La serie TV più filosofica degli ultimi anni / Il segreto di Stranger Things
C’è una lettura filosofica di Stranger Things, la serie televisiva dei fratelli Duffer disponibile su Netflix, che vorrei provare a proporre. Se non l’avete vista e fate conto di vederla non leggete questo articolo, perché ci sono degli spoiler.
Due parole sull’intreccio. Ambientata in un paesino dell’Indiana nel 1983, Stranger Things racconta di un ragazzino, Will, che viene rapito da una creatura misteriosa sfuggita da un laboratorio dello US Department of Energy; insieme alla creatura che rapisce Will, dal laboratorio fugge anche Eleven, una bambina su cui sono stati condotti esperimenti sul potenziamento neurale e che dunque si trova in possesso di superpoteri come la telecinesi. Eleven aiuterà gli amici di Will nella ricerca del ragazzino scomparso, mentre Will continua a sfuggire alla creatura in uno strano mondo che sembra esistere all’interno o al di sotto del mondo di tutti i giorni.
Semioticamente l’intreccio è costruito sull’opposizione aperto/chiuso: Will viene rapito dalla creatura sfuggita al laboratorio (aperto) e rinchiuso nel mondo sottostante o immanente (chiuso); Eleven, una volta fuggita dalla prigionia (aperto) sembra quasi completamente incapace di comunicare (chiuso); i personaggi parlano tra di loro attraverso dispositivi come i walkie-talkie (aperto) che tuttavia distorcono la comunicazione fino a renderla incomprensibile (chiuso). La dicotomia può essere estesa anche al piano metatestuale se si pensa come il mondo delimitato (nel senso di concluso, controllabile) dei giochi di ruolo a cui si dedicano i protagonisti venga riflesso dall’apparato delimitante (nel senso di codificato, e quindi controllabile) delle citazioni della cultura pop anni 80 che costituiscono il marchio di fabbrica visuale della serie. O, soprattutto, al fatto che Matt e Ross Duffer siano nati entrambi nel 1984, un anno dopo l’inizio della vicenda raccontata in Stranger Things: per loro il mondo intradiegetico resta sepolto in un passato inaccessibile alla memoria individuale.
Freud ha insegnato che dove ci sono apertura e chiusura c’è sempre un segreto, un messaggio cifrato che vuole svelarsi e per farlo ha bisogno di travestirsi da qualcosa di diverso: un sintomo nevrotico, un sogno, un lapsus. Apparentemente il segreto di Stranger Things è manifesto, e può essere espresso con domande semplici del tipo “cosa è successo a Will?”, “chi è la creatura misteriosa?” e via dicendo. Tuttavia, man mano che la serie procede, la domanda si sposta progressivamente verso quesiti di carattere ontologico: esiste un mondo sottostante questo mondo? Quale dei due è il mondo reale? E dunque a un quesito sull’origine delle cose: come è nata la creatura misteriosa? Da dove viene il mondo sottostante, il mondo che conosciamo? Questa, come è evidente, è un’altra maniera di interrogarsi sul fondamento della realtà in un mondo artificialmente costruito (ricordate il remix di citazioni anni 80 prese da un passato che gli autori non hanno vissuto in prima persona). In altre parole filosofia postmoderna allo stato puro.
Nella lettura che Abraham e Torok danno dell’uomo dei lupi freudiano (The Wolf Man's Magic Word: A Cryptonymy, University of Minnesota Press, 2005), il luogo del segreto, chiamato la “cripta”, trasuda il significato che custodisce: è un luogo poroso, che protegge e svela al tempo stesso. In Stranger Things quest’opera di comunicazione cifrata è affidata a due fattori: da un lato, più classicamente, al dispositivo esoterico dei superpoteri di Eleven, che collegano il mondo al di qua con il mondo al di là; dall’altro dal dispositivo tecnologico dell’elettricità: è attraverso le lampadine che Will comunica con la madre in un primo momento, attraverso le onde radio (sintonizzate dall’apparecchio ricevente-trasmittente del cervello aumentato di Eleven) in una seconda fase.
Il contenuto di questa comunicazione cifrata segue lo stesso schema che abbiamo delineato sopra: comunica dove si trova Will e, così facendo, comunica la natura del mondo sottostante il mondo, cioè della realtà ultima delle cose.
Quello che hanno da dire i fratelli Duffer sulla realtà ultima delle cose è piuttosto interessante e si manifesta in due scene che avvengono, significativamente, entrambe nel corso di una puntata intitolata The Body, il corpo. Ora, il titolo della puntata non è solo un richiamo all’oggetto reale per eccellenza, cioè il corpo umano, ma anche una citazione di un’opera di fantascienza che ha più di un punto in comune con Stranger Things e cioè The Body Snatchers. Il libro di Finney, e poi anche il più famoso film di Don Siegel (rispettivamente del 1955 e 1956) sostenevano quella particolare forma di relativismo radicale che poi sarebbe diventata il marchio di fabbrica della paranoia postmoderna: le cose non sono come sembrano; dietro l’apparenza (degli esseri umani rimpiazzati dagli ultracorpi, del sogno americano) c’è una realtà ben più inquietante. Qualcosa di diverso e oscuro, ma pur sempre qualcosa.
Nella quarta puntata di Stranger Things, invece, lo sceriffo Jim Hopper si reca all’obitorio dove si trova il corpo di Will, protetto da una guardia (chiuso) e con un coltello lo squarcia dall’ombelico fino allo sterno (aperto). Quello che trova all’interno è cotone.
Nella stessa puntata, la madre di Will vede il figlio nel muro del soggiorno (questa volta la citazione è il Lynch di Twin Peaks: ricordate Jodie intrappolata nel comodino dell’albergo?). Inizialmente crede che si trovi dall’altra parte del muro, ma quando esce di casa non c’è altro che la casa con le sue pareti – quella che potremmo chiamare la nuda realtà. Se non c’è altrove, pensa Joyce, ci deve essere un dentro, un’interiorità: quindi con un’accetta colpisce il muro.
Dall’altra parte del muro trapela la luce del sole – un altro esterno. Il muro (chiuso) una volta forato (aperto) non svela niente: non solo non c’è altrove, ma non c’è nemmeno interiorità. Il fondamento ultimo delle cose esiste (lo provano i messaggi cifrati di Will, la creatura misteriosa, persino i poteri paranormali di Eleven) ma è inaccessibile. I filosofi realisti direbbero: radicalmente ritirato (withdrawn). Se letta secondo questa interpretazione di base, penso si possa dire che Stranger Things è la serie tv più “filosofica” degli ultimi anni, almeno dai tempi della prima stagione di True Detective.