Speciale
Il delta del Po
Acqua e terra terra e acqua,
dove finisce il mondo?
Cesare Zavattini
Una terra di stenti, di fame e di malaria. Una terra d’acqua e melma, storioni e petrolio, canne, frumento e pioppi, e gli uccelli a percorrerla fin dove diventa mare. Molti figli del Polesine hanno vissuto la bellezza e la potenza distruttrice del grande fiume che gli ha dato il nome, il Po – l’Eridano in cui cadde Fetonte – e molti ne hanno scritto. Come Gino Piva (Milano, 1873 – Vetrego, 1946), figlio illegittimo di Giosuè Carducci, sindacalista, interventista, poeta:
El Po l’è un ciacolon che conta tuto,
co ‘na voçe che par s’cioco de baso
se l’è de bona; ma se vien el caso
ch’el s’intorbia e ‘l s’ingrosa, o come bruto
alora ch’el deventa e che vosassa! [...]
(ÁRZARE DE PO, da Cante d’Ádese e Po, 1931. Árzare: argine; ciacolon, chiacchierone; s’cioco de baso, schiocco di bacio).
O come Luciano Caniato (Pontecchio Polesine, 1946):
Cercavamo un mare
e su quel mare un fiume
e su quel fiume un’ansa
da far su in fretta le ammainate vele
e da dormirci salvi dagli irati iddii
che sotto all’onda disdegnando preci
ciurmassero adirati
E che ci fosse – pane ottimo pei morti –
non tanto azzima una terra
di far figliare ci persuase un seme
a femmine nel grembo
Era là il paese immensa una palude
nei cieli scritta dagli ariosi uccelli
e tanto densa a tratti di ristagni
che morte ci forniva
e ci ammanniva vita
carnosa d’ogni frutto la costiera [...]
Sapute pecchie toccammo navigando
sul vetroso mare
il dolce di città lontane come stelle
e ne portammo il polline e il miele
a donne su pontili rifioriti elianti
vi dico che fu caro
scambiare con la vita
il lievito del Cielo [...]
E Gianni Sparapan (Villadose, 1944):
[...] “I menava la cariola, i nostri veci, su par àrzari e caredhà.
E monzéva, la zhanzhala, el sàngôe canpagnolo...”
– On paese cativo, upà? –
“Duro, pitosto, ma bèlo.
In su se lievava on sole senpre grando
e slusente tanto:
na bala de fuògo che ancora sgozhava aqua de mare.
E le ànare le ‘ndava in procession par vale e canali
e le folagh le ciapava el xólo da le sponde
rigando zhièli verti spalncà.
E de nòte a dormiva le cane
bagnà dal pianto
bianco
de la luna:
eterna zovinòta,
la inluminava la vale par speciarse in laguna
(ronchedhando, scuri, i casuni...).
Eco, fiolo, l’è là, el me paese”.
– Upà, za el so:
l’è el Delta belo e grande del Po. –
(SFOLÀ. DIALOGO TRA SFOLLATI IN PIEMONTE: [...] “Portavano la carriola, i nostri vecchi, su argini e carrarecce / e la zanzara succhiava il sangue contadino...” / – Un paese cattivo, papà? – / “Duro, piuttosto, ma bello. / In cielo si levava un sole grandissimo /e luminoso tanto: / una palla di fuoco che ancora sgocciolava acqua di mare. / E le anitre andavano in processione per valli e canali / e le folaghe spiccavano il volo dalle rive / rigando cieli spalancati. / E di notte dormivano i canneti / bagnati dal pianto / bianco / della luna: / eterna ragazzina / rischiarava la valle per potersi specchiare in laguna / (russando al buio i casoni...). / Ecco, figliolo: è là, il mio paese. “/ – Papà, lo so: / è il Delta, bello e grande, del Po. –)
Un paesaggio di questa natura, così lontano dagli scenari urbani, può portare in un’altra dimensione. Gianni Celati (Sondrio, 1937 – Brighton, 2022) annota nel suo Verso la foce (1989):
“2 giugno 1983
Le cose sono là che navigano nella luce, escono dal vuoto per aver luogo ai nostri occhi. Noi siamo implicati nel loro apparire e scomparire, quasi che fossimo qui proprio per questo. Il mondo esterno ha bisogno che lo osserviamo e raccontiamo, per avere esistenza. E quando un uomo muore porta con sé le apparizioni venute a lui fin dall’infanzia, lasciando gli altri a fiutare il buco dove ogni cosa scompare.
Non ancora scomparso questo paesaggio, nella bella luce: linee di campi a perdita d’occhio, di canali stretti e dritti tra gli argini, di strade con poco traffico in queste campagne. E una qualità di cielo più fresca, grazie ai venti che circolano senza ostacoli.
Il delta del Po è fatto a lobi, formati dai detriti che i vari bracci del fiume hanno portato, spostando le foci sempre più avanti nel mare. Da queste parti non ci sono città o cittadine, solo sparsi villaggi che hanno nomi di famiglie veneziane, perché il delta è stato creato dai veneziani per convogliare qui tutti i detriti portati nei secoli dal fiume.
Questi terreni sono dunque masse di detriti che scivolano sulla placca continentale verso il mare, una pianura color del muschio in inverno, con molti verdi e gialli nelle stagioni in cui la luce è meno radente, e con un grande fiume che arriva a destinazione aprendosi a ventaglio in sei bracci: come se questa fosse la tendenza di tutto qui, aprirsi andando alla deriva verso il mare, raggiungere una foce dove tutte le apparizioni si eclissano ridiventando detriti. [...]
Nelle paludi la strada asfaltata serpeggia a livello dell’acqua, su una variegata superficie di chiazze immobili e nerastre. Lunghe linee di mota nera formano cordoni di arginamento. E lì ci sono i bacini per le anguille. Intorno qualche vecchissima casa bassa, tetto di canne, tramagli sparsi attorno, e dovunque questo paesaggio di mota sotto un cielo che tende al cupo. [...]
Dove siamo adesso la superficie degli stagni non è mai uniforme, l’acqua è più bassa o più alta, spesso ricoperta da un velo che sembra gelatina putrida. Attorno a quei cordoni di mota si formano frange d’alghe, sulle quali si deposita il terriccio venuto a galla, così che in molti punti non ci si capisce dove termini il suolo e dove comincino quei depositi galleggianti.
Un capannone in muratura sotto un argine, è per gente che viene qui a caccia di folaghe. Sparse nubi, tese come un filo sopra il mare, salgono e man mano si disperdono nel cielo vastissimo. [...]
Oggi abbiamo visto distese di barene, ritagli di depositi alluvionali che emergono come arabeschi dall’acqua, grigi e giallastri. Siamo arrivati dove l’acqua ferma è coperta da un sottile strato che sembra plastica, terreno molle che sprofonda sui bordi. All’estremità delle terre l’erosione dell’acqua non cessa mai, la terra scivola su fondali con sedimenti sempre in subbuglio.
Vedo un segnale dal buio sul mare. Questa notte la cometa Temple 2 passerà al perielio. La forza di gravità si sente più intensamente di notte, si può arrivare a sentire che tutto sprofonda. Dormiamo in macchina, io ho imparato a scrivere al buio.”
Siamo nel Delta di Venere di Sandro Zanotto (Treviso, 1932 – Padova, 1996), nel regno di Eros e di Thanatos, in un paesaggio arcaico, viscido, macerato che è anche un grande grembo archetipico. Il protagonista di questo romanzo è Sandro, un uomo che vagabonda per il Delta su un bragozzo nero in una sorta di viaggio iniziatico o di romitaggio, accompagnato soltanto da una bambola in lattice che lui veste, sveste e chiama “Italia”:
“[...] la navigazione notturna gli piaceva. [...]
Non c’era pericolo di sbagliare Porto Levante, era alla fine del canale, ben segnalato dalle insegne al neon del ristorante, ma contare le cinque idrovore che doveva superare gli dava un modo di misurare il cammino compiuto.
La notte si presentava inquietante, come accade di solito a chi debba compiere un percorso da solo immerso nella natura oscura, piena di pericoli indistinti e di fantasmi. Non succede in auto, per la presenza dell’asfalto del mezzo meccanico, quasi frontiere contro le misteriose presenze che escono di notte dalle pianure o dagli alberi contorti che crescono lungo i fossati, celando una vita che di giorno non osa presentarsi alla luce cauterizzante del sole. Sul fiume appena tramonta si alzano nebbioline sinistre, non ben localizzate, al rumore rassicurante del motore si levano uccelli dai canneti dell’argine, mentre gemiti frequenti si levano dai rifiuti metallici che l’onda della barca scuote e sfrega contro i pietroni della riva. [...]
Sandro era abituato a stare la sera sul fiume, ormai era divenuto abituale il colloquio notturno con entità sconosciute che era assai dubbio ci fossero o per lo meno vi rispondessero. [...] Qui era turbato dal fatto di muoversi entro un paesaggio al buio. Se anche la rotta non presentava problemi, una superficie d’acqua buia è il più insidioso terreno su cui poggiare: identica sempre, può nascondere inesplicabili inganni appena sotto quel velo mobilissimo soprastante, il più penetrabile e mutevole degli appoggi. [...]
Le meditazioni di Sandro vennero interrotte una massa oscura trasversale percorsa da fasci di luce: era il ponte della strada statale. Infilo la campata di centro, quella navigabile, anche se poteva passare benissimo sotto le altre due, e distinse subito il cantiere navale, morto a tutti gli effetti e immobile, mentre gli pareva di sentire aleggiare l’odore fastidioso che mandano i metalli torturati dal cannello da saldatura. Superò le masse immobili di alcune piccole navi arenate che conosceva bene, portavano il nome di alcune fibre artificiali, e si inoltrò avanti, sempre bene al centro, mentre aspettava che uscisse la luna, ormai piena tra tante stelle.
Tutto andò bene fino alla prima e seconda idrovora, mentre il motore tirava al massimo – chissà perché i motori vanno benissimo delle sere umide e all’alba – e dalle rive deserte senza un lume si levava il lezzo delle secche, quel sentore di erbe fradice, di fanghi scoperti, di torba in formazione e putridumi abbandonati che la sera esaltava, il caratteristico freschin veneto. Distingueva nettamente, pur senza vedere niente, quando passava accanto a qualche carogna o a qualche banco di golena scoperto. Ogni tanto arrivava un’ondata di fieni falciati che Sandro respirava a pieni polmoni o un lentissimo sentore di fumo di legna. Poteva distinguere le idrovore non solo dalle masse enormi dei tubi disposti a raggiera sull’argine, ma anche dall’odore di alghe marcite che si diffondeva da esse. Erano cumuli ammucchiati all’aperto, formati dalla giornaliera pulizia alle griglie delle prese d’acqua. Morivano dopo la periodica versata di diserbante e venivano raccolte perché non incrociassero il deflusso delle acque di scolo. In mezzo ai mucchi marcivano i pesci di chiavica, i gobbi, il pesce-gatto, detto qui tenca barbona, le scardole, pesci rossi E quel curioso incrocio tra carpa regina e altri ciprinidi, quasi sempre pesce rosso fuggito dagli allevamenti nelle buche di marcita della canapa, che vien chiamato Balilla [...]”
Ben diverso è il viaggio che intraprende Gian Antonio Cibotto (Rovigo, 1925 – 2017) durante la disastrosa alluvione del 1951:
“Non si sa più niente di quelli della Cooperativa Polesine Camerini.
Ieri sera invocavano soccorso, ma da stamane con loro non si riesce più a comunicare. Anche perché causa la piena del fiume, i pescatori della Pila non osano traghettare. Così ci ha detto Duò, arrivato un’ora fa, accasciato e pieno di preoccupazioni per il raccolto del riso, che sembra sia andato perduto. Mio padre lo incoraggia, assicurandolo che, in queste faccende, il danno a prima vista sembra assai più rilevante, di quanto poi non sia. Dal tono della voce però, sento che non è tranquillo. Niente più della voce tradisce le emozioni. Con il volto si riesce a dissimulare, ma con la voce quasi mai. Magari è un impaccio appena percettibile, un’inflessione brevissima, un’esitazione.
A mezzogiorno ho telefonato a Gigi Sartorello, chiedendogli se ha la macchina disponibile, e siamo partiti. Dopo Adria, abbiamo trovato il Canalbianco molto grosso, ma la gente tranquilla al lavoro. [...]
Incontriamo il Po. È così gonfio, che tra la riva e il pelo dell’acqua ci sarà, sì e no, mezzo metro. Fa un’impressione tremenda. Mentre corriamo, penso dove s’andrebbe a finire se improvvisamente si spaccasse l’argine. Se non fosse che a fare la proposta di tornare indietro passerei per un uomo senza coraggio, non esiterei un istante. Da solo, avrei già voltato la macchina, per fortuna spunta ogni tanto sulla sinistra qualche viottolo che porta verso l’interno. Forse non servirebbe a niente, comunque mi pare che infilandolo a tutta velocità, l’acqua non dovrebbe fare in tempo a raggiungerci. Negli incubi ci s’aggrappa a qualsiasi pretesto, anche al più illusorio. [...]
Le golene sono completamente sommerse. Si vede ogni qual tratto gente che porta masserizie sulla strada, con grande calma. Forse perché a questi traslochi forzati sono periodicamente abituati, tutte le volte che il Po va in piena. Arriviamo a Ca’ Pisani. È completamente sotto. Eppure nessuno per strada ci ha detto niente. Si vede che qui la vita è a compartimenti stagni. Traghettiamo in un bel gruppo. Chi porta la barca è un giovanotto spavaldo, maldestro, e prima andiamo contro un palo e poi addosso a una rete nella quale rimaniamo impigliati, con rischio di rovesciarci. A forza di braccia, riusciamo finalmente a tirarci fuori. E pensare che basterebbe seguire la strada, scegliendo quale punto di riferimento i pali della luce! Passando davanti alla buca delle lettere quasi sommersa, un bimbo allunga il braccio e imbuca un pezzo di legno. Più avanti, dentro la sala da ballo, galleggiano gli strumenti. La notte precedente devono aver fatto festa. Ora invece ballano il clarino, la tromba, la grancassa ecc. «sono stati causa di peccato» – commenta allegramente il frate che sta in fondo alla barca – «paghino ora la penitenza».
A Ca’ Venier non troviamo un mezzo per recarci alla Pila. Vicino al Municipio ci imbattiamo in due carabinieri che si dicono di ritorno di là, e apprendiamo con sollievo che Pila e la Cooperativa Camerini sono salve. Gigi però vuole andarci lo stesso. Alla fattoria padronale ci rispondono che non hanno né macchine né biciclette. In realtà non si fidano. I padroni non si smentiscono mai. Aggiungi poi che questi sono latifondisti, gente abituata per la versione a dar via le noci con la forca. Finalmente scoviamo due contadini disposti a prestarci le loro biciclette. È il tramonto: bellissimo, con i pioppi che sembrano pettinarsi i lunghi capelli davanti allo specchio dall’acqua, e il sole che incendia tutto. Osservò distrattamente, svogliato, assente. Intanto la strada comincia a pesare: è un seguito di buche. Arrivati all’argine Ottolini, incontriamo le prime tende e veniamo a sapere che stanno lavorando da due giorni per salvare l’argine. Infatti poco dopo è tutto un susseguirsi di gente con badili, sacchi di sabbia, paglia, fascine. La strada è arata dalla parte del fiume, che la sta coprendo un po’ alla volta. Non per niente, solo sulla sinistra, ho contato almeno una decina di fontanazzi. All’altezza del paese poi, sono mobilitati anche i vecchi ed i bambini, che lavorano in silenzio, con gli occhi lucidi e i capelli arruffati, d’animali destati nel sonno. Al dirigente locale della cooperativa, chiediamo d’essere traghettati; ma dopo essersi consultato a monosillabi con alcuni pescatori ci risponde che nessuno vuol venire, perché hanno paura della corrente. Nella notte ha trascinato via tutte le reti da pesca, e buona parte delle barche, strappando i vari sostegni. Finalmente, dopo una mezz’ora, riesco a convincerne un paio, che sì vengono, a patto che si torni subito. Li ho presi nell’orgoglio, tacciandoli di poco coraggio, e niente per i semplici è più distintivo di questa qualità. Giunti a metà corso, ho l’impressione mi abbia accolto un malore, perché vedo la sponda opposta, le case, gli alberi, muoversi a tutta velocità. Come se corressero. Per fortuna uno dei barcaioli, senza che lo interpelli, mi spiega che il fenomeno è un effetto della corrente. Approdiamo dopo quasi un’ora, lontani dalla zona abitata almeno un chilometro. Eppure vediamo subito correrci incontro gente. [...] Devono aver preso un grosso spavento, perché di fronte al loro parlare agitato, ho come la sensazione di un collasso nervoso. Certo che anche attraverso le frasi mezzo sconnesse, affrettate, è possibile capire la paura di una nottata trascorsa all’aperto, sotto un temporale scatenato: con a sinistra la mareggiata e a destra l’urto del Po in piena che minacciava. Ci siamo recati assieme a vedere il disastro. La barca a motore è stata scaraventata via dalla corrente. Il riso è ormai sepolto dall’acqua. Sull’ara infatti lo si vede trasparire misto alla terra, sporco, torbido, privo di lucentezza. Un vecchietto dal viso butterato e il cappotto militare tedesco, che con occhi umidi di lacrime pareva carezzare il suo lavoro di un anno, («El gera el più belo sior, de tuta la corte. Gnanca a na dona, no’ go mai volesto cussì ben...») purtroppo perduto, – restava lì dall’alba incapace di staccarsi dalla sua parte, accumulata nell’angolo estremo della grande corte padronale, con le gambe immerse fino al ginocchio E il cappellaccio sbiadito e logoro rovesciato sul capo.
Dopo aver promesso aiuti e soccorsi, li abbiamo lasciati a notte fatta, con i barcaioli che urlavano per ritornare. Infatti, appena partiti, ci ha preso la corrente. Per fortuna che quando cominciavamo a vedercela brutta, un giro d’acqua ci ha piroettati verso la riva.
Risaliti in paese, per fare più presto chiediamo posto ad una jeep di passaggio, sulla quale carichiamo le biciclette. Andiamo sempre a passo d’uomo, perché la strada è piena di gente che fa la guardia. Non dorme nessuno. Hanno tutti in mano torce o lanterne, perfino candele. Qualcuno ci saluta. Ma è un saluto secco, ruvido, privo di cordialità. A Ca’ Venier non c’è più la barca per passare. Rimaniamo seduti sull’argine, nel freddo. Arriva la barca dopo un’ora e mezzo, pilotata da due ragazzi. Stabilito il prezzo, ci portano velocemente di là, dato che conoscono la strada a menadito. Il ritorno è silenzioso, in un’aria umida e cupa. Unico rumore è quello del vento, che ogni tanto ci scaraventa addosso mulinelli di polvere e foglie secche, oppure l’eco di voci raccolte chissà dove, e che giungono smorzate come un brusio, un sussurro indistinto.
Entrando in Rovigo, vediamo la piazza animata di gente che passeggia, le vetrine dei negozi illuminati, ed i bar gremiti di folla spensierata”.
Eugenio Ferdinando Palmieri (Vicenza, 1903 – Bologna, 1968), altro poeta del Polesine, ha scritto:
L’è un porco paese de fossi e de rane,
de ortighe e de cane,
de vento che sbrega,
de piova.
Malora, malora.
El caligo e la pelagra,
senza vose le campane,
le putele le abortisse. [...]
Gh’è l’Adese e ‘l Po
che salta dai árzari. [...]
L’è un porco paese de gorghi e de cuora.
(CUORA, da Poesie, 1950; cane: canne. sbrega: lacera. piova: pioggia. caligo: nebbia. putele: ragazze. Adese: Adige. árzari: argini. cuora: melma.).
E Luciano Caniato, ancora:
C’è chi nasce Po o Adige
o Canale. Io sono nato
fosso, macero, golena.
Vuoi mettere specchiare cieli,
contare i pesci del silenzio,
avere erba intorno, stare
fermi immobili, fare il morto,
sentirsi cuore che batte,
idea che spinge, essere
storto o dritto a seconda
che la rana dell’anima si muove,
la libertà d’essere nessuno?
Fonti
G. Piva, Cante d’Ádese e Po e Bi-ba-ri-bò, Il Ponte del Sale, Rovigo 2016, p. 134;
L. Caniato, E maledetto il frutto. Storia poetica del potere. Il Polesine per paradigma, Bertani, Verona 1980, p 35-6 (KRUMAH);
G. Sparapan, Gran de rosari, Il Ponte del Sale, Rovigo 2021, pp. 92-3;
G. Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 126, 129, 131;
S. Zanotto, Delta di Venere, Rusconi, Milano 1975, pp. 49-53;
G. A. Cibotto, Cronache dell’alluvione, Neri Pozza, Venezia 1954, pp. 11-17;
E. F. Palmieri, Poesie, Il Ponte del Sale, Rovigo 2020, p. 107;
L. Caniato, Maliborghi, Il Ponte del Sale, Rovigo 2010, p. 115.
L’epigrafe di. C. Zavattini è tratta da Viaggetto sul Po, in Opere, Bompiani, Milano 2001, p. 751.
Leggi anche:
Stefano Strazzabosco | Venezia e la sua laguna
Stefano Strazzabosco | Trieste, l’Istria, la laguna di Grado