Il cancello / Francesco Scarabicchi. Versi in punta di voce

30 Novembre 2018

Chi ancora non conoscesse la poesia di Francesco Scarabicchi (anconetano, classe 1951), ha una nuova occasione per accostarsi alla sua opera con questa riedizione di Il cancello appena uscita per le Edizioni peQuod (con un saggio di Antonio Tricomi). 

Due anni dopo la ripresa di un altro libro importante (Il prato bianco) pubblicato nel 1997 da L’Obliquo di Brescia e rieditato nel Gennaio 2017 nella “Bianca” Einaudi, Il cancello raccoglie liriche scelte da due precedenti raccolte del poeta: La porta murata (1982) e Il viale d’inverno (1989).

Scoprirà, il nuovo lettore di Scarabicchi, un poeta lontanissimo da qualsiasi intonazione retorica e da qualunque volo declamatorio e invece devoto alla “piccola vita” di cose e luoghi e minimi ricordi. Questa attitudine (insieme lirica ed etica) per ciò che è apparentemente irrilevante, non deve però far pensare a una poetica degli oggetti, a un “partito preso delle cose” – per dirla con Francis Ponge – che escluda “ideologicamente” da sé l’umana presenza. Sentire e patire umano sono presentissimi in queste liriche; soltanto, si tratta, anche qui, di presenze silenziose, quasi, si direbbe, di presenze che sono tali perché segnate da una loro costitutiva discrezione, da un “amor absentiae” che ha, come suo destino, la cancellazione e la scomparsa (l’esperienza dell’orfano è centrale nella poesia – come nella vita – di Francesco Scarabicchi). Si legga, in questa direzione, un componimento come “Un cantonale”: 

 

         È stato nel suo mondo

               un po’ da parte,

               un cantonale

               che non dà disturbo 

 

               fin quando se n’è andato

               dove niente, a nessuno, 

               è necessario.

 

Due strofe e sette (brevi) versi che sono un ritratto in cui sta – vista dal “dopo” – una vita intera.

Altre volte è l’accostamento (anzi, la sovrapposizione) tra vita della cosa e vita della persona a dire implicitamente la sorte che è del Tutto, messe da parte le troppo facili distinzioni fra esseri “animati” ed “inanimati”:

 

A lungo andare

si usura la cremagliera,

saltano tutti i denti

come per chi, una sera,

se ne andò via in discesa

muto sulla barella

sotto quel poco cielo

che da Via Caraceni

porta…

 

dove i particolari realistici (“barella”, “Via Caraceni”) non si oppongono ma anzi confermano l’universale verità della decadenza e della morte: i “denti” appartengono all’uomo come alla cremagliera, la vecchiaia è della macchina come dell’umano, e la sofferenza pure…

Il poeta, quindi, come sismografo dell’universale sentire ma anche come resurrettore (si perdoni il neologismo) di quanto è scomparso o destinato a sparire, preda del Tempo (Tempo-Oblio e Tempo-Morte); poeta, anche, come hôte (nel duplice significato del termine in francese: ospitante e ospitato) perché Poesia è il luogo per eccellenza dell’ospitalità sulla Terra. Attraverso l’attenzione-amore del poeta, le presenze più semplici (e più delicate) hanno diritto a una traccia che attesti “Siamo state anche noi”, e se il tempo che loro si addice è inevitabilmente il passato, la traccia poetica testimonia, essa sola, che sono accadute. In questo senso, con ragione Pier Vincenzo Mengaldo ha rilevato in Scarabicchi uno “schiacciamento del presente sul passato” per cui tutto è come riemergesse dal nulla a chiedere di essere ri-visto, ri-vissuto, ri-ascoltato.

 

 

Risulterà ora naturale la scelta della breviloquenza come tratto di stile saliente di questo libro e di tutta la produzione del poeta di Ancona, a partire dai suoi inizi, da La porta murata (Residenza, 1982) che meritò l’attenzione (e la prefazione) di un altro grande poeta marchigiano: Franco Scataglini (“Come riavvolgere il tempo su se stesso, come fargli rendere la plenitudine della cristalliera ora finita nella rosa sconvolta delle sue briciole taglienti?” si chiedeva il prefatore a proposito di uno dei componimenti più belli di quel libro, ora riportato in Il cancello a pagina 11, con alcune significative varianti rispetto al testo di trentasei anni fa). Breviloquenza – si diceva – come conseguenza inevitabile di quella poetica delle piccole cose, luoghi, manufatti, persone accomunati dalla pietas dell’autore. Correlativo stilistico della discrezione con cui i “soggetti” sono evocati dal poeta, la brevità di molti testi di Scarabicchi, di molti dei suoi versi e la parsimonia delle sue rime fondano la tonalità con cui leggere i suoi libri. È invero come se le presenze di cui quei testi pullulano chiedessero di essere “trattate” con la leggerezza e il tatto propri di chi non si trattiene troppo a lungo, di chi per educazione non insiste.

 

E educatamente “leggeri” sono anche i ripensamenti, gli spostamenti metrici, la mutata punteggiatura, le varianti minime apportate a queste poesie nel corso dei decenni , alla ricerca di una perfezione formale che confermi la perfezione e la compiutezza dell’esistenza di quelle delicatissime presenze (la sottrazione di un punto esclamativo forse avvertito come troppo invadente, un aggettivo che riaggancia nello stesso verso il “suo” sostantivo, un “de le palme” che rientra in un più prosaico “delle palme” ecc.). In conclusione, un poeta che procede molto più per sottrazione che per accumulo, un dettato “onesto” e misuratissimo che solo può restituire onore e modestia a ciò che “tocca”: sempre con garbo, con cura, con attenzione, perfino con tratti cerimoniali, quasi l’autore avvertisse la necessità di un preliminare inchino davanti a ciò di cui il verso sta per dire. Nel segno di una precarietà, di una coscienza dell’impermanente, di una calma malinconia che segnano anche uno dei poeti più amati da Francesco Scarabicchi: l’Antonio Machado delle Soledades, da lui tradotto in un’edizione – crediamo – ormai difficilmente reperibile: Il seminatore di stelle (Sestante, 1993). 

“Di ogni cosa, con gli anni, / si perdono la porpora e la polvere”: Scarabicchi o Machado tradotto da Scarabicchi? Al lettore attento la giusta risposta.

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