Avere un'idea fissa
Stando a quanto riportato nel suo diario, prima di morire nell’agosto del 1867 all’età di quarantasei anni, Baudelaire aveva concepito una serie di pamphlet che nella realtà non hanno mai visto la luce. Si trattava di un corpus di testi che, secondo le sue idee, avrebbe dovuto confluire in un grande libro di “tutte le mie collere”. Tra questi vi era un progetto di scrittura che aveva per argomento quella che lui definiva “la potenza dell’idea fissa”, ossia una forza indistinta della psiche capace di garantirgli l’autonomia del pensiero in ogni campo del sapere, nella religione come nelle idee politiche. Stiamo parlando di una di quelle tipiche ossessioni che di tanto in tanto, nel corso della storia, invadono un’intera epoca. Ma cosa sia di preciso questa forza, in quale cavità della mente si agiti e prenda forma, è questione molto complessa che ha a che fare con la cultura e l’immaginario ottocentesco.
A questo tema, Vanessa Pietrantonio, insegnante di Letterature comparate all’Università di Bologna, che al “secolo lungo” ha già rivolto la sua attenzione in alcuni precedenti lavori, ha di recente dedicato un saggio uscito per Bompiani dal titolo L’idea fissa – Una malattia dell’immaginario.
Che cosa si intende per idea fissa?
Pietrantonio, fin dalla prima pagina del libro, tenta di darne una definizione: “Una nuova entità psichica”, scrive. “Una presenza sorda, risucchiante, dai tratti demoniaci, che sfianca e trascina sull’orlo del precipizio chiunque cada nelle sue spire”. Un modello immaginativo che, portato all’estremo, arriva a toccare qualcosa a metà tra la malattia e lo spirito. La difficoltà di definire una simile nozione sta nel fatto che essa non è propriamente un’entità dotata di un cuore e di confini tangibili. È bensì un cuneo, un’idea che, come dice Italo Svevo nell’epigrafe che apre il libro, occupa e ingombra il cervello “chiudendolo a tutte le altre”. Ciò che invece può essere, sì, definito, non più per negazione ma per forma, sono i suoi effetti sulla produzione culturale dell’Ottocento.
Il luogo in cui vediamo riflettersi la potenza dell’idea fissa è infatti la vita interiore dei protagonisti dei più celebri romanzi di quel secolo. Secondo Balzac, tra la “letteratura delle idee” di cui Stendhal è il campione, e la “letteratura dell’immagine” di cui Victor Hugo rappresenta l’eminenza assoluta, si pone una terza via, necessaria per la rappresentazione della società moderna: è il cosiddetto “eclettismo letterario”. “L’idea divenuta personaggio si offre più bella all’intelligenza”, scrive Balzac in una frase fulminante. Le idee hanno dunque la stessa intensità dei fatti. Con la sua Comédie humaine, in effetti, la forma che egli dà ai personaggi è data dalla sostanza del loro pensiero. “Grazie a una sfrenata ambizione fisiognomica”, sottolinea Pietrantonio, “Balzac ricalca i fenomeni psichici su un retroterra organico e conferisce al linguaggio corporeo dei personaggi un valore simbolico, tale che i volti, i gesti, l’andatura e la voce diventano un prezioso megafono della vita interiore”.
Quella che Baudelaire chiamava “idea fissa”, in realtà era già stata tratteggiata da altri prima di lui. Esquirol per esempio, nel 1819, nel Dizionario delle scienze mediche, inventa un neologismo – monomania – e lo definisce come “una forma intermedia tra la lipomania e la mania; è simile alla lipomania (malinconia) per la fissità e la concentrazione delle idee, e alla mania per l’esaltazione delle idee e per l’attività fisica e mentale”. Il monomane diventa un personaggio capace di fissare in uno sguardo il vortice interiore. Si pensi al ciclo di ritratti degli “alienati” che Géricault realizza tra il 1822 e il 1823, in cui lo sguardo dei protagonisti basta da sé a raccontare l’incolmabile solitudine, la mente offuscata dalla malattia, l’esistenza di chi esiste lontano da se stesso e dal mondo reale.
L’impronta fantasmatica di tale fissazione assoluta però, più di tutti, si ravvisa in Achab. Melville, con il capitano Achab, costruisce un personaggio che è la quintessenza della monomania di cui parlava Esquirol, poiché in lui il reale convive con l’immaginario. La balena bianca è l’incarnazione dell’idea fissa, è al contempo allegoria e oggettività. Quando Moby Dick si immerge per l’ultima volta, trascinando la nave negli abissi oceanici, Achab in punto di morte inveisce contro la bestia: “Fino all’ultimo io lotterò con te; dal cuore dell’inferno ti pugnalo; in nome dell’odio ti sputo in faccia l’ultimo respiro”. Queste parole appaiono quasi come un’invettiva scagliata dal principio dell’oscurità contro se stesso e contro la propria maledizione.
Altri autori, oltre a quelli già citati, per tutto l’Ottocento contribuiranno a dare forma a questa nuova entità psichica, e Vanessa Pietrantonio nel suo libro li passa in rassegna approfondendo per ciascuno i contributi che hanno offerto alla definizione dell’idea fissa. Tra questi Maupassant, Flaubert, Poe, James, Conrad. A proposito di quest’ultimo, si pensi al personaggio di Kurtz in Cuore di tenebra e al suo essere vittima del proprio titanismo. Proprio Conrad, come i pittori del sublime, nella chiusa del suo racconto ci ha dato una visione plastica di questa malattia dell’immaginario che così tanto ha contribuito a plasmare l’arte, la letteratura, l’estetica, l’antropologia e la psichiatria di un intero secolo: “Il mare aperto era sbarrato da un banco di nubi nere, e il quieto corso d’acqua che portava ai confini estremi della terra scorreva cupo sotto un cielo offuscato – pareva condurre nel cuore di una tenebra immensa”.