Intervista ad Anselm Kiefer. Le torri e la qabbalah
Dopo aver visto le sue torri nell’Hangar Bicocca, ho fatto un viaggio a ritroso nella sua opera. Poi ho sentito il bisogno di leggere il testo che l’ha suggestionata, il Sefer hekhalot appunto, per capire un po’ meglio cosa volesse significare con tutti i suoi lavori sui sette palazzi celesti. Leggendo il testo, ho percepito una forte ambiguità di fondo nel racconto. Non si capisce se il viaggio del protagonista sia un viaggio ascendente o discendente. Il mistico deve superare delle prove terribili prima di giungere al cospetto del Trono mistico. Nelle sue opere del passato, dove ha lavorato sul tema dei Palazzi celesti, questi hekhalot sono rappresentati via via come gabbie volanti con palle di piombo all’interno, come luoghi fotografati in bianco e nero, siti che sembrano fabbriche dismesse o lager da cui fuoriescono dei flussi, come se fossero anime degli ebrei morti. Ho letto, poi, che questo suo lavorare intorno al tema del Sefer hekhalot, è scaturito dopo il suo viaggio a Gerusalemme. Vorrei che lei mi parlasse - visto che io ho provato, di fronte alle sue torri dell Hangar Bicocca, allo stesso tempo, una sorta di repulsione e di attrazione - di questa frizione fra le ambivalenze presenti nella fonte testuale e nelle sue installazioni.
Sì, la mistica della merkaba consiste di ambivalenze. Si dice che sia un viaggio verso l’alto, attraverso i sette palazzi celesti. Ma si dice, anche, che sia un viaggio verso il basso. Questa coincidenza di due direzioni contrapposte si trova già nel Faust di Goethe. Quando Faust scende dalle madri dice “salendo salendo scendi”. E Lei mi ha ricordato un quadro che ho fatto, la gabbia con le palle di piombo. Le gabbie rappresentano i palazzi celesti. E le palle di piombo, il peso, ciò che appartiene alla terra, rappresentano naturalmente la direzione contraria, la forza di gravità, la discesa, l’incarnarsi nella terra.
Io percepisco una sorta di proiezione animista nel suo fare arte. La scelta della materia su cui intervenire e dei materiali che entrano nella costruzione di un’opera hanno anche delle connotazioni che aprono a interpretazioni di stampo spirituale e mistico. Come mai c’è spesso nelle sue opere una forte presenza del piombo? Può dirci che tipo di emozioni le suscitano alcuni diversi materiali, che di volta in volta Lei ha cominciato a fare propri?
Ogni scelta di un materiale parte da uno shock, da un’esperienza, un’esperienza forte. Mi ricordo ancora come ho visto per la prima volta il piombo. Era all’inizio degli anni ‘70, in una vecchia casa, era un tubo di scarico. E io fui subito molto, molto attratto da questo materiale, senza sapere nulla di ciò che potesse significare, o che avesse significato nella storia, nell’alchimia. Ero attratto dal semplice esserci di questo materiale. Più tardi ho studiato i suoi significati. E per quanto riguarda i materiali, beh, la mitologia cattolica distingue tra materia e spirito e divide nettamente i due concetti. Questo riconduce al platonismo, che aveva creato un forte antagonismo tra materia e spirito. Io credo che nei materiali, nella materia ci sia nascosto lo spirito, e l’artista, cioè ogni essere umano, ma l’artista in modo particolare, ha la capacità di evocare questo spirito, questo spirito racchiuso nella materia.
Come Lei ha detto, nei materiali è contenuto uno spirito, e perciò anche nelle torri. Questo spirito è lo spirito di una persona, di un popolo o di più popoli?
In una persona si specchia un popolo intero, ed è difficile distinguere. È lo spirito che unisce le persone, tutti gli esseri umani. In un certo qual modo esso è il mezzo di trasporto che conduce da una persona all’altra, da un popolo all’altro, da un secolo all’altro.
Quando Lei lavora con il piombo, un metallo che la tradizione umanistica associa alla melanconia saturnina e quella alchemica al sole nero (e che i medici del nostro tempo ritengono essere cancerogeno), usa delle particolari precauzioni o è una materia che usa come qualsiasi altro materiale. Lei ritiene che il piombo sia, simbolicamente, un materiale primordiale?
I miei collaboratori si proteggono, usano delle maschere e altro. Io non ho mai preso delle precauzioni. Probabilmente ho una certa affinità con il piombo. E a proposito dei “materiali primordiali”, io non li intendo come primordiali, ma penso che noi manteniamo nella nostra coscienza, praticamente nelle nostre cellule, non solo la cosiddetta storia, ma anche la cosiddetta “storia primordiale”. Fino al monocellulare. Io credo che questo sia salvato dentro di noi, non nel nostro cervello, ma nelle cellule.
L’incontro con i materiali fa scaturire “qualcosa”, che poi matura nel corso del tempo, evolve, soprattutto nella manipolazione della materia e del pensiero. Quanto conta invece la lettura, lo studio filosofico nel suo lavoro?
All’inizio c’è sempre un’esperienza, e l’esperienza si fa senza teoria, ovvero senza aver studiato. E così mi sono imbattuto nella storia, cioè la storia tedesca recente, non attraverso lo studio, ma attraverso un’esperienza fisica, diretta. Mi ricordo di aver trovato per caso, la metà degli anni ‘60, dei dischi con dei discorsi di Hitler, Göring, Goebbels. Le forze di occupazione degli Stati Uniti li avevano fatti sentire ai tedeschi a scopo didattico. Ed era questo contatto, il contatto fisico con i discorsi, con le voci di Hitler, di Göring e di altri a procurami lo shock di lavorarci.
Lei, non solo, come ha detto in un’intervista, ama le rovine, ma in qualche modo le Sue opere sono quasi rovine, o meglio, sono opere che nascono rovinate. Allora mi chiedevo se questo è vero e in che termini si può parlare, nei suoi quadri soprattutto, di rappresentazione. Se sono rappresentativi e come possono rappresentare.
Beh, non c’è rappresentazione in quanto non c’è, nella mia opera, un’immagine definitiva. Non c’è. Io non offro una visione stringente del mondo.
Nelle sue opere-libro sui Sette palazzi celesti ci sono flussi, emanazioni, che salgono dai tombini di luoghi dismessi, che paiono evocare lager nazisti. Paiono anime degli ebrei morti nell’olocausto. Vorrei sapere se i filatteri o le pellicole di piombo con foto incollate, che lei ha posto nella torre intitolata “Campi magnetici” hanno a che fare con i significati evocati dai flussi che sono presenti nelle sue opere-libro.
I campi magnetici sono una cosa meravigliosa. Di tanto in tanto cambiano sulla terra. E sulla base dei campi magnetici che si mantengono nelle incrostazioni si può determinare il periodo in cui ha vissuto una determinata specie di animale. E per quanto riguarda i flussi… Certi libri hanno naturalmente dei flussi, li faccio io, e se uno li apre quando il colore, cioè il materiale, non è ancora del tutto asciutto, allora emana un determinato effluvio e coinvolge, naturalmente, un ulteriore senso. Questo ha un effetto immediato sullo sguardo del fruitore.
Nell’Hangar Bicocca le torri evocano una sensazione sicuramente diversa da quelle che lei ha innalzato nel suo territorio a Barjac. In un luogo industriale, che sensazione ha provato di fronte alle sue torri, immaginate in un contesto all’aperto?
Ho lavorato spesso in luoghi industriali. Li trovo particolarmente interessanti, perché qui c’è un accumulo di lavoro che si percepisce fisicamente. Decine di migliaia di persone ci hanno lavorato e hanno lasciato una parte della loro vita. In Germania avevo una vecchia fabbrica, ci ho lavorato. Per me era sempre importante essere in questa tradizione, non in quella della storia dell’arte, ma in questa. Quando sono partito, per me il lavoro era concluso. Ma le torri sono state concepite pensando a questo hangar. A casa ho delle torri che, però, rappresentano una situazione completamente diversa. Queste torri sono state create per questo hangar, ma quando sono partito non erano più le mie torri. Ma, invece, le torri di coloro che le guardano, che se ne fanno qualcosa. Per questo non credo che ci sia un’interpretazione sbagliata. Ogni interpretazione, ogni frase è giusta. Quando i quadri o le sculture hanno lasciato il mio studio, allora sono nel mondo, e altri se ne prendono cura, altri continuano il lavoro della loro creazione. Anche qui, nell’Hangar della Bicocca. Ho innalzato le torri e adesso guardo e vedrò cosa succederà.
Le torri, costituite da calchi di containers, sembrano innalzarsi come scale verso il cielo, che rappresenta il concetto dell’infinito. Che rapporto c’è tra un simbolo della globalizzazione contemporanea e il viaggio verso l’infinito?
Il concetto di scala è azzeccato. Infatti si tratta di componenti che vengono fusi come modello per i containers. Perché un container è onnipresente, si trova in tutto il mondo. Le torri sono fatte con un modulo molto semplice. In sostanza come quando un bambino assembla delle costruzioni, senza architettura. Inoltre ciò a cui ha accennato Lei con il concetto di infinito è giusto, soprattutto se si pensa a una torre che si chiama merkaba. Merkaba è il veicolo, ma si potrebbe dire anche il trono in cima ai sette palazzi celesti. E questo è un viaggio verso l’infinito, sia per quanto riguarda il cosmo sia per quel che riguarda noi stessi e il viaggio verso la nostra interiorità. Sicché il viaggio chiamato merkaba è un viaggio verso l’infinito esterno e verso l’infinito interno.
Come la scala di Giacobbe?
Sì, sì.
Effettivamente l’unico modulo con cui sono costruite queste torri è un container. E i container servono per trasportare merci e a volte uomini come merce. Lei, con queste “elevazioni”, con queste torri fatte da calchi in cemento di container che trasportano merci, con questi palazzi bucati da missili o da stelle cadenti, vuol dire che noi rischiamo di innalzare non delle torri, ma delle rovine?
Ho utilizzato dei container perché rappresentano in modo semplice la globalizzazione e perché, diversamente da un blocco solido di cemento, esprimono in modo paradossale un movimento. Dunque, in parte avevamo a che fare con un movimento, in parte con qualcosa di fisso. Quando il cemento viene gettato si muove, viene gettato e si solidifica e non si muove più. Lavoro spesso con tali paradossi, in questo caso con movimento e rigidità.
Lei parla di viaggio, di movimento. E perché per invitarci a questo viaggio ha scelto proprio una tematica del viaggio mistico e terribile, che l’uomo intraprende per giungere al cospetto del Trono divino? Perché ha scelto suggestioni derivate dai testi della qabbalah?
Noi siamo cresciuti in Europa e la qabbalah ha avuto un grande effetto sull’Europa. Voi sapete che è nata in Spagna e io penso che tutti noi ne deriviamo. Il cristianesimo sicuramente ha fatto da mediatore alla qabbalah, ma l’ha anche e soprattutto perseguitata.
Nel XV secolo, nella Toscana medicea, Pico della Mirandola e molti altri umanisti di cultura neoplatonica hanno congiunto gli archetipi cabalistici con quelli della tradizione cristiana. Marsilio Ficino ha tradotto, quasi negli stessi anni, i testi alchemici di Ermete Trismegisto e quelli di Platone. In questo fervente clima culturale è nato l’umanesimo del Rinascimento. Lei, spesso, nelle sue opere si riferisce a presenze o simboli di natura alchemica, filosofica e cabalistica. Ha lavorato su suggestioni derivate da libri scritti dall’alchimista e cabalista inglese Robert Fludd e su archetipi della tradizione mistica. Mi piacerebbe che lei desse una sua definizione del termine “alchimia”, in un’epoca tecnologica in cui la scienza ha il predominio sull’uomo.
L’alchimia è il tentativo di comprendere il mondo in immagini, al di là delle scienze. Questo è anche l’ammissione che se oggi ci occupiamo di alchimia, di qabbalah, lo facciamo perché i metodi scientifici non riescono a fornire un’immagine del mondo. La scienza può darci solo delle cognizioni parziali. La mitologia e l’alchimia, invece, cercano di costruire, in un modo pre-scientifico, un contesto globale. Ed è quel che fa anche l’artista. Egli crea dei collegamenti, che prima non si erano visti. Lo si potrebbe perfino chiamare creazione di senso. Ma tra virgolette.
Nell’Hangar Bicocca una delle sette torri ha, sulla facciata rivolta all’entrata, i nomi delle dieci Sefirot, delle dieci emanazioni dell’En sof. Le dieci Sefirot sono spesso presenti anche nelle sue opere del passato. Nel contesto dell’Hangar, la torre sefirotica ha anche una funzione di albero della vita, che unisce il cielo alla terra e in cui circola l’energia della forza cosmica? E come è da interpretare l’allusione alla “torre/scala/albero sefirotico”, che l’uomo deve percorrere per conoscere la dimensione divina?
La cosa bella dell’albero della vita è che può essere molto ambiguo, infatti ci sono state tante diverse interpretazioni nel corso del tempo. Ci si può meditare, si può vedere come l’energia gira intorno a questi singoli concetti; come la forza, l’energia, scivola dall’Ain soph aur (“senza fine”), dal niente infinito, dalla luce, attraverso hokmàh (“saggezza”) verso binàh (“intelligenza”). Binàh è il contenitore di hokmàh e in questo modo, lo sapete, un concetto ha sempre il suo contrario. Geburàh – hesed (“rigore” e “generosità”), l’uno è l’amore, l’altro la giustizia. Amore come giustizia sono senza fine, ci si può perdere. Amore e giustizia portano alla guerra, al litigio etc. E in fin dei conti, ciascuno può interpretarlo a modo suo e sempre fa senso.
Che rapporto c’è tra ogni inizio di un suo lavoro, dove il desiderio muove a trovare una via – alla maniera di colui che inizia il viaggio mistico verso la Merkava –, e la sua realizzazione finale? Come si realizza, nel suo fare arte, il desiderio di giungere al cospetto di qualcosa che l’uomo intuisce essere una realizzazione di un afflato vitale, rispetto a quel che accade nella pratica, quando lei si mette in gioco nel suo lavoro?
Io ho sperimentato già molto presto che i desideri sono una cosa strana. Non c’è mai qualcosa che corrisponda veramente al desiderio. Se ciò che in passato si è desiderato si avvera, si nota di essere molto lontani da ciò che si aveva desiderato. Non c’è dunque mai corrispondenza tra desiderio e realizzazione. Dunque, non c’è mai realizzazione. E in questo senso non c’è neanche risposta alla Sua domanda.