Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio
Un’autobiografia si può costruire in molti modi diversi. La forma classica della narrazione retrospettiva cronologicamente ordinata è solo una delle possibili alternative. Tra le varianti più solide, dal punto di vista della legittimazione intrinseca del testo, c’è la forma epistolare, sia essa intesa come raccolta di lettere vere e proprie, ovvero come racconto continuato indirizzato a un destinatario preciso: il racconto della propria vita si giustifica appunto sulla base della relazione che lega chi narra all’interlocutore. Tale è stata la scelta di Igiaba Scego in Cassandra a Mogadiscio (Bompiani): di fatto, un’autobiografia familiare rivolta a una nipote che vive oltre oceano.
La grande forza della romana Igiaba Scego, scrittrice italiana di ascendenza somala, è di avere delle cose importanti da raccontare. Che si possa fare letteratura su temi labili, evanescenti – anzi, diciamo pure: sul nulla – è un principio da tempo accolto, che non è il caso di mettere in discussione. Anche l’opposto è però valido: proporre contenuti densi di sostanza umana e storica garantisce un interesse che per un’opera letteraria è un irrinunciabile requisito. Cassandra a Mogadiscio offre un’eccellente occasione per ripensare una serie di questioni cruciali per la cultura e la coscienza del nostro Paese. La sciagurata storia del nostro colonialismo in Africa, e l’oblio di cui è stato successivamente oggetto; l’appendice post-coloniale, tutt’altro che trascurabile per le conseguenze che ha prodotto (la Somalia è stata sotto l’amministrazione fiduciaria italiana fino al 1960); la condizione dei cittadini delle colonie emigrati in Italia e la difficile identità di chi è rimasto tagliato fuori dalla patria d’origine. E ancora la terribile guerra civile in Somalia, esplosa nell’ultimo decennio del secolo scorso, mai davvero conclusa, e tuttavia – complice la prima guerra in Iraq nel 1990 – scomparsa quasi subito dai radar dei media internazionali, con il conseguente tracollo dell’intera struttura statale, e le infinite lacerazioni inferte alla popolazione civile.
Igiaba scrive a una nipote, figlia del fratello, che ha scelto di vivere in Québec. Le scrive in italiano, ma l’italiano è una lingua che Soraya conosce poco; uno dei motivi ricorrenti del racconto è infatti il desiderio che lei la possa finalmente apprendere, anche perché in questo modo potrebbe parlare con tanti parenti, come la nonna paterna. La cui madrelingua, peraltro, è ovviamente il somalo. Un dato vistoso e insieme un potente simbolo della diaspora somala è la frammentazione linguistica. Già a proposito del somalo occorre distinguere: l’idioma parlato nel Banaadir (la regione di Mogadiscio) non è identico a quello parlato nel Nord, a Gibuti, dove è cresciuta la madre di Soraya, mentre la madrelingua del padre di Igiaba, proveniente da Brava (Baraawe) è il chimini, un dialetto swahili. Sulle lingue africane si innestano, con la varietà di registri legata alle diverse esperienze di vita, le lingue dei colonizzatori europei: l’inglese, il francese, e naturalmente l’italiano. A seconda dei casi, possono essere parlate native (come l’italiano per Igiaba), lingue acquisite che rimangono comunque straniere, lingue d’una patria d’elezione, assimilate e fatte proprie. Sta di fatto che, nelle realtà vissute di cui tratta questo libro, legami di stretta consanguineità s’incrociano con distanze geografiche, barriere linguistiche, difficoltà di comunicazione; alle quali corrispondono traiettorie esistenziali complicate, divergenti, che sfidano – ma a volte corroborano – le relazioni affettive.
Non di meno, l’autrice individua una costante nella storia della Somalia e nella condizione dei somali dispersi oltre i mari e gli oceani. La definisce con un termine, Jirro, che letteralmente significa «malattia», ma che qui è chiamato a designare una sorta di atavica maledizione: l’essere votati a un destino di traumi, di oppressioni, di separazioni, il tormento interiore di chi passa da una guerra all’altra, da un distacco all’altro. «Siamo esseri diasporici, sospesi nel vento, sradicati da una dittatura ventennale, da una delle più devastanti guerre avvenute sul pianeta Terra e da un grosso traffico di armi che ha seppellito le nostre ossa e quelle dei nostri antenati sotto un cumulo di kalashnikov che dalla Transnistria sono sbarcati direttamente al porto di Mogadiscio. Per annientarci».
Mogadiscio è un motivo ricorrente, un pensiero dolente e ossessivo. Mogadiscio, capitale di uno Stato andato in pezzi; Mogadiscio, città violata ripetutamente, sfigurata, devastata, resa irriconoscibile. Quanto a Cassandra, l’evocazione mitologica non ha un referente univoco. Il nome dell’infelice figlia di Ecuba e Priamo, profetessa condannata da Apollo a non esser mai creduta, viene richiamato a proposito di vari soggetti, anche collettivi (una «famiglia-Cassandra» sarebbe quella dell’autrice). In gioco è la lucidità dolente di chi intuisce l’imminenza di sempre nuove sventure, più che la noncuranza altrui; tanto più che il destino di non essere compresi non riguarda qui i connazionali somali (percossi dagli eventi, e quindi costretti, come i Troiani, a prendere atto della giustezza dei presagi più infausti), quanto i connazionali italiani, che di fronte alle tragedie africane rimangono indifferenti. Ma il dato saliente è la misura epica che il nome di Cassandra conferisce al racconto.
Da questo punto di vista, il libro di Igiaba Scego assume il valore di un accorato appello. Alla percezione diffusa – consapevole o no – che ciò che accade in quell’angolo del mondo non ci riguarda, Cassandra a Mogadiscio oppone un monito severo. Nel corno d’Africa si sta consumando un dramma immenso, l’ultimo di una sequenza che è stata avviata da questa parte del Mediterraneo. E le rovine materiali – le macerie, i lutti – non sono meno gravi di quelle morali. Ad essere distrutta è un’intera formazione di civiltà: «in Somalia il prossimo è sempre una abayo, sorella, o un abowe, fratello. Sentiamo che ci apparteniamo. Che ognuno di noi è la continuazione degli altri. È forse anche per questo che la guerra pluritrentennale che ci ha colpiti è senza senso […] E per me, nonostante ci pensi ogni giorno, questo rimane ancora un mistero fitto e odioso. Perché il popolo somalo ha voluto farsi così male? Perché?»
Ma l’aspetto più interessante del libro rimane, a mio avviso, il discorso sul linguaggio. L’idea di lingua che Igiaba Scego propone è quella di una realtà dinamica, plastica, aderente ai vissuti di chi la usa, mutevole sia nelle sue manifestazioni esplicite, sia nella coscienza dei parlanti. Così, ad esempio, l’italiano, già lingua dei colonizzatori, è potuta diventare per Igiaba una lingua dalla forte carica affettiva, depositaria di preziose memorie familiari e personali, di un intatto prestigio storico, di una nuova capacità espansiva. Istruttiva è questa definizione in forma di elenco: «Lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio, Elsa Morante e Dacia Maraini. Lingua di Pap Khouma, Amir Isaa, Leila El Houssi, Takoua Ben Mohamed e Djarah Kan. Lingua un tempo singolare e ora plurale. Lingua mediterranea, lingua di incroci». Alla giustapposizione delle proverbiali «Tre Corone» fiorentine, gloria della tradizione letteraria, con due scrittrici contemporanee, nel nome di una parità di genere che andrebbe considerata come un’epocale conquista, segue una serie di nomi su cui conviene sia pur brevemente indugiare. Pap Khouma, senegalese naturalizzato italiano, autore con Oreste Pivetta, oltre trent’anni or sono, di un libro-spartiacque (Io, venditore di elefanti, 1990), e oggi direttore della rivista di letteratura della migrazione «El Ghibli» (el-ghibli.org); il rapper romano Amir Issaa (egiziano per parte di padre); l’africanista Leila El Houssi (L' Africa ci sta di fronte. Una storia italiana: dal colonialismo al terzomondismo, Carocci 2021); la fumettista italo-tunisina Takoua Ben Mohamed; la scrittrice italo-ghanese Djarah Kan. Non solo tante provenienze diverse, ma anche tante diverse espressioni linguistiche: la narrativa, la saggistica, la canzone, il fumetto.
Ma come si conviene a un’autobiografia, e a maggior ragione se in forma di lettera, Cassandra a Mogadiscio non parla solo dell’avita Somalia e delle sue convulsioni storiche, o di grandi questioni politico-culturali. È anche e soprattutto una storia privata, in cui emergono personaggi: in primo luogo i genitori della narratrice, il padre (aabo) Ali, la madre (hooyo) Chadigia, che per la destinataria sono rispettivamente nonno (awowe) e nonna (ayeyo). L’uso degli appellativi in somalo – fra cui edo, zia paterna, ciò che Igiaba è per Soraya: e «Alle zie» è la dedica del libro – sottolinea la soglia di un’intimità domestica che non è un diaframma, ma un punto di passaggio, un nodo di relazioni. Fra le pagine più notevoli, mi limiterò a ricordare i funerali del padre, con la rivelazione, durante la cerimonia islamica, di una nuova immagine della madre: «Io, Soraya, avevo conosciuto la mamma. Tu la nonna. Avevo visto l’immigrata, l’esule, la profuga, la badante. Ma la regina, la first lady del cuore di mio padre, la vedevo allora per la prima volta».
Il libro – un libro sulla casa e sulla memoria, sullo sguardo e sulla voce – si chiude su un motivo vicino all’autrice, il rischio di perdere la vista. Igiaba Scego, che soffre di glaucoma – un’altra epifania del Jirro – ricorda un commovente aneddoto che riguarda José Saramago: colpito a Roma da un distacco di retina, lo scrittore portoghese decide, finché i suoi occhi hanno ancora un po’ di luce, di andare a vedere per l’ultima volta Roma da Trinità dei Monti. Di qui, per associazione, il pensiero si volge a Salman Rushdie, al suo «occhio violentato» da un aggressore fanatico. E quindi alla propria fragile, precaria vista: «Ogni tanto, nei giorni no, sussurro una sura del Sacro Corano al mio nervo ottico. Gli dico che non si deve lasciar andare. Che una via c’è sempre».