Giulio Paolini alla Fondazione Rovati
Le immagini che scorrono sul display del nostro mobile device e quelle a pop-up che fanno «cucù» dal margine dello schermo ci spiano? L’immagine digitale è composta da una parte algoritmica e da una parte visiva (ciò che l’algoritmo fa apparire temporaneamente sul display); quest’ultima fa da esca ad altri procedimenti di calcolo utilizzati dai sistemi di controllo e sorveglianza per estrarre informazioni. Stiamo assistendo a una scomparsa del soggetto della visione e contestualmente alla nascita di un nuovo sguardo, quello del dispositivo che ci guarda e controlla.
L’artista Giulio Paolini aveva presagito la possibilità di questa scomparsa. Non poteva naturalmente farlo in riferimento ai problemi posti dai procedimenti di calcolo applicati a tecnologie impensabili negli anni Sessanta, ma a un’indagine che l’arte in quegli anni ha condotto sui propri mezzi e sistemi di rappresentazione. «Le opere ci guardano. Sono loro che guardano noi (e non, questa volta, viceversa)», scrive l’artista in occasione della mostra personale del 2003 alla Fondazione Prada, fissando per iscritto un suo pensiero seminale. La stessa frase, con una leggera variante: «Le opere ci guardano. Sono loro che guardano noi, e non viceversa» è pubblicata anche nel numero 25 della rivista “Segnature” Giulio Paolini. Prova generale / Dress Rehearsal (www.segnature.eu) dedicato all’opera dell’artista (p. 40). Il numero è stato presentato il 6 giugno scorso presso la Fondazione Luigi Rovati, con una conversazione alla quale hanno partecipato l’artista, la curatrice del progetto editoriale Paola Lenarduzzi e Andrea Cortellessa, che ha svolto anche la funzione di moderatore.
Il critico letterario ha definito questo numero di “Segnature” «l’occasione di una condivisione al di là del tempo» per gli incontri avvenuti tra i tre relatori in momenti diversi. La presentazione della rivista ha trovato quindi un contesto più che mai appropriato, essendo la Fondazione Luigi Rovati un luogo in cui l’intermittenza del tempo lega reperti antichi all’arte contemporanea, come l’opera site-specific realizzata dall’artista al piano Nobile dell’edificio che ospita la fondazione. L’incontro ha sviluppato il tema principale che regge la poetica di Paolini: la rinuncia alla soggettività del punto di vista e – sottotraccia – la scomparsa del soggetto della visione, portando in un presente incerto e preoccupato dall’invadenza delle nuove tecnologie un passato prossimo carico di aspettative andate deluse, e anche un passato remoto, che nella poetica dell’artista ha numerose risorgenze figurative.
Nella sua opera la rinuncia alla soggettività del punto di vista è infatti posta in rapporto con un passato che ritorna – è proprio il caso di dirlo – ad occupare la scena. L’immagine scelta per la copertina di “Segnature”, Giulio Paolini. Prova generale / Dress Rehearsal rappresenta una mano che scosta un sipario teatrale per mostrare: «un’altra dimensione senza pesi e misure» (pag. 2). Le riproduzioni delle opere dell’artista dialogano con i suoi testi (aforismi e brevi pensieri) in una gabbia grafica che molto deve alla sua formazione (nasce come grafico) e all’intelligenza visiva di Lenarduzzi.
Cortellessa ha animato e orientato la conversazione portando l’attenzione su un secondo tema strettamente correlato al primo: il gioco di sguardi. Riferimento imprescindibile a questo riguardo è il quadro Las Meninas di Diego Velàzquez, con l’enorme tela di cui vediamo solo il rovescio, il pittore che studia il soggetto, alcune dame raggruppate attorno all'Infanta Margarita, una nana, un mastino e altre personalità della corte. Quasi tutti guardano verso chi sta al di là del quadro: i due regnanti Filippo IV e Mariana d'Austria, riflessi in uno specchio sulla parete di fondo.
A questo dipinto Paolini ha dedicato la stampa fotografica su tela emulsionata L’ultimo quadro di Diego Velàzquez (1968), affrontando il problema di quanto è reso invisibile dalla struttura del quadro, in una reciprocità di sguardi perfettamente sintetizzata in un’altra sua stampa su tela emulsionata: Giovane che guarda Lorenzo (1967). L’opera ci guarda. Se incontra lo sguardo di qualcuno, i due sguardi si uniscono per coalescenza formando una cosa sola. Questa unione trova nel «raggio di luce» (pag. 40) di plotiniana memoria il suo mezzo, ma il più delle volte lo sguardo dell’opera non è ricambiato da quello dello spettatore, o dell’autore: «Le opere ci guardano. Sono loro che guardano noi e non viceversa», e questo pone un problema. L’artista lo risolve con un'acrobazia che abbiamo visto essere centrale rispetto alla sua poetica: «Il punto di vista deve saper rinunciare alla propria soggettività» (pag. 12).
L’immagine C’è un posto vuoto pubblicata a doppia pagina (pagg. 10-11) sembra fornire un’indicazione su come sia possibile rinunciare alla soggettività del punto di vista. La costruzione prospettica della scena, in cui compare una sedia vuota rivolta verso una squadratura, entra in rapporto con altre linee che non hanno funzione prospettica. Queste linee sembrano essere residui di ortogonalità, che è sempre presente nell’opera di Paolini (nelle sue squadrature in modo esemplare) e che configge con il disegno prospettico. In questa rappresentazione dello spazio attraverso il disegno convivono codici visuali diversi tra loro.
Per afferrare il senso di questa conflittualità è necessario ripercorrere un tratto della storia del disegno.
Nel De architectura Marco Vitruvio Pollione distingue tra scaenographia (da alcuni interpretata come resa illusionistica delle forme attraverso una costruzione pseudo-prospettica elaborata nell’antichità greco-romana), ichnographia (pianta) e orthographia (alzato o elevazione). Se la scaenographia presuppone un punto di vista, cambiando il quale cambia anche l’immagine ottica di ciò che viene osservato, l’ichnographia e l’orthographia, la doppia proiezione ortogonale, sistematizzata in termini proiettivi moderni da Gaspard Monge, esclude la soggettività del punto di vista. Se la prospettiva salva il soggetto perdendo il suo oggetto, perché infiniti sono i punti di vista dai quali lo si può osservare, la proiezione ortogonale fa il contrario: salva l’oggetto perdendo il soggetto perché il punto di vista è all’infinito.
Anche l’opera Disegno geometrico del 1960, che rappresenta un punto fermo della poetica di Paolini, sembra voler fare a meno dell’artista che osserva. La squadratura geometrica, che precede la realizzazione dell’immagine grafica o pittorica, rimanda a un prima, rimanda a ciò che «preesiste all’intervento dell’artista» (Giulio Paolini, catalogo della mostra alla Fondazione Prada, Milano 2003, pag. 30).
Bisogna cercare le risposte alle domande poste dai disegni di Paolini nel disegno stesso, non quello che la mano traccia sul foglio, ma quello che «altri si è nella mente immaginato, e fabricato nell’Idea». L’opera dell’artista sta nel solco tracciato dall’Accademia e Compagnia dell’Arte del Disegno, nel solco di una tradizione che conferisce alla “concettualità” della sua opera un tono, una coloritura che manca a molte altre, inaridite dal linguaggio e dai suoi concetti che “fabbricano” diversamente «nell’Idea». L’opera di Paolini è forse più ideale che concettuale. A questo riguardo vale la pena di osservare il ruolo che conferisce alla macchia (pagg. 16-19). È noto che in questo processo di fabbricazione, teorizzato in seno all’Accademia, la macchia costituisce la «prima sorte di disegni».
Anche “Segnature” trova le risposte alle domande poste dalla sua anomalia nel proprio metodo di “fabbricazione”. Seguendo l’idea di realizzare un libro sulla metodologia della progettazione grafica, Lenarduzzi rovista nel suo archivio dove trova materiali vari che inizia a comporre. Strada facendo nota che sono i materiali stessi a suggerire un percorso, una narrazione visiva e le viene in mente che potrebbe chiedere agli artisti di fare altrettanto. Inizia così l’avventura di una rivista che non ha una cadenza, che viene pubblicata quando è possibile e quando il numero è pronto. È una rivista anomala “divulgata a voce e distribuita a mano”, che è anche il pre-testo di un incontro, la sua occasione, come si diceva. Peraltro l’incontro di Lenarduzzi con Paolini avviene nella circostanza della composizione del libro Giulio Paolini. Era finora, edito da Johan & Levi nel 2022, di cui Lenarduzzi ha curato il progetto grafico.
Incalzato dalle riflessioni di Cortellessa., che si chiudono con delle domande, Paolini risponde: «non oso commentare spiegazioni così belle e convincenti»; talvolta però risponde spiegando a sua volta. Riferendosi all’immagine C’è un posto vuoto, l’artista racconta che questa è stata concepita per aderire all’opera editoriale che gli è stata sottoposta e che ha sempre, come in tutti i libri, la scena che si apre sulla doppia pagina: «In questa scena cosa vediamo? Vediamo una poltrona vuota […] l’autore non c’è, l’autore ci dovrebbe essere perché c’è una seduta a lui riservata, ma non la occupa perché ha capito che la sua voce personale, singola è non solo inutile ma anche abusiva. C’è un posto vuoto, questo è il titolo dell’immagine. Un posto vuoto che trova davanti a sé l’ipotesi di un’immagine circoscritta, cioè di uno spazio ottenuto con tanto di squadratura e prospettiva». Troviamo in questo commento dell’artista riferimenti alla spersonalizzazione del punto di vista (dell’autore, così come dello spettatore), al rapporto tra prospettiva e squadratura (qui intesa come operazione geometrica preliminare ad ogni disegno o dipinto e contigua alla logica ortogonale) e soprattutto l’adesione al formato dell’opera editoriale. L’incontro tra Paolini e Lenarduzzi avviene in un mondo dove le idee nascono dalla squadratura di un foglio, dal combinare materiali sulla base di relazioni compositive, da una doppia pagina, ovvero da una logica grafico-visuale che ha un rapporto con la letteratura (l’opera di Paolini ha una forte inflessione letteraria oltre che filosofica) senza per questo essere illustrativa.
“Segnature” N. 23 è una Prova generale di tutto ciò. Le opere dell’artista sono prove, verifiche, accertamenti, domande «sul come e il perché un quadro potrebbe esistere» in rapporto a un punto di vista che rinuncia alla propria soggettività. Paolini è stato in un certo senso profetico, senza cogliere l’aspetto tragico della scomparsa del soggetto della visione perché troppo in anticipo rispetto ai tempi. La sedia vuota ha il carattere malinconico di Melencolia I, la tragedia non è ancora in scena.