Il divino e le sue forme
In Le forme del divino. Problemi di arte sacra tra prima modernità e Novecento (Il Mulino, Bologna, 2024) lo storico dell’arte Michele Dantini esamina la “natura morta” Ostriche, frutta e vino (1620-1625 ca.) dipinta da Osias Beert il Vecchio, portando l’attenzione sul rapporto tra la rappresentazione delle ostriche sul piatto di peltro e la parabola della perla in Matteo: «Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (13, 45-46). La descrizione del mollusco dalle apparenze «diafane e circonfuse di luce» è raffinata e ricca di riferimenti testamentari e teologici. Nello stesso dipinto compaiono dei «dolcetti dalle forme di manna» che l’autore riferisce al libro dell’Esodo, articolando un brillante ragionamento sul «“reimpatrio” del cristiano», prefigurato da quello di Israele.
Il dipinto di Beert è un’immagine a sostegno della memoria e della devozione?
Il primo capitolo Mense terrene e mense celesti è dedicato al sottogenere della “natura morta” con temi di cibo, nel quale Dantini ravvisa una forma privata di meditazione, aggiornata ai modi della Devotio moderna e diversa dalla preghiera liturgica. Le “nature morte di sfoggio”, i “quadri di buffet”, le “tavole imbandite” (in prevalenza) fiamminghe, tedesche e olandesi del primo Seicento sono intese dallo storico dell’arte come «quadri di meditazione». Dantini mette qui in discussione l’interpretazione esclusiva delle nature morte come «apologie del consumo», elevandole a iconografie religiose. Lo fa articolando una critica ragionata, storico-filosofica, della ricezione italiana del saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, pubblicato nel 1936, e di quanti hanno tratto da questo testo di Walter Benjamin una scolastica buona per tutte le stagioni, rimuovendo la circostanza che il testo benjaminiano è strumentale a una battaglia politica, e non ha né vuole avere efficacia “universale”. Dantini libera così l’«aura» dell’opera d’arte dall’interpretazione meccanicamente funzionalistica che la relega a espressione artistica degli interessi ideologici della classe dominante. Concepisce la propria ricerca, di cui Le forme del divino costituisce il più recente avanzamento, come un’«archeologia del contemporaneo», in particolare un’archeologia del contemporaneo considerato nelle sue amnesie e rimozioni. Una ricerca da tempo impegnata a ritrovare la plausibilità di una dimensione di umanità e pietà nelle immagini, mettendo in dubbio la validità per così dire “universalistica” della tradizione astratto-concettuale novecentesca (“avanguardia”, “neoavanguardia”, etc.), che, lungi dall’essere appunto “universale”, si inscrive in una storia (artistico-religiosa) di lungo periodo precisamente situata e situabile (la storia dell’iconoclasmo protestante).
Le forme del divino s’inserisce, nell’ottica della World Art History, nell’attuale dibattito sulle implicazioni di lungo periodo dell’iconoclasmo protestante e sul rapporto tra arte sacra e arte contemporanea, che conta diversi contributi (James Simpson, David Freedberg, Ernst Gombrich, più di recente Dave Hickey et al.; e vale la pena qui ricordare anche Hans Belting per le sue ricerche sull’icona).
Tra gli studi sul rapporto tra arte sacra e contemporanea possiamo annoverare anche altri contributi. Nel volume Lo strano posto della religione nell’arte contemporanea (Johan & Levi, Monza, 2022) James Elkins descrive alcune esperienze spirituali private, e in un certo senso “ribelli” rispetto alle pratiche religiose istituzionalizzate. Mauro Zanchi ha pubblicato uno studio sull’installazione Site-specific I Sette Palazzi Celesti, realizzata nel 2004 da Anselm Kiefer per la Fondazione Pirelli Hangar Bicocca, dedicando particolare attenzione al rapporto tra la mistica ebraica e le sette torri. Riflettendo su un paragone proposto da Kiefer per l’opera The Seven Palace del 2002, Zanchi scrive: «l’artista tedesco avvisa che i palazzi celesti possono trasformarsi in gabbie, in libri bruciati, in carri armati di macerie-scale, in luoghi di fantasmi, in lager, in torri perforate da stelle cadenti o da bombardamenti aerei. Un’ascesi discendente, o una discesa ascendente». Il saggio è corredato da un’intervista a Kiefer (I sette Palazzi Celesti di Kiefer, Postmedia Books, 2024).
Anche l’attività espositiva contribuisce ad alimentare il dibattito. In questi giorni sono in corso due mostre: Chiamare a raduno. Sorelle. Falene e fiammelle. Ossa di leonesse, pietre e serpentesse di Chiara Camoni alla Fondazione Pirelli Hangar Bicocca (fino al 21 luglio 2024) e QUEM GENUIT ADORAVIT di Manuele Cerutti alla Fondazione Maramotti (fino al 28 luglio 2024). Il sociologo Gian Antonio Gilli, che studia l’esperienza di luogo in rapporto ad alcune pratiche ascetiche, ha scritto un testo di presentazione per entrambe le mostre.
Dantini partecipa al dibattito con un saggio molto articolato, dedicato al rinnovamento dei generi dell’arte sacra tra Cinquecento e Seicento, prestando particolare attenzione alle origini della “natura morta”, «che dovremmo invece chiamare “natura viva”, o “redenta”, o “risorta”» (p. 15). Nel suo studio le nature morte si emancipano dalla loro interpretazione in chiave naturalistica, che «rimuove il piano religioso, con l’intricata trama di riferimenti simbolici» (p. 34), proponendo così, attraverso un’ampia ricostruzione del contesto considerato sotto profili teologici, ecclesiologici, devozionali e infine artistici, di sottrarre le “nature morte” (in particolare le Pronkstilleven olandesi di epoca barocca) a un’interpretazione riduttiva di tipo sociologico, diffusasi nella critica d’arte francese di metà Ottocento e consolidatasi ancora di recente.
Nel secondo capitolo: «Amore attivo». La Madonna sistina in Fëdor Dostoevskij Dantini delinea l’interesse spirituale («pneumatologico») di Dostoevskij per il dipinto di Raffaello, evidenziando la critica che questi rivolge «alla nozione restrittiva di “artisticità”» contenuta nella pedissequa riproduzione della realtà (p. 115). In questo importante capitolo si “rammemora” l’intera tradizione nicena a fondamento della teoria cristiana dell’immagine e si pone il problema del passaggio dall’icona all’arte moderna; o se si preferisce del possibile “rinnovamento” dell’icona – «pneumatologico» appunto, e non stilistico. L’indagine è apprezzabile per la cura con la quale si esaminano e collegano le fonti. Interessante la disamina che porta alla luce il modo in cui Dostoevskij tratta le «idee» come «immagini» nei suoi romanzi. Per lo scrittore russo, che costruisce vere e proprie “icone testuali”, la Madonna sistina è fonte d’ispirazione spirituale. Le implicazioni storico-artistiche cadono in secondo piano.
Dantini muove i primi passi nel capitolo successivo, dedicato ai Quaderni neri di Martin Heidegger e al suo interesse per Dostoevskij, dal superamento di una concezione eroica dell’artista. Per il filosofo tedesco, nell’arte si compie l’incontro tra il divino e l’umano, se non che, nell’epoca dell’«abbandono dell’essere», l’arte diventa «chiacchiera» irrilevante. Attraverso un accurato studio dei taccuini di Heidegger, lo storico dell’arte giunge all’ipotesi che le radici del modo in cui il filosofo concepisce la bellezza affondino nella patristica in lingua greca e nella letteratura russa del secondo Ottocento, che ne conserva i tratti. Questa bellezza non è riconducibile a categorie estetiche, ma a un’esperienza spirituale per più versi comparabile (mutato ciò che dev’essere mutato) all’esperienza cristiana della Grazia; e tale da trovare la propria collocazione nel punto di intersezione tra arte, filosofia e religione.
Da qui il passaggio a Pavel Aleksandrovič Florenskij è inevitabile. Al teologo, presbitero russo della Chiesa ortodossa, fisico, matematico, filosofo, elettrotecnico e poeta (condannato dal Commissariato del popolo per gli Affari interni dell’Unione Sovietica con la falsa accusa di propaganda trockista controrivoluzionaria, e ucciso l’8 dicembre 1937 con un colpo di arma da fuoco alla nuca) Dantini dedica il quarto capitolo, dipanando il tema teologico della bellezza con riferimento al pensiero dei Padri della Chiesa, nel quale rifluiscono il medio e il neoplatonismo. Alla critica mossa da Celso, che accusava i cristiani di giustificare irrazionalmente la loro dottrina usando impropriamente i contenuti della filosofia greca, i Padri della Chiesa risposero filosoficamente, intrattenendo col fondamento mistico della loro religione un rapporto ambivalente (il fondamento cristologico della dottrina delle immagini è stabilito con grande chiarezza dai Padri in occasione dei due Concili di Nicea 2 e Quinisesto). Nella replica cristiana il teologo e filosofo Origene impugnò la stessa arma sfoderata da Celso, introducendo nel cristianesimo la sottigliezza del logos metafisico. La filosofia da tempo aveva fornito con l’etica socratica, l’atarassia stoica, l’estàtheia epicurea delle ricette alle domande fondamentali poste dall’esperienza del dolore e della morte, sottraendole alla giurisdizione misterica della fede. Molti dei Padri della Chiesa attinsero dalle Enneadi di Plotino i temi della natura spirituale dell’anima e i fondamenti speculativi del «Logos eterno», sviluppando il tema della «luce increata» nella quale risiede la bellezza. È un crogiolo nel quale ribolle anche il pensiero di Florenskij.
A questo contesto culturale e religioso dobbiamo riferire l’«irraggiamento incessante» di cui scrive Dantini a proposito della luce taborica che trasfigura e che si manifesta attraverso la liturgia, concepita come «sintesi delle arti», ovvero come opera d’arte totale. L’ortodossia stessa per Florenskij è una «particolarissima forma d’arte». Nella serie di lezioni Filosofia del culto tenute a Mosca nel 1918 distingue nettamente tra estetismo e teurgia. L’arte si dissocia dall’estetica per svolgere una funzione teurgica inclinata verso la gnosi.
Fili sottili legano gli argomenti trattati nei diversi capitoli. Lo storico dell’arte ricongiunge il primo capitolo al quarto citando Florenskij, che associa l’immagine di Dio splendente a una perla preziosa (p. 163). Mi riferisco alla parabola di Matteo di cui si è detto a proposito delle ostriche nella “natura morta” dipinta da Osias Beert. Dantini lega così la perla che va estratta dalle macerie di una cultura religiosa, frantumata dalla persecuzione antireligiosa bolscevica, al «rimpatrio» del cristiano. Questi fili percorrono l’intero testo cucendo tra loro capitoli e paragrafi. Nel fare ciò richiama spesso Dostoevskij, anche nel capitolo dedicato al film Il Vangelo secondo Matteo girato da Pier Paolo Pasolini nel 1964.
Dantini osserva come la frequentazione dell’opera letteraria del romanziere russo abbia integrato le conoscenze teologiche di Pasolini. Ritornando sui luoghi di «manifestazione e illuminazione» del divino e, implicitamente, sul rapporto che Dostoevskij intrattiene con le icone, lo storico dell’arte si sofferma ad esaminare lo «sguardo orante» di Giuseppe e degli Apostoli, ricambiato da Gesù. In questa reciprocità di sguardi, o meglio, nella riflessione pasoliniana sulla Bellezza “storica” e “incarnata”, capace di chiamata e “conversione”, Dantini ravvisa le origini dell’interesse di Pasolini per Cristo: che è interesse sì religioso, ma insieme estetico e (alter-)politico. La posizione di Pasolini è vivacemente iconodula, memore di una lunga storia di dibattiti attorno alle immagini sacre. Il film trapassa segretamente dal piano storico al piano teurgico.
Il Vangelo secondo Matteo è un’opera d’arte sacra?
Dantini è riuscito ad emancipare il problema dell’“aura” dal riduzionismo sociologico di Benjamin? Ha riposto questo problema in seno alla tradizione culturale, di cui Dostoevskij è un testimone?
Sono domande alle quali non è facile rispondere.
Senza dubbio la sua analisi delle tradizioni iconodule di Oriente e Occidente sottopone all’attenzione del lettore colto (questo è il pubblico al quale si rivolge) un aspetto dell’anti-esteticità novecentesca, affatto diversa dall’indifferenza estetica di Marcel Duchamp, che ha influenzato largamente l’arte contemporanea dagli anni Sessanta in poi. In Le forme del divino l’arte si dissocia dall’estetico gettando una nuova luce sull’eredità artistica che il Novecento ha consegnato al presente.