Speciale
Vicenza e i suoi fiumi
“I fiumi di Vicenza si snodano ai piedi del colle, e sono tre. Ivi, all’estremità dei Berici, si adagia la città. Non sono fiumi potenti ma di modeste acque nel periodo normale. Tortuosi e verdi, s’insinuano ovunque, abbracciano la città e compaiono dove meno ci si aspetta, o con aperti i ponti ventilati o nell’interno di quartieri silenziosi e umidi: o allargandosi in ghirlande di cascate, dove una volta la corrente muoveva ruote di venerandi mulini, ora, per lo più, inceppate di alghe e muffite.
I tre fiumi sono l’Astichello, il Retrone e il Bacchiglione. A Vicenza, fanno verde ogni cosa. Danno vita a giardini dove sono alberi di pesco e di magnolie e rose rampicanti, a lunghe vie alberate, a siepi alte, ai poggioli delle case fioriti di gerani. Animano le pietre di una calda tinta grigia, corrodono e colorano le rive, i gradini, le spiaggette delle lavandaie, i mattoni, i selciati, i pavimenti delle chiese e degli atri; sono l’umbratile presenza in cui si riflette il dominante volto della città.
Quando vi abitavo, lavoravo in un ufficio all’ultimo piano di un alto edificio, non lontano dal centro. Dal balcone della mia stanza, i fiumi non si vedevano, ma se ne sentiva la presenza; che esistevano, che le loro acque scorrevano intorno e dentro la cerchia delle mura e illuminavano le strade e gli abitanti in una trasparenza di riflessi azzurrini e splendenti. Sentivo le fontane zampillare nei giardini, con abbondanti e sonori getti d’acqua; sapevo che irroravano e aiuole e orti e frutteti di solitari proprietari e di appartati conventi. I palazzi, le cupole, le torri e, in piazza, l’enorme tetto a testuggine della Basilica del Palladio sembravano galleggiare sull’invisibile corrente dei tre fiumi, le cui acque, penetrate nel fondo segreto della città, ne sollevavano le fondamenta in un impercettibile sospeso respiro”.
Così scriveva Antonio Barolini (Vicenza, 1910 – Roma, 1971), poeta, narratore, antifascista cattolico poi emigrato a Croton-on-Hudson, negli Stati Uniti, in un racconto dei tardi anni ’50. Il più piccolo dei tre fiumi, l’Astichello, era già stato cantato nella raccolta omonima di sonetti (1884) dell’abate Giacomo Zanella (Chiampo, 1920 – Cavazzale di Monticello Conte Otto, 1888), famoso soprattutto per l’ode Sopra una conchiglia fossile nel mio studio (1864) apprezzata, tra gli altri, da Eugenio Montale e da Andrea Zanzotto. Nel Sonetto V, l’abate Zanella ricorda che pochi chilometri più a valle quella stessa via d’acqua, dal “gorgo limpido e fecondo”, scorrendo “tra pioppo e pioppo” (Sonetto IV), costeggia Villa Cricoli, la dimora di Gian Giorgio Trissino (Vicenza, 1478 – Roma, 1550), il cui poema L’Italia liberata dai Goti fu un solenne fiasco; ma nel cantiere della Villa il conte Trissino conobbe il giovane scalpellino Andrea della Gondola, che prese sotto la sua protezione, portò con sé a Roma e ribattezzò Palladio:
Poche miglia hai di corso; e fra tuguri
acuminati di cannucce e creta
ora al sol ti riveli, or ti furi
e vai, stanco Astichello, alla tua mèta.
Breve corso di gloria e fati oscuri
ebbe al suo carme, che sperò di lieta
accoglienza onorato a’ dì venturi,
quel di tue ripe abitator Poeta
audace troppo, che cantò de’ Goti
sgombra l’Italia e qui tra piante e acque
l’ira addolcì de’ non sortiti voti.
È piccolo il tuo corso: il suo volume
cinto è d’obblio. Così, come al cielo piacque,
hanno pari destin poeta e fiume.
(ti furi: ti nascondi; carme: poema; a’ dì venturi: in futuro; non sortiti voti: desideri frustrati)
Oltre la Villa Cricoli, attraversata Vicenza, l’Astichello confluisce nel Bacchiglione:
Tu ti affretti, Astichello, e non hai pace,
se l’onda tua, che le cadenti frondi
lambe a’ salci, passando, e mai non tace,
del Bacchiglion all’acqua non confondi.
E tu pur col tuo garrulo seguace
il corso affretti, o Bacchiglion: fecondi
il bel piano d’Euganea, e nel vorace
sen dell’Adria ti tuffi e ti nascondi.
Tanta fretta, perché? Perché di tregua
e di respir sdegnosi ite correndo,
come chi larva ambiziosa insegua?
Tanto vi preme, che nel gorgo orrendo
colui v’inghiotta, ch’ogni possa adegua,
i nomi vostri d’alto obblio coprendo?
(sonetto LXVI; lambe: lambisce. ite: andate. larva ambizïosa: fantasie di gloria. possa: impeto. adegua: livella)
Un altro Giacomo Zanella, omonimo dell’abate – di cui era ignaro – e protagonista del racconto di Barolini sui fiumi di Vicenza, vedeva il Bacchiglione come “un fiume gaio e aperto, fiancheggiato da alti alberi e da alti argini erbosi. Le sue acque erano quasi sempre pure e scorrenti con festevole chiacchierio e, lì, dove sono facilmente guadabili, rivelavano il fondo di un letto striato di fini ghiaie bianco-rosate o variegato di rena ondulata, a spina di pesce: «è un fiume generoso», commentava Zanella. «Quando è di cattivo umore, dopo il disgelo o per lo scirocco e le forti piogge, te ne dà subito l’avviso e ti mette in guardia. Non è ipocrita, non ha segreti o trappole nelle sue acque, anche nei punti dove il fondo si anima di umbratili ciuffi di erbe. È sempre pulito e ilare di sole; e il suo pesce non sa mai di fango, ma di acqua che scorre sulla roccia, anche quando è torbida. Le sue sorgenti sono stupende, scaturiscono da una larga radura di giovani pioppi e di querce leggere. È il mio più grande amico, non mi nasconde proprio niente e ha il vantaggio di essere non troppo grande, né troppo piccolo».
Il Retrone, a parere di Zanella, era invece un fiume tenebroso, con acque all’apparenza stagnanti ma che coprivano risucchi e borri interni: «un grande buio fosso, più che un fiume. Non si sa mai cosa nasconda in se stesso. Punti la pertica sul fondo ti senti portar via, sprofondi in una melma viscida e puntigliosa. Credi di toccare e invece arranchi in un’acqua densa, verde ma cupa, senza trasparenza e poi, d’un tratto, l’improvviso strappo di un gorgo sommerso ti succhia e ti svolta la barca e ti occorre un bel po’ di forza e di resistenza per vincere e controllare la deriva».
L’Astichello era il più infido dei tre fiumi. Scorreva tra rive basse, di fango corroso, a ciglio dei campi, così calmo che lo si sarebbe potuto scambiare per un pacifico e logoro canale d’irrigazione. Le sue acque avevano spesso riflessi perfino azzurri e le sue rive, qui, ospitavano canneti, più in là siepi, altrove quercioli, acacie e muschi. Aveva libellule sospese sui fili dell’erba, con le grandi ali iridescenti, zanzare e scarabei luminosi contro il sole che vivevano sulle sue rive e passavano dall’una all’altra parte, a volte a nuvole e in sciami; e ranelle di smeraldo saltellanti con i vasti occhi stupiti. Fiume gradito ai cacciatori perché le altissime allodole, dall’immenso cielo, piombano sui prati che traversa, attirate dai suoi riflessi cristallini”.
Nel minimo lembo di pianura bagnata dall’Astichello si sovrappongono le tracce del nobile Trissino, col suo protetto Andrea Palladio; dell’abate Zanella, che di quel breve fiume è stato il cantore; e di Vitaliano Trevisan (Sandrigo, 1960 – Crespadoro, 2022), cresciuto a Cavazzale, a due passi da casa Zanella – a piedi sono venti minuti. Nel suo non-romanzo d’esordio, Un mondo meraviglioso (1997), a un certo punto si legge:
“Stavo costeggiando il Bacchiglione, camminavo a testa bassa, senza guardare né davanti né di fianco né dietro – e come potrei guardare dietro? –, ma non potei fare a meno di accorgermi della presenza di un pescatore, seduto sul parapetto in mattoni rossi sormontato da lastre di pietra. Mi fermai e lo osservai. Era vestito tutto di verde, il tipico verde degli indumenti da pescatore che vendono nei negozi di caccia e pesca, tutto meno il bandana che portava bene annodato sulla testa, che era di colore rosso vivo. Che assurdità, pensavo guardandolo, pescare nel Bacchiglione, quando è risaputo che il Bacchiglione è uno dei fiumi più inquinati che esistano al mondo. Certo, pensavo, quand’ero piccolo ci andavo con mio padre a fare il bagno e anche i tuffi facevamo e nuotavamo e pescavamo, ma si parla di un secolo fa, quando ancora non c’erano tutte le fabbriche che ci sono ora e tutti i laboratori orafi e le cromature e le placcature eccetera, per non parlare delle concerie. Comunque lui pesca, pensai, se ne frega di tutto e pesca. [...] Girai a sinistra. Ero sul ponte. Guardai giù, sporgendomi il più possibile dal parapetto, per vedere se davvero, sotto il ponte, ci fossero quelli grossi pesci, trote, di cui parlava il glabro [il pescatore]. Guardai con attenzione sotto il ponte, prima sporgendomi dal lato sinistro, poi dal lato destro: non riuscii a vedere nemmeno un misero pesciolino: solo acqua, copertoni, alghe, sassi, uno scarpone, un televisore sfondato, una bicicletta senza la ruota davanti e altri rottami di vario genere, ma di pesci neanche l’ombra. Riattraversai la strada per riportarmi sul lato sinistro – cammino sempre solo sul lato sinistro –, e proseguii il mio cammino. Lo sapevo che non ci potevano essere pesci in questo fiume, pensavo.”
Più di cinquant’anni prima, per Diego Valeri (Piove di Sacco, 1887 – Roma, 1976) quello stesso fiume, nel suo passaggio per Padova, era oggetto di pura contemplazione:
“Dolci acque del Bacchiglione, io non ho mai imparato a puntino donde veniate, dove brilli e gorgogli la vostra pura sorgente, quali vie vi conducano dalla bianca Vicenza alle distese verdi di Brusegana [alle porte di Padova]. Nemmeno Dante me l’ha insegnato, questo, coi suoi celebri versi dell’acqua cangiata a palude [...]. Io vi amo coralmente, chiare fresche e dolci acque [...].
C’erano tanti fiori bianchi, a ombrella, tanti fiori gialloro, a tazzetta, e tanti fiori violacei, a pigna, sulle vostre verdi rive suburbane, al tempo delle mie passeggiate primaverili; e si dondolavano e tremavano leggeri, con moto uniforme, al mite vento; e voi correvate via, lisce pallide e silenziose, portando con voi il vostro lucente segreto, ma lasciandomi la gioia di quel vostro correre in mezzo all’erba fiorita.
Delizia dei paesaggi poveri: il boschetto di robinie, a Brusegana, e quei due filari di aerei pioppi sotto l’altra riva, m’erano apparizioni di favolosa bellezza, tenevano dello splendore del mito. Né mi sarei stupito, infatti, di incontrare colà la ninfa che divinamente vi abita, o acque; la pallida ninfa a cui davo il nome di Regina, perché una piccola pallida Regina era allora il mio pensiero, il mio sogno dominante. Ma una gioia anche più grande e profonda mi veniva da voi quando, sul far della sera, seguivo i vostri errori nel chiuso della città. Sotto il lungo splendore del tramonto voi eravate delle pure vene doro, e mandavate lampi d’oro ai vecchi muri nerastri, ai vecchi ponti di pietra bigia, ai platani cupi delle riviere. Gli ospedali, le caserme, i conventi di clausura, le prigioni si accendevano del vostro riflesso, che penetrava nelle camerate e nelle celle, tessendo sui soffitti tremule ragnatele d’impalpabile oro. Raggiavano i vetri delle case povere, come toccati dal dito di Dio; e voi ripetevate quei raggi nel vostro limpido seno. Poi scendevano le ombre, morbide e dense, e non restava nell’aria altra luce che la vostra: quella tenera luce di perla che ancora riuscivate a trattenere, rubandola all’ultimo crepuscolo”.
E Neri Pozza (Vicenza, 1912 – 1988), nella sua Comedia familiare (1975; ma si parla di fatti accaduti tra la fine della Prima guerra mondiale e il 1932):
“«Io conosco un posto dove si fa il bagno nudi», diceva la Pierina, «andiamo in bicicletta, una sera?»
«E dov’è?»
«Si va per il cimitero degli ebrei, lungo il Tésina [un affluente del Bacchiglione] tre o quattro chilometri, e poi trovi una specie di golfo tutto circondato di cassie, e una bella spiaggia. Ce l’hai la bicicletta?»
«Ce l’ho, ma quando si va?»
«Dopocena, se vuoi». [...]
Superato il cimitero degli ebrei incominciava la campagna. La strada andava tra due fossi fiancheggiata di morari [gelsi], di là da questi c’erano i campi coi festoni delle viti nelle macchie dei pometi, le casone con qualche finestra illuminata. Nelle aie spannocchiavano e cantavano.
Dal cielo alto e stellato la luna diffondeva una luce violetta e le montagne all’orizzonte sfumavano nell’aria torbida. Il caligo incombeva come una polvere bassa. Qualche pennacchio di fumo saliva diritto dai camini e si udivano più in là le grida dei contadini affaccendati a scaricare dai carri le ceste dell’uva. [...]
«Non sarà troppo fredda l’acqua, di notte?»
«Macché», rispondeva lei, «e poi aspetteremo un poco»
In quel momento salirono sull’argine del fiume. Là sotto l’acqua nera, striata di luci, correva diritta per un lungo tratto, e mandava una frescura ristoratrice. Non si vedeva nessuno, non si sentiva una voce, ma echeggiava nell’aria, intenso, lo stridio dei grilli.
«Guarda che bello», diceva lei pilotando con sicurezza la bicicletta nel viottolo. Lui la lasciava chiacchierare. Lungo la pista difficoltosa sorgeva ogni tanto qualche macchia. La riva faceva uno scarto, poi riprendeva diritta.
All’improvviso, senza preavvertire, Pierina uscì dal sentiero andando giù per la riva; e Salvatore era rimasto in sella per miracolo.
«Potevi dirmelo!», gridava; ma lei era scomparsa nella macchia.
Con la bicicletta a mano scendeva verso la spiaggetta.
«Sta’ zitto», diceva lei dietro le frasche, «voglio sentire se c’è qualcuno nei paraggi».
Si sentiva solo il fruscio della corrente e lo stridere uguale dei grilli.
«Vado a sentire com’è l’acqua», diceva, mentre Salvatore lasciava la bicicletta sulla sabbia.
«È tiepida», continuava tornando indietro, e si toglieva l’abito.
Salvatore, i piedi affondati nella sabbia, la guardava nuotare e si spogliava lentamente”.
Neri Pozza viveva al terzo piano di un edificio all’inizio di Ponte San Michele, nel centro di Vicenza. Il ponte, elegante, con una sola arcata in pietra bianca, scavalca il terzo fiume di Vicenza: il Retrone. Poco più avanti si arriva al quartiere delle Barche, dove un tempo c’erano gli approdi per le spezie e le erbe di Venezia e di Chioggia, i cantieri e gli squeri. Qui, all’altezza di un altro ponte più piccolo, probabilmente romanico, il ventenne Goffredo Parise (Vicenza, 1929 – Treviso, 1986) ambientò il suo primo romanzo, Il ragazzo morto e le comete (1951), che Neri Pozza lesse in una notte, a casa sua, alternandosi all’autore, e pubblicò pur con qualche dissenso. Il romanzo si apre così:
“Questa è una sera d’inverno. Prima che il buio e il gelo arrivino nei cortili a tramontana per tutta la notte, Giorgio, Abramo e gli altri ragazzi accendono fuochi con foglie fradice, rami morti e carta raccattata nelle immondizie. Allora il fumo pieno di umori estivi e di erbe aromatiche cammina dentro i cunicoli delle fogne dove il canale [in realtà, si tratta del fiume Retrone] si insinua a trasportare erbe, gatti morti, piccoli involti dal contenuto roseo e informe, spellato dall’acqua.
A quest’ora si illuminano le finestre nella soffitta dove abita la famiglia di Abramo. [...] Adesso è inverno, per questo è apparsa subito la squallida sera d’inverno. Bisognerebbe potersi ritrovare in una di primavera quando il sole è ancora alto a quest’ora e i ragazzi gridano. I ragazzi sono troppo cresciuti per accendere fuochi lungo il canale. È così chiaro, le barche sottili e colorate galleggiano agli sbocchi delle fogne riempite qua e là di passerelle di mattoni. Allora chi avrebbe pensato ad accendere fuochi? Quando il sole è rimasto in cielo per tutta la giornata non è possibile pensare che un momento o l’altro tramonterà e ci sarà nebbia e gelo.
Così Abramo sempre povero e nella soffitta con tre letti di ferro, Giorgio e l’altro ragazzo, quello di quindici anni che non è povero che va a scuola, parlano al sole, uno seduto sugli scalini vicino all’acqua e l’altro in mezzo al canale, coi remi bianchi e azzurri albergati sull’acqua. Siccome gli archi delle fogne sono sotto la sua casa – Abramo li ha ripuliti e resi adatti a ricoveri per le barche – li considera di sua proprietà e fa pagare un affitto mensile per ognuno che vi lascia la propria barca. Quantunque nel prezzo sia compresa la custodia, e le barche siano solidamente agganciate ai pilastri che sostengono la casa, non è rara la sparizione improvvisa di belle barche nuove. Sparizione attribuita agli abitanti di un cortile vicino, ladri maledetti, oppure al canale, che in certe ore della notte si gonfia e inghiotte ogni cosa.
Tuttavia non bisogna dimenticare il padre di Abramo, il costruttore delle barche, uomo dalla barbetta a punta, vestito di un pastrano di soldato straniero, di canzoni di pigiama e sandali, che non abita col resto della famiglia, ma nella cantina, a pelo d’acqua. Di lì non si muove mai se non per andare fuori in campagna a comperare il legno per una barca nuova. [...] Ma questa è l’ora delle sere invernali, delle sere invernali che qualche volta sono immerse nella nebbia, altre volte limpide e spazzate dal gelo. Andando avanti così bisognerà dimenticare il freddo, gli amici, le bocche rosse delle sorelle di Abramo e scendere lungo la riva del canale: aspettare un poco, accendere quei fuochi pieni di fumo in cui la paglia muffita, strappata dalle tubature, quasi rifiuta di accendersi.
Quanta confusione. Eppure in questa confusione di barche in giro per il canale, di ombre fredde di ponti e di lavandaie lungo gli argini che gridano per gli schizzi prodotti dai remi, appaiono ogni tanto le gambe chiare delle fanciulle negli scafi sottili che avanzano a pelo d’acqua. Davanti agli occhi del ragazzo di quindici anni esse promettono prati di erba alta, carezze e tuffi improvvisi da un albero nei punti profondi e caldi. Per un attimo la felicità sono proprio queste immagini di bellezza solare, acquatica e subacquea, la gioia di penetrare nei punti profondi e caldi con gli occhi aperti sapendo nuotare poco e faticosamente; penetranti se appaiono nelle sere d’inverno senza più luce e senza più acqua riscaldata dal sole”.
Sessant’anni dopo un’altra scrittrice, Mariapia Veladiano (Vicenza, 1960), sarebbe tornata a parlare di questo fiume, anche lei nel suo primo romanzo (La vita accanto, 2011):
“Quella primavera il sindaco decise di bonificare il fondo melmoso del Retrone perché emanava fetori e i cittadini protestavano. In mezzo al fango sollevato dalle ruspe gli operai trovarono tanta spazzatura da poterci lastricare la piazza dei Signori, e anche un bel triciclo che dopo un buon lavaggio risultò giallo e verde. Poi fu la volta di una pendola in noce ancora in buono stato e di una borsa piena di gioielli, ottime riproduzioni, però falsi. Il furto, ma dovevano essere veri secondo il proprietario, era stato denunciato un anno prima dall’antiquario Longhella di piazza del Mutilato. Poi ancora una deliziosa scatola di latta decorata con amorini sognanti, perfettamente sigillata, piena di lettere d’amore che risultarono scritte dal precedente canonico della cattedrale alla bella moglie del sindaco ancora in carica. Dopo che i lavori di bonifica portarono in carcere l’antiquario per simulazione di reato e sulla gogna il sindaco, l’amministrazione ordinò la chiusura immediata del cantiere, anche perché i miasmi erano peggiorati e i cittadini protestavano più di prima.
– Questa città è come il suo fiume, – dice Maddalena mentre osserviamo dal poggiolo della camera di mia madre le ruspe che se ne vanno – meglio non scavare sul fondo.”
Fonti:
A. Barolini, I fiumi di Vicenza, in L’ultima contessa di famiglia, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 251-2;
G. Zanella, Astichello, Agorà Factory, Dueville 2020, pp. 40 (sonetto IV), 42 (sonetto V) e 164 (sonetto LXVI);
V. Trevisan, Un mondo meraviglioso, Theoria, Roma-Napoli 1997, pp. 62-3 e 81-2;
D. Valeri, Acque del Bacchiglione, in Città materna, Massimiliano Boni editore, Bologna 1977 (1944), pp. 147-9;
N. Pozza, Comedia familiare, Mondadori, Milano 1975, pp. 493-5;
G. Parise, Il ragazzo morto e le comete, Feltrinelli, Milano 1965 (1951), pp. 7-10;
M. Veladiano, La vita accanto, Einaudi, Torino 2011, p. 145.
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