Michieletto tra Berlino e Milano / Jenůfa & Salome
Meno di due anni e un destino molto diverso separano Jenůfa di Leoš Janáček (Brno, 21 gennaio 1904) da Salome di Richard Strauss (Dresda, 9 dicembre 1905). Nati sul ciglio del XX secolo, questi due titoli capitali nella storia del teatro per musica e della modernità restano oggi molto diversamente considerati. Anche se la ricerca e la valutazione storica hanno ormai definitivamente stabilito l’importanza precorritrice del lavoro del compositore moravo, le sue origini appartate e le faticose vicende esecutive (doveva passare oltre un decennio prima che approdasse su una scena importante, quella di Praga) ne hanno condizionato lungamente la ricezione e in qualche modo continuano a farlo, affermando un’astratta stima storico-culturale, ma tenendolo ai margini del grande repertorio. Discorso diametralmente opposto per il dramma musicale di Richard Strauss da Oscar Wilde: lo scandalo dal quale fu immediatamente accompagnato costituì il propellente di un successo che non mostra cedimenti e che lo stesso compositore sottolineava raccontando non senza ironia come grazie a Salome, ad onta delle diffuse polemiche e delle frequenti ripulse di ordine morale e finanche religioso, avesse potuto costruirsi la grande villa di Garmisch Partenkirchen. E pazienza se c’era voluto ben più di un decennio prima che il lavoro approdasse ad esempio sulla primaria scena di Vienna. O se il Kaiser Guglielmo II aveva dato prova della sua lungimiranza con una frase rimasta celebre e che il compositore non mancava di riportare con comprensibile soddisfazione: «Mi dispiace che Strauss abbia composto questa Salome; mi è molto simpatico, ma con questa si farà un danno terribile».
Il contrasto si riflette anche nel presente, se solo se si dà un’occhiata, con l’aiuto dei numeri raccolti da Operabase.com, alle vicende esecutive italiane delle due opere negli ultimi 15 anni: Jenůfa ha avuto tre allestimenti per complessive 19 rappresentazioni; Salome, 22 allestimenti in 18 teatri per un totale di 101 alzate di sipario.
L’ascolto chiarisce che delle due opere, quella che effettivamente guarda più lontano è Jenůfa. Janáček – autore anche del libretto, basato su un dramma di Gabriela Preissová – solo apparentemente aderisce alla poetica del Verismo o del Naturalismo operistico, diffusa sul finire dell’Ottocento specie in Italia e in Francia, portando in scena la terribile storia di un infanticidio in una cupa, arida e arretrata società rurale boema. Il centro focale della narrazione non è l’esteriore successione degli avvenimenti (una gravidanza fuori dal matrimonio vissuta come peccato, complessi e opprimenti rapporti famigliari, l’amore cercato e negato con forti componenti di violenza e sopraffazione) ma l’evoluzione dei personaggi e specialmente delle due gigantesche e tragiche figure femminili, Kostelnička e Jenůfa, matrigna e figliastra. Musicalmente, il compositore ceco arriva – dopo un’elaborazione decennale – a una dimensione nuova e rivelatoria della parola cantata, nella quale ritmo e melodia sono funzione del parlato, realizzando un’immediatezza straordinaria. Libera da ogni condizionamento formale e solo a tratti collegata al folclore (sempre, comunque, punto di partenza per una globale reinvenzione autonoma dell’autore), questa vocalità finisce per essere funzione drammaturgica essa stessa, nel rapporto con uno strumentale che a sua volta si esprime con duttilità e introspezione esemplari.
Quanto a Richard Strauss, la natura “regressiva” (per usare la terminologia di Theodor Adorno) di Salome discende dall’adozione di un soggetto in qualche modo “storico”, di una “fantasmagoria”; la genialità indubbia del “progetto” (come si direbbe oggi) deriva dalla scelta di filtrare il mito con la scandalosa e morbosa sensibilità del Decadentismo, attraverso la “rilettura” delle storie evangeliche fornita da Oscar Wilde e naturalmente senza trascurare in che modo il Simbolismo avesse lavorato sulla conturbante vicenda. Il tutto con una scrittura multiforme e ricchissima, che si distacca definitivamente dall’esempio wagneriano per la concitazione e la concentrazione strumentale, per l’eclettismo spinto, per l’efficacia con cui la franta eppure sempre ben delineata scrittura vocale aderisce ai personaggi. Un abile lavoro di intarsio fra avanguardia e tradizione, insomma, come una quarantina di anni dopo il debutto avrebbe chiarito una volta per tutte Thomas Mann nelle considerazioni del protagonista del Doktor Faustus (1947), Adrian Leverkühn, che lo scrittore immagina presente alla prima austriaca avvenuta a Graz nel 1906: «Che bocciatore intelligente! Il rivoluzionario fortunato, audace e conciliante. Mai avanguardismo e sicurezza di successo si sono uniti in maggiore confidenza. Non mancano gli affronti e le dissonanze, e poi quella bonaria condiscendenza che fa la pace col timorato di Dio e gli fa capire che, in fondo, la cosa non è tanto grave… Ma che mira, che mira!».
L’occasione di parlare di queste due opere viene dagli streaming ravvicinati grazie ai quali gli appassionati hanno potuto assistere a Jenůfa e Salome nell’arco di una settimana, la prima dall’Opera Unter den Linden di Berlino e la seconda dalla Scala. Proposte rese particolarmente intriganti dal fatto che in entrambi i casi il gruppo di realizzazione dello spettacolo era lo stesso: regia di Damiano Michieletto, scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti, luci di Alessandro Carletti, coreografie di Thomas Wilhelm. Una sovrapposizione del genere è insolita, in condizioni produttive normali, ma oggi di normalità nei teatri musicali non ce n’è proprio.
Escludendo ogni elemento folclorico, lo spettacolo berlinese ha affermato una cifra visiva di grande asciuttezza, raggiungendo una dimensione antinaturalistica di forte impatto comunicativo, funzionale alla sottolineatura del realismo psicologico che attraversa la drammaturgia musicale di Janáček. La scena è spoglia, quasi asettica: un parallelepipedo avvolto da velari e delimitato da alti pannelli semitrasparenti. All’interno di questa specie di “installazione”, pochissimi elementi: in pratica, solo alcune panche di legno dal disegno “modernista”. Nello scavo psicologico impostato da Michieletto, una funzione centrale hanno pochi oggetti-simbolo che emergono dal testo cantato (una piantina di rosmarino, un’icona e un crocifisso circondati da candele accese) o che annunciano allusivamente i fatti terribili che accadranno (un blocco di ghiaccio alla fine del primo atto). Dal secondo atto in poi, quello che si vede diviene teatro tanto quanto ciò che si ascolta: dal soffitto, con rabbrividente, inesorabile lentezza, scende una sorta di enorme macigno. È la pietra che opprime Jenůfa durante il suo incubo, mentre la matrigna decide di annegarne il figlio di pochi giorni nel vicino ruscello. Al terz’atto, è il ghiaccio che si scioglie addosso alla matrigna divorata dalla colpa, rivelando la tomba naturale del povero neonato, una spaccatura nel pavimento dal quale emergono solo pochi miseri indumenti.
Lo spettacolo milanese percorre una strada ovviamente diversa, lontana dalla fascinosa oggettività di quello berlinese, al di là della comune rinuncia all’elemento ambientale (in questo caso l’esotismo mediorientale). Qui è centrale l’interpretazione del regista, che vede la vicenda (la sconvolgente pulsione necrofila di Salome, che ottiene la testa mozzata di Jochanaan per baciarne la bocca dopo esserne stata rifiutata) come l’esplosione delirante e infine violenta del traumatico vissuto infantile della protagonista, lungamente rimosso e portato alla luce dalla figura del profeta. Una lettura psicanalitica (quelli erano gli anni in cui nascevano le teorie freudiane) peraltro risolta secondo un immaginario neobarocco, non di rado troppo caricato, accompagnato dal progressivo accumulo di un simbolismo che non esita a confrontarsi con il kitsch. Nella Salome secondo Michieletto, dentro a una scena geometrica molto bella (una prospettiva giocata sul contrasto fra il bianco del pavimento e del fondo e il nero delle pareti), la protagonista e il suo “doppio” infantile s’incrociano continuamente.
Cinque angeli della morte con grandi ali nere celebrano riti letali muniti di calici colmi di sangue, Erodiade sembra una matrona tedesca dell’età guglielmina, Erode è abbigliato con un gessato doppiopetto che potrebbe essere stato prelevato dal guardaroba di Scarface (e come lui la pattuglia di “doppi” con cui Salome intreccia la Danza dei Sette Veli, in apparenza finendo per subire violenza). La luna, protagonista spesso invocata del dramma, è una sfera nera che scende dal soffitto. La testa mozzata di Jochanaan ascende al cielo in un enorme ostensorio circonfuso di raggi luminosi, il suo sangue gocciola dall’alto e la perversa fanciulla/povera vittima quasi se ne abbevera mentre delira sulle labbra rosse del profeta. E prima di pagare con la vita, cerca di ammazzare anche Erodiade, come forse aveva già fatto da bambina con il padre, secondo la breve scena che lo mostra senza vita sullo sfondo.
La regia, dunque, pare decisa a contraddire Thomas Mann: nessuna bonaria condiscendenza, nessuna rassicurazione in quest’opera. Anzi, oltre la perversione, l’orrore, senza sconti, in una sorta di anticipazione espressionista per quanto ancora imbevuta di decadentismo.
Sarebbe stata necessaria, in questa direzione, una qualità attoriale, oltre che musicale, che i cantanti non hanno mostrato di avere nelle loro corde, rimanendo sulla linea di una più che apprezzabile qualità vocale, con linee di canto di volta in volta tese e disperate (Elena Stikhina nel personaggio del titolo), stridule e grottesche (Gerhard Siegel nei panni di Erode), pomposamente perfide (Linda Watson, che era Erodiade), irosamente ieratiche (Wolfgang Koch, Jochanaan). Bene Attilio Glaser nel ruolo di Narraboth, che si suicida davanti a Salome nella sua totale indifferenza: forse il più attore, per l’evidenza della nevrosi erotica che lo divora, oltre che un efficace cantante.
Ben diversamente determinante, nella Jenůfa berlinese la sintesi di canto e recitazione sciorinata da una compagnia di assoluto livello. Impeccabile Evelyn Herlitzius nella parte della matrigna: il suo percorso nella disperazione è emozionante e diretto fino a far dimenticare i “filtri mediatici” dello streaming. Alla stessa altezza il soprano finlandese Camilla Nylund, che debuttava nel ruolo di Jenůfa, anch’essa capace di un'appassionante profondità espressiva, in stretta correlazione con quella musicale. Incisivi e perfettamente in parte nei ruoli maschili Stuart Skelton e Ladislav Elgr.
In entrambi i casi, a Berlino come a Milano, eccellente e non di rado rivelatoria la conduzione musicale. Sul podio di Unter den Linden è salito Simon Rattle, protagonista di una lettura esemplare per nitidezza e sottigliezza. La multiformità dell’invenzione di Janáček – fra armonie slegate dalla maniera, allusioni etniche, complessi percorsi interiori nel suono – è stata resa palpitante e comunicativa grazie a un fraseggio duttilissimo, tempi di perfetta connotazione drammatica, dinamiche pensose e poetiche.
Sul podio della Scala, con l’orchestra (l’immensa compagine strumentale prescritta da Richard Strauss) distesa a occupare tutto lo spazio ricavato sopra la platea, c’era Riccardo Chailly, tornato in locandina com’era originariamente (lo spettacolo era programmato per il marzo del 2020: fu il primo a essere cancellato dalla pandemia), dopo che per qualche settimana aveva lasciato spazio a Zubin Mehta, a sua volta costretto a dare forfait per motivi di salute a pochi giorni dalla prima.
La sua è stata un’interpretazione sorvegliata e concentrata, che ha ottenuto notevole qualità di suono dalla formazione scaligera e ha costruito da un lato un adeguato sostegno strumentale alla vocalità post-wagneriana delineata da Strauss, dall’altro conferendo evidenza sontuosa alla forte tensione espressiva della scrittura. Più ancora che nella Danza dei Sette Veli, lo si è notato nella forza con cui è stato reso l’interludio strumentale che chiude e suggella la scena fra Jochanaan e Salome, verso la metà dell’opera: una sontuosa e fascinosa pagina sinfonica dalle ricchissime risonanze drammatiche, resa con stile impeccabile e magistrale lucidità.
Lo spettacolo milanese è disponibile gratuitamente in streaming su Raiplay.