Vedere e immaginare / Paolo Pellegrin. Gridare con gli occhi
C’è un verso di René Char in Fogli d’Ipnos che fa pensare alla fotografia contemporanea, e in particolare a quella di Paolo Pellegrin: “Solo gli occhi sono ancora capaci di gettare un grido”. Guardando le immagini che il fotografo romano ha scattato a Lesbo tra i migranti, oppure a Gaza, nei campi profughi del Medio Oriente, negli innumerevoli scenari di guerra intorno a noi, negli slums americani, si è portati a pensare che Pellegrin vuole far gridare i nostri occhi. Non lo fa mettendo in scena lo scempio dei corpi, le violenze perpetuate sulle persone in modo continuato e perverso, bensì fissando pietre, persone di schiena, visi, panni stesi, rotoli di filo spinato, muri, lamiere.
La fotografia contemporanea, in particolare quella dei fotoreporter e degli inviati di guerra, ha dovuto affrontare un problema che Susan Sontag aveva segnalato anni fa: il contenuto etico delle fotografie appare molto fragile. Forse solo mettendo in mostra i massacri, a partire dal massacro dei massacri che sono stati i Lager nazisti, ovvero esibendo l’orrore, solo così la fotografia può raggiungere e accrescere il nostro senso morale. Tuttavia Susan Sontag è stata perentoria nel suo saggio raccolto in Sulla fotografia: “Il limite della conoscenza fotografica del mondo è che, se può spronare le coscienze, non può essere alla lunga, conoscenza politica o etica. La conoscenza raggiunta attraverso le fotografie sarà sempre una forma di sentimentalismo, cinico o umanistico”.
Il pensiero implicito della scrittrice americana riguarda il valore estetico della fotografia, la sua capacità di mobilitare, nonostante tutto, la bellezza, e quindi di elidere il messaggio etico che l’immagine potrebbe o vorrebbe veicolare. Il problema si pone davanti a molte delle immagini che quotidianamente vediamo sui giornali, nelle riviste, nel web, oppure esposte nelle gallerie e nei musei.
La fotografia sembra aver oscurato la nostra capacità di guardare grazie all’eccesso degli scatti quotidiani di cellulari e macchine digitali. Non siamo più in grado di gridare con gli occhi? No, lo siamo; i nostri occhi continuano comunque a gridare. E questo anche dopo l’immagine del piccolo Alan steso sulla spiaggia di Bodrum il 2 settembre 2015, reiterata in milioni di schermate nei social di tutto il mondo.
Allora cosa sono esattamente le fotografie di Paolo Pellegrin esposte in questa mostra? Sono descrizioni di tragedie, di avvenimenti dolorosi e luttuosi: un popolo che fugge dalla sua patria devastata dalla guerra, un altro che s’accampa in un lembo di terra di nessuno, un uomo che combatte per la sua libertà, altri uomini e donne che si ribellano, tutte realtà che conosciamo a distanza sul visore del nostro computer o nello schermo del televisore. Paolo Pellegrin fa urlare gli occhi attraverso dettagli, visioni improvvise, attimi colti al volo in momenti irripetibili, eppure salienti: qualcosa è già accaduto e continua ad accadere. Egli ha compiuto il percorso inverso di quello descritto da Susan Sontag: per potere mostrare ciò che non si può mostrare, è ricorso alla bellezza e all’arte. Si è fatto artista, là dove la fotografia ha preso storicamente a proprio carico la funzione del testimone. Per questo Pellegrin non fa vedere, bensì immaginare.
Sappiamo che lo statuto della testimonianza è assai incerto, sia quando è affidata alla memoria e alla voce umana, sia quando è un’istantanea scattata in un momento e un luogo precisi. Un altro scrittore, John Berger, ci ha ammonito circa il potere di testimonianza delle immagini: possono mentire. Le immagini, ha scritto Berger, hanno bisogno di parole per dire quello che vogliono dire. Tra Scilla della bellezza e Cariddi della testimonianza, Pellegrin ha scelto in queste immagini esposte a Pistoia la strada dell’immaginazione. Più che far vedere, queste fotografie fanno immaginare: muovono i nostri sensi in direzione di un fantasma che non c’è. Usano quello che c’è – l’immagine di un gruppo di uomini immersi nell’acqua intorno a un’imbarcazione vicino a riva – per farci immaginare il viaggio di chi è arrivato sin lì attraversando deserti, campi profughi, mari procellosi. Solo l’immaginazione può suffragare tutto quello che precede e segue un’immagine. L’immaginazione muove l’empatia e la compassione.
Queste immagini esposte a Pistoia usano la bellezza per far immaginare e pensare. Cosa sono quelle pietre per terra, la lamiera rinforzata da un palo di legno, lo scudo di metallo tenuto dalla mano aperta, il viso attonito di una ragazza? Sono immagini, appunto, di qualcosa che non vediamo, ma che possiamo immaginare. In questo Pellegrin fa ricorso alla nostra memoria e alla fantasia, cita senza mostrare tutto quello che noi già sappiamo del mondo, della vita, degli oggetti, delle innumerevoli situazioni possibili e impossibili. Fa persino ricorso alla nostra esperienza, per quanto limitata, frammentaria e incompleta. La completa suggerendoci di immaginare a cosa servono quelle pietre o cosa è accaduto a quell’uomo visto di spalle o ai volti degli uomini e delle donne che s’accalcano in una fila scomposta e angosciata in un’isola greca. Sono istanti vissuti che rinviano al nostro vissuto e al nostro immaginario, dove da tempo si sono accumulate altre immagini, sensazioni e pensieri. La bellezza, come ci mostrano ad esempio i quadri di Caravaggio – le immagini di strazio che quel pittore ci ha trasmesso con la sua pittura –, risiede in qualcosa che trascende l’estetico in senso stretto, per proiettarsi in uno spazio altro, dove l’immagine vive di una propria specifica bellezza.
In questo Pellegrin ha scavalcato l’obiezione di Susan Sontag proprio perché non ha cercato di mobilitare il nostro senso etico, e al tempo stesso non si è preoccupato di darci delle belle immagini. Ci ha fornito piuttosto immagini incomplete, frammentarie, sottratte al flusso della vita per farci immaginare cos’è la vita, quella che abbiamo vissuto e quella che abbiamo solo immaginato. La nostra vita e quella degli altri, perché sono sempre gli altri che vediamo raffigurati in queste immagini, gli altri che siamo noi, se solo la vita che avremmo potuto vivere fosse stata la vita degli altri, gli altri che pure non conosciamo e che ora vediamo solo per un istante fissati nel riquadro della fotografia: “Solo gli occhi sono ancora capaci di gettare un grido”.