al quale i tre palazzi si uniformano è quello della scatola vetrata chiusa superiormente da una tesa copertura in cemento, tenuta sospesa da pilastri disposti lungo il perimetro dei due lati maggiori. Elemento di distinzione sono proprio i pilastri, lievemente differenziati per sagoma e per orientamento, benché tutti accomunati dalla forma della vela e dal motivo dell’arco rovesciato; in tutti e tre i casi, inoltre, essi presentano terminazioni appuntite, come se sfiorassero il suolo. Il legame di parentela che stringe questi edifici sposta dunque decisamente il senso dell’intervento di Niemeyer rispetto a quello di Le Corbusier: non più una giustapposizione di “eccezioni”, quanto piuttosto una composizione di variazioni sul tema.

 



La tendenza evolutiva delle idee progettuali di Niemeyer è ulteriormente confermata dalle sedi del Ministero della Giustizia (1962-70) e degli Esteri (1962-70), cui si va ad aggiungere qualche anno dopo l’edificio per uffici della Mondadori a Segrate, Milano (1968-75): il leit-motiv è una possente cornice in cemento armato lasciato a vista, retta da un ordine gigante di pilastri e scandita da archi. Questi ultimi, pur evocando palesemente l’architettura romana (senza riprenderne però la tecnica costruttiva in mattoni), non sono riducibili a una semplice citazione storica, e negli edifici indicati assumono significati di volta in volta diversi. Nel Ministero della Giustizia sono sfruttati per creare una inconsueta “facciata-fontana”, ottenuta inserendo nello spazio tra i pilastri ampie mensole concave da cui cascate d’acqua si riversano in un bacino sottostante. Nel Ministero degli Esteri paiono finalizzati piuttosto al conseguimento di un effetto estetico, incrementato dall’effetto duplicatore di un ennesimo specchio d’acqua sul quale Niemeyer fa “galleggiare” l’edificio: tra la cornice esterna e il parallelepipedo di vetro, poggiato al suolo e inserito al suo interno, infatti, vi è una sostanziale indipendenza. Nel Palazzo Mondadori, infine, la sospensione del blocco vetrato degli uffici all’intelaiatura cementizia mediante travi d’acciaio segna il raggiungimento della perfetta coincidenza tra forma e struttura. Gli arconi parabolici dalle luci di ampiezze differenti che ne cadenzano il fronte con un ritmo sincopato assumono una valenza compiutamente monumentale: dove la memoria dell’ars aedificandi romana, più che un rimando letterale o stilistico, rappresenta la capacità di saldare fatto costruttivo e fatto simbolico.

Ma Brasilia è fatta anche di irripetibili singolarità: la sede del Congresso Nazionale (1958-60), immediatamente prospiciente la Piazza dei Tre Poteri, ambisce a parlare dell’ineffabile. Due forme immacolate, geometricamente contrapposte – una calotta e una coppa – campeggiano sopra il tetto-terrazza di un edificio allungato e ribassato rispetto al livello stradale: la calotta contiene l’aula del Senato, la coppa la Camera dei Deputati. Alle loro spalle, due lastre verticali affiancate accolgono gli uffici amministrativi. Fra questi tre volumi, malgrado le loro differenze, si crea una relazione d’intesa, una sorta di muta complicità, dalla quale rimane però escluso l’osservatore. Nessuna “familiarità” è possibile intrattere con essi; ciò che ispirano piuttosto è un senso di profondo straniamento. Al pari della base di atterraggio per dischi volanti di una civiltà aliena, o della stazione sacrificale di un’antichissima civiltà del passato, il Congresso Nazionale evoca atmosfere cariche di attese misteriose, un’imperscrutabile dimensione cosmica, nella quale sembrano aver luogo eventi irreali.


Altrettanto estraneo alle tipologie convenzionali (nella fattispecie quella teatrale), e prossimo invece alla concezione dei templi a piramide tronca delle culture precolombiane, è il Teatro Nazionale di Brasilia (1958-81), rivestito di altorilievi astratto-geometrici di Athos Bulcão. Ma ciò che a prima vista potrebbe apparire la stilizzazione di una forma tradizionale, a uno sguardo più attento rivela invece una straordinaria concretezza, oltre alla perfetta adeguatezza dell’organizzazione spaziale interna: l’inclinazione dei lati del volume è infatti funzionale ad alloggiare due sale di differente capienza poste l’una di fronte all’altra. Alla “pesantezza” del Teatro, massivo e quasi amorfo, si contrappone – sotto il profilo strutturale e percettivo – la prorompente e aerea “eruzione” della Cattedrale Metropolitana (1959-70), un vastissimo spazio a pianta circolare avvolto da un “tessuto” vetrato sorretto da un fascio di 16 pilastri ricurvi che verso la sommità si riuniscono evocando la corona della passione di Cristo.

 

L’accesso alla Cattedrale avviene, con uno spettacolare colpo di scena, attraverso un cunicolo sotterraneo che consente di non infrangere in alcun punto la sottile cortina vetrata e di penetrare nell’immenso tendone invaso di luce emergendo trionfalmente dalla penombra. Nel punto cruciale dell’articolata apparecchiatura politico-amministrativa della capitale brasiliana, Niemeyer dà corpo a un gesto spirituale e allegorico, che si connota al tempo stesso in senso moderno e barocco.


L’invenzione e il controllo della forma gestuale, apparentemente incondizionata rispetto a qualunque tradizione costruttiva o logica strutturale, diviene il terreno su cui Niemeyer – a Brasilia e altrove – eserciterà il suo indubbio talento da allora in avanti; ma anche il limite contro cui le sue opere più tarde finiranno per scontrarsi. Nel Museo d’arte moderna (1982) e nel Pantheon della Libertà e della Democrazia per Tancredo Neves (1985), entrambi nella capitale, il gesto perde di concisione, per frangersi in una molteplicità di episodi privi di un centro. La tensione verso l’assoluto si riduce a una somma di “relatività”. Alla ricerca di espedienti comunicativi capaci di affascinare o di stupire, Niemeyer non di rado indulge nell’inversione logica della struttura dei suoi edifici, i quali – proprio come nel caso del Pantheon o in quello del progetto risalente a diversi anni prima per il Museo d’arte moderna di Caracas, in Venezuela (1954) – si presentano più stretti alla base e più larghi alla sommità, al pari di un cuneo o di un tronco di piramide rovesciati. In altre occasioni, lo sforzo di caricare un edificio o un luogo di significati simbolici genera fastidiose ridondanze: nel Memoriale dell’America Latina a São Paulo (1989-92), l’evocazione di sofferenze e aspirazioni continentali risuona “a vuoto” nell’inutile audacia delle strutture trilitiche libere e nell’estenuante profusione di curvature bidimensionali e tridimensionali che vi si relazionano. E non è probabilmente un caso che tale faticosa narrazione cerchi un’impossibile sintesi nel monumento della Mano (sanguinante) dell’America Latina, riedizione drammatizzata – ma proprio per questo privata d’intensità – della Main Ouverte di Le Corbusier.


Emblema dell’ultima fase della “missione architettonica” di Niemeyer è la gigantesca acropoli progettata nel 1999 a Niterói, di fronte a Rio de Janeiro e a poca distanza dall’impeccabile “astronave” del già citato Museo di Arte Contemporanea. Denominata encomiasticamente “Caminho Niemeyer”, tale sfilata di monumenti al costruire come vertice della creazione umana comprende – affiancati l’uno all’altro – una Cattedrale cattolica, un Teatro, il Memorial Roberto Silveira (sindaco di Niterói e committente del progetto), la Fondazione Niemeyer e una Cattedrale battista. Lasciato alle spalle ogni vincolo mondano, l’architettura di Niemeyer si presenta infine come limpida intuizione intellettuale percettibile ai sensi. E tuttavia, infranta la barriera del secolo, per lui ci sarà ancora il tempo per un’abbondante manciata di opere: tra queste l’Auditorium di Ravello (2000-10), candida conchiglia abbarbicata sulle pendici della costiera amalfitana.


Approdato all’età dei patriarchi, Niemeyer è divenuto la prova vivente del fatto che l’architettura non è una mera “disciplina”, né il suo esercizio è riducibile a una “professione”, e i suoi strumenti a semplici “tecniche”. Oltrepassato ogni limite, Niemeyer dimostra che l’architettura coincide con la vita: vita creata, vissuta. Condotta al di là di se stessa, l’architettura dimostra di essere una forma di saggezza, una benedizione.

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