Un ritorno alla magia / Per una letteratura schizofrenica
«Lungi dall'aver non si sa quale contatto con la vita, lo schizofrenico è più di tutti vicino al cuore pulsante della realtà, a un punto intenso che si confonde con la produzione del reale».
Sono parole di Deleuze e Guattari contenute in L’Anti-Edipo e potrebbero star bene in esergo a Medusa di Luca Bernardi, libro che prende il lettore e lo spinge in un gorgo – quello stesso gorgo che è la mente del protagonista/narratore. Bernardi ci fa entrare nella testa di uno schizofrenico e ci fa vedere il mondo con i suoi occhi e con la sua lingua. La trama è filtrata e confusa dalla mente dell’io che non riesce a ordinare gli eventi entro una narrazione coerente. È piuttosto il riproporsi di alcuni oggetti e situazioni a garantire la ricostruzione di una storia che si va componendo per riprese di temi: ci sono gli alieni, un Dizionario Semiologico Abissale («un antivocabolario in cui a ogni lemma corrispondesse non una serie denotativa bensì un grappolo, un groviglio»), uno stabilimento balneare, un gruppo di amici in vacanza, un trauma non superato, una (o più?) morti non ben spiegate. La narrazione rimane sospesa nell’ambiguità, nella contraddizione, lo spaziotempo è del tutto imploso su se stesso e ricreato all’interno della mente del protagonista, che non riesce mai a guadagnarsi la nostra fiducia: la sospensione dell’incredulità non è possibile, lo stesso narratore ci intima a non credere a tutto quello che dice perché non riesce (o non vuole) organizzare il discorso in strutture di significato ordinarie, quelle che permettono il quotidiano scambio comunicativo: persino sugli alieni rimane il dubbio che in realtà siano delle «allucinazioni», solamente il frutto della mente delirante del narratore («Non ho capito una roba, dice Loriz, ma ’sti alieni… Esistono?»).
Il mondo che ci viene presentato è quello dentro la mente di uno schizofrenico, con tanto di discorsi dell’io che parla con un altro sé in corsivo. Anche le parole degli altri personaggi ci sono riportate filtrate dal narratore per cui spesso non si riesce ad attribuire una voce a un’origine stabile. Nemmeno il mondo è risparmiato da questo processo di deformazione: quasi nulla è denotato col proprio nome e lalingua diventa mimetica del caos mentale del narratore. Lo stesso statuto dell’io rende ancora più ambigua la questione: l’io narrato di Medusa, sembra non possedere caratteristiche fisiche: il Novecento ci ha sufficientemente insegnato quanto l’identità sia strettamente legata al corpo, quanto la corporeità sia uno strumento di conoscenza, ma il narratore di Medusa sembra non avere un corpo, è pura voce. L’effetto creato è quello di profondo spaesamento per il lettore che non riesce a far ordine nella vita del protagonista.
Questo effetto di spaesamento, variamente creato e declinato, mi sembra una delle caratteristiche principali della narrativa degli anni zero, su una gamma che va dall’autofiction a un libro come Absolutely Nothing di Giorgio Vasta, strano e inclassificabile reportage di viaggio, per arrivare a opere come Medusa.
Non a caso, circa un anno fa, Alcide Pierantozzi su Studio parlava di “New Italian Weirdness” per alcuni romanzi italiani contemporanei non ben classificabili (Il grande animale di Gabriele di Fronzo, Dalle Rovine di Luciano Funetta, Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Giordano Meacci) e citava, in particolare, la collana di narrativa di Tunué curata da Vanni Santoni. Lo stesso Santoni ha più volte dichiarato che non aveva intenzione ideare una collana con un’idea troppo ristretta e selettiva di letteratura, preferendo come criterio di selezione il solo valore letterario. Con il tempo, però, quasi naturalmente, la collana ha assunto una fisionomia ben precisa che si può riassumere nella formula di Santoni stesso «4/5 di realtà, uno di sconfinamento». Sembra stia emergendo, insomma, una corrente tellurica nella letteratura recente che non è più soddisfatta con le rappresentazioni e le convenzioni realistiche (di cui nel 2008 si salutava finalmente il ritorno) e la collana di narrativa di Tunué (così come quella del Saggiatore – ne parlo qui) e la stessa produzione di Santoni ne sono chiari esempi (così come il successo che stanno avendo in Italia autori come Volodine e Cărtărescu o Jeff Vandermeer).
La weirdness di cui parla Pierantozzi (che non è solo italiana) è più che una generica stranezza: spesso è l’effetto di una situazione straniante causata dall’irruzione dell’estraneità nella nostra vita ordinaria. Mark Fisher ha dedicato a questo tema The weird and the eerie, interessantissimo saggio in cui si indaga in che modo l’esterno, l’estraneo irrompe nella comune percezione delle cose, imponendoci di essere diversi o guardare al mondo con un altro occhio, strano e inquietato. Entrambe le categorie condividono una comune fascinazione per ciò che è oltre la percezione, cognizione e esperienza standard. Per Fisher il weird è una specie di perturbante, implicato con il senso dello sbagliato: un’entità o un oggetto weird è così strano da farci sembrare che non dovrebbe esistere, o comunque non dovrebbe stare qui. L’eerie, invece, riguarda la non conoscenza, lo sconosciuto, è un gap nel sapere e ci mostra tutta l’inintellegibilità e l’imperscrutabilità del Reale (l’Area X creata da Vandermeer ne è un esempio perfetto).
L’attrattiva per questi aspetti non è affatto cosa nuova, ma vi è probabilmente un rinnovato interesse negli ultimi anni che si può facilmente collegare al modo in cui vediamo e sentiamo la realtà oggi, qualcosa di assolutamente ingovernabile, mossa da forze invisibili e imprevedibili (il capitalismo, non a caso, è indicato da Fisher come un esempio di eerie). La realtà, come diceva David Foster Wallace a David Lipsky, non è più quella di Tolstoj, la vita è sempre più simile a una «luce stroboscopica, e che mi bombarda di input» e un certo tipo di narrazione realistica, per questo, a molti autori sembra sempre più falsa, perché la vita non è quella roba lì. Ed ecco allora quel quinto di sconfinamento di cui parla Santoni – che può essere di commistione e ibridazione dei generi (inserendo, per esempio, elementi fantascientifici o fantastici in una narrazione realistica), formale, o creando effetti di weird e eerie, appunto. La stessa produzione di Santoni ha fatto dell’ibridazione il suo punto di forza: sia Muro di casse che La stanza profonda sono oggetti narrativi non classificabili che stanno a metà tra romanzo, reportage, memoir e saggio.
Dell’ibridazione fra i generi nella narrativa contemporanea si è scritto e si scriverà moltissimo, ma c’è un aspetto – su cui già Pierantozzi invitava a riflettere – sul quale forse non si è prestata la dovuta attenzione. Mi riferisco a un rinnovato interesse, nella narrativa non prettamente di genere, per l’utilizzo di elementi strani, inquietanti, non completamente comprensibili, per arrivare alla riscoperta di nuove forme religiose e di misticismo, insomma una forma di sconfinamento non solo formale, ma anche immaginativo, potremmo dire ontologico.
Già Michel Houellebecq all’indomani della pubblicazione di Sottomissione dichiarava di percepire un grande ritorno delle religioni. Più di recente, Dean Kissick su Vice UK sottolineava che negli ultimi tempi sta emergendo una nuova controcultura magica, spiegando che la spiritualità e il paganesimo sono dei modi per capire il mondo intorno a noi e il nostro posto al suo interno. Tendenza non passata inosservata nemmeno fra le cattedre di filosofia: Quentin Meillassoux, grande esponente del realismo speculativo, mette bene in luce, in Dopo la finitudine, che il venire meno della metafisica apre a un ritorno alla magia e alle religioni, producendo un «fideismo relativo a una qualsiasi credenza».
Esiste una tendenza di una certa narrativa italiana e non che, forse inconsapevolmente, ha captato questa congerie culturale rispondendovi in modi spesso molto diversi, ma che possono essere tutti accumunati dal tentativo di porre ordine e orientarsi in una realtà sempre più complessa oppure dallo sforzo di ricreare l’effetto che fa stare al mondo oggi attraverso sguardi obliqui, esterni, strani, eerie, soprannaturali, ambigui, contradditori e paradossali che producono effetti di spaesamento nel lettore: 4/5 di realtà, uno di sconfinamento. Proprio Santoni, durante una presentazione a Tempo di Libri, ha dichiarato che in un mondo sempre più complicato e indistricabile «la posizione dell’outsider wilsoniano è forse l’unica che possa garantire uno sguardo», che è un altro modo per dire quanto ho sostenuto fin qui.E non è un caso che spesso si ricorraal fantastico: come già spiegava Todorov ne La letteratura fantastica, il fantastico stimola l’attività interpretativa del lettore, il quale deve porsi delle continue domande sull’effettiva realtà di quanto viene narrato, sulla veridicità del discorso e sull’affidabilità del narratore.
Se si scorre il catalogo dei Romanzi Tunué non si può che confermare l’intuizione: troviamo il protagonista di Dalle Rovine di Luciano Funetta impegnato in strane pratiche sessuali con dei serpenti, che perdono il loro comportamento naturale per diventare lo strumento perverso del piacere del protagonista e poi mezzo con il quale entrerà nell’industria degli snuff movie. Tutto il romanzo crea un’atmosfera in cui realtà e irrealtà si compenetrano, è lo stesso protagonista a dubitare degli eventi a cui assiste: «c’era qualcosa di reale negli avvenimenti della sera prima. Qualcosa di reale, ma non di assolutamente reale. Qualcosa in lui lo faceva pensare alla magia e alla sensazione di un uomo alla fine del mondo».Con la magia e il fantastico gioca, invece, esplicitamente e a piene mani A pietre rovesciate di Mauro Tetti; Lo Scuru di Orazio Labbate è puntellato di elementi fantastici, riti e funambolismi linguistici. Elementi strani che spesso non si sa bene come interpretare si trovano anche nella sua ultima raccolta di racconti Stelle ossee.
Non è da meno l’ultimo arrivato in casa Tunué, Francesco d’Isa con La stanza di Therese, testo ibrido che intreccia romanzo epistolare, saggio filosofico, collage, fotografie e disegni. La stanza di Therese è quello che più esplicitamente affronta di petto il tema del misticismo e della trascendenza: la protagonista, infatti, si rinchiude in una stanza, si isola dal mondo, alla ricerca intellettuale di un dio (con la minuscola), nella speranza di riuscire a cogliere la realtà «al di là della rete di cause» con cui siamo abituati a spiegare il mondo, un mondo sconcertante e vasto e Therese, nelle sue lettere alla sorella, mette in luce tutti i modi in cui tentiamo di difenderci e sopravvivere. Therese è una donna con un dilagante bisogno di comprendere e riconosce che è più facile orientarsi e accettare la realtà se la si sistema in un gioco illusorio di cause. Ma, questo, evidentemente è possibile solamente dal chiuso di una stanza in cui il consorzio umano e sociale è limitato se non annullato: «Dietro la porta della mia stanza ci sono i tormenti del mondo ed è più facile fuggire nel trascendente». È forte in Therese il bisogno di porre un ordine al mondo che percepisce solamente come caos e per questo la sua narrazione procede per argomentazioni rigorosamente logiche, salvo poi venir disturbata da una serie di elementi grafici e visuali che scompaginano completamente la normale lettura di un romanzo epistolare, inserendo una molteplicità di segni che agiscono come elemento straniante (sono disegni, foto, riproduzioni, simboli matematici, cancellature, note a margine, scansioni di citazioni altrui) in grado di ricreare nel lettore il senso di vivere in un mondo paradossale, impenetrabile dall’uomo, di fronte al quale l’unica risposta che Therese riesce a formulare è quella dell’assurdo, in cui tutto è sia sì che no. Paradossale è anche la propria identità, percepita come un limite, un modo per cercare di governare l’agire nel mondo e regolare il rapporto dell’io con gli altri, inevitabile anche nell’isolamento di una stanza chiusa e di cui si percepisce sempre l’irriducibilità.
Il rapporto dell’io con gli altri mi sembra anche la parte più interessante di Medusa, rapporto però vissuto con un forte senso traumatico. Il trauma è la principale causa (ed effetto) del weird e dell’eerie e sembra essere responsabile della disforia del narratore che non riesce a venire a patti con l’estraneità e la caoticità del mondo intorno a sé. L’origine di questo trauma è tanto personale, quanto metafisica: il guaio è essere un individuo, sarebbe tanto meglio essere uno scarafaggio, una medusa. L’uomo è costretto a essere «un concentrato di falsità dovuto a un contatto troppo esclusivo e prolungato con un altro essere ossia all’assenza troppo esclusiva e troppo prolungata di un altro essere». Uno dei problemi centrali per il narratore di Medusa è quello della definizione dell’io e del rapporto con gli altri. Come stabilire una vera connessione e condivisione?
Il gesto banale e ripetuto fino alla feticizzazione di offrire delle Vigorsol a tutti è il germe di un tentativo di condividere qualcosa insieme, di stabilire un contatto con gli altri. Allo stesso modo il gruppo di amici che segue il narratore anche in quelle che sembrerebbero le sue allucinazioni non è che lo sforzo di aprirsi all’altrononostante «il vuoto dietro lo straccio delle cose», nonostante «tutto era colmo del nulla che lascia sussistere i mondi solo per prendersene gioco nel batticarne delle reincarnazioni, vuoto non dietro, ma di sghimbescio rispetto alla faccia assennata dell’essere».
E allora la stessa volontà di scrivere un dizionario di una nuova lingua può essere visto come il tentativo di superare i modi normali di rappresentazione e scambio fra gli esseri umani: se con il vecchio linguaggio non ci siamo riusciti, mandiamolo al diavolo e inventiamone uno nuovo che mandi in «salamoia la realtà» e squarci il muro del reale. Ma alla fine lo scontro con la realtà è troppo duro e non rimane che la scoperta di una verità troppo difficile per essere accettata e detta e non si scopre altro che un nuovo trauma (collegato a una morte, forse a un omicidio), «un esempio di come le cose a volte non». Per questo il dizionario che voleva contenere una lingua aliena e nuova non vedrà mai la pubblicazione e a rimanere sarà soltanto la lingua di uno schizofrenico di fronte al caos del mondo, un mondo sempre più complicato, che funziona in maniera autonoma rispetto all’uomo e resta sempre incoglibile e impenetrabile.
I Romanzi Tunué non sono gli unici esempi di questo tipo di narrativa, ma sono solamente una gamma di uno spettro ampio e variegato: ho citato prima la narrativa italiana del Saggiatore che in vari modi ricerca effetti di perturbante e di nomi potrebbero farsene molti altri ancora. Se ho iniziato e concluso con Medusa è perché mi sembra riassuma bene molte delle caratteristiche che ho cercato di delineare in questo articolo: l’elemento soprannaturale o irrealistico, una inclinazione ironica non fine a se stessa, un certo rapporto con la mistica che si declina attraverso uno sguardo schizofrenico sulla realtà in grado di cogliere molti dei nodi che passano inosservati nel nostro sopravvivere quotidiano, l’inabilità di ordinare l’esperienza attraverso una catena logica di cause-effetti, la costruzione dell’identità in relazione agli altri, e soprattutto: il disorientamento rispetto al testo e rispetto al mondo.