Dolore e bellezza del mondo / Gli ottant'anni di Claudio Magris
“Il mondo è ciò che accade”, scriveva Ludwig Wittgenstein, prigioniero di guerra a Cassino, nel Tractatus Logico-Philosophicus, il libro che segna il punto di crisi del sogno di ordinare la realtà. Mi ha sempre incuriosito e commosso la capacità di Claudio Magris di sorprendersi davanti ai fatti che accadono nel mondo: gli episodi di cronaca spicciola, truci e ridicoli, che leggiamo distrattamente sui quotidiani, le piccole epifanie che illuminano le nostre giornate, e soprattutto le goffe disavventure di cui lui stesso è stato protagonista. Episodi apparentemente insignificanti, minime odissee quotidiane a lieto fine di cui lo stesso Magris è vittima e insieme colpevole, attore e spettatore, e soprattutto straordinario affabulatore, in racconti spesso epici ed esilaranti.
È un'ingenuità che affonda le radici nell'adolescenza: l'era felice in cui si scopre l'incanto del mondo, l'età della libertà spensierata e senza tempo, la stagione delle beffe innocenti e crudeli che ama raccontare, anche queste con scanzonata leggerezza.
Questa dote può sorprendere, in uno studioso dalle letture sconfinate e profonde, in uno dei rari intellettuali sopravvissuti al crollo della ragione e delle ideologie, in uno scrittore che ha fatto della tragedia e degli orrori della storia contemporanea il fil rouge della sua opera narrativa, in un autore che con uno dei suoi libri più belli, Danubio (Garzanti, 1986, scritto su sollecitazione dell'amico Alberto Cavallari, all'epoca direttore del “Corriere della Sera”), ha inventato un genere che non è né saggio né romanzo né autobiografia ma tutto questo insieme, in maniera insieme sofisticata e semplice.
Claudio Magris, nel suo percorso, è sempre riuscito a mettere insieme l'episodio in apparenza insignificante e l'affresco storico, il dettaglio cancellato dalla nostra distrazione e i grandi temi morali e politici, il grande e il piccolo. Non a caso il suo libro più personale – centrato sulla sua Trieste – si intitola proprio Microcosmi (Garzanti, 1997, Premio Strega), dove il destino personale con i suoi piccoli o grandi significati viene illuminato per frammenti sullo sfondo di paesaggi più ampi, a cercare un senso all'uno e agli altri. Perché questa sorpresa di fronte al mondo impone ogni volta una domanda: non serve mai a confermare un sistema, o un ordine, ma lo interroga, lo mette in discussione. Che sia bello e sublime, o spaventoso come gli orrori che la vita ci getta addosso e ci obbliga ad attraversare con dolore.
Un'ingenuità quasi fanciullesca potrebbe portare ad assecondare il flusso della corrente, adeguarsi alle mode, oppure a un ribellismo senza requie, a un vagabondaggio infinito, come L'infinito viaggiare (Mondadori, 2005) a cui allude un altro dei suoi titoli. Invece c'è un nucleo forte a far da contrappeso a questa apparente leggerezza. È una pietas mai connivente, una religiosità libera e mai esibita, e insieme un nucleo forte di valori, che non si possono esplicitare se non banalizzandoli, che arrivano forse dalla lezione di uno dei suoi maestri, il poeta di Grado Biagio Marin. È questo fuoco, granitico ma nascosto, a dare coerenza a questa rotta, a far da perno a questa inquietudine.
Perché la sua è un'inquietudine che si percepisce subito, a livello fisico. Febbrile, in genere allegra, quasi contagiosa. Può trovare una forma solo provvisoria, in un'opera o in un ruolo pubblico (come la carica di senatore per il centro sinistra, sopportata con l'insofferenza di uno studente ribelle per un paio d'anni, tra il 1994 e il 1996, e poi abbandonata).
La persuasione e la rettorica sono in un equilibrio precario, sempre sull'orlo della catastrofe o del silenzio. Anche gli eroi dei suoi libri, i suoi possibili alter ego, difficilmente trovano pace. In Illazioni su una sciabola (Studio Tesi, 1984), i cosacchi, feroci alleati di Hitler, si illudono di potersi reinventare una patria in Friuli ma poi vengono venduti dagli inglesi a Stalin. In Un altro mare (Garzanti, 1991) il grecista Enrico Mreule, amico di Carlo Michelstaedter, sospeso tra l'amore per la vita e l'impossibilità di viverla, fugge per fare il gaucho in Patagonia ma poi si rifugia per decenni nell'anonimato in un paesino sulla costa dell'Istria. Il pittore Timmel, ritratto nella Mostra (Garzanti, 2001), resta a lungo internato nel manicomio di Gorizia. Alla cieca (Garzanti, 2005) ruota ossessivamente intorno a Jorgen Jorgensen, precario re d'Islanda condannato ai lavori forzati in Tasmania, e ai comunisti italiani come il compagno Cippico, passato dai Lager nazisti alla tremenda “isola calva” di Goli Otok, dove Tito relegava i dissidenti. Magris non è mai stato comunista, semmai un liberale progressista, sulla base della lezione di Bobbio: ma riconosce a Cippico e ai suoi compagni l'onore delle armi: per il loro sogno infranto, per la loro coerenza, per il loro destino di vittime, per la loro dignità. Raccontare la catastrofe di questi antieroi per lui è forse una sorta di esorcismo: vite che avrebbero potuto essere la sua.
Per altro aspetti, quella di Magris è una lunga riflessione sul Novecento. È iniziata dalla Finis Austriae all'inizio del secolo, il tema della sua tesi di laurea, Il mito absburgico. Umanità e stile del mondo austroungarico nella letteratura austriaca moderna (Einaudi, 1963), la bussola dei primi anni del catalogo Adelphi. Questa traversata si è simbolicamente chiusa nel delirante Museo della Guerra, l'utopico rovescio di ogni utopia dove s'inabissa il suo romanzo più recente, Non luogo a procedere (Garzanti, 2015), fondendo ancora una volta tragedia e ironia. La radiografia della lunga crisi del secolo breve riecheggia anche nel titolo programmatico di Utopia e disincanto (Garzanti, 1999), la raccolta di saggi che traccia un bilancio di fine secolo, lasciando aperta la porta alla necessità del sogno e della speranza.
Oggi, sprofondati nell'epoca del disincanto e dei fanatismi, Claudio Magris festeggia i suoi ottant'anni con una serata al Teatro Franco Parenti (lunedì 15 aprile alle 18.30) e con una nuova raccolta di racconti, Tempo curvo a Krems (Garzanti, 2018). E fa risuonare ancora una volta il dolore e la bellezza del mondo, con l'ingenuità sofisticata dei veri saggi.