José Tolentino Mendonça. Estranei alla terra
Figura affascinante e fuori dall’ordinario quella di José Tolentino Mendonça, portoghese di Madeira, figlio di un pescatore, cresciuto in Angola e poi tornato in patria decenne quando il Portogallo, nel 1975, rinunciò alle colonie. Allo stesso anno, il 1990, risalgono la sua ordinazione sacerdotale e il primo libro di poesie Os dias contados (I giorni contati): due vocazioni che da quel momento avrebbero proceduto senza contraddirsi in quanto, spiega lo stesso Tolentino Mendonça in interviste e interventi, la poesia è essa stessa un rapporto pastorale, perché il poeta «affront[a] il massimo nel minimo, nell’insignificante, nell’inutile, nell’infimo, nel ridotto, nel semplice frammento, nella piccola piega, nel dettaglio. Affront[a] il visibile nell’invisibile, l’assoluto nel debole e relativo». Aggiungendo che ascoltare la natura e affinare lo sguardo, che è il primum della sua poesia (essere “lettori del mondo” dice), consente una capacità di apertura al reale e di ricerca di senso che solo “l’altro” – cose, persone, fenomeni naturali – e “l’Altro” – Dio – possono dare.
Autore di numerosi libri di teologia, Tolentino Mendonça acquista nella Chiesa un ruolo di sempre maggiore importanza: Benedetto XVI lo nomina consulente del Pontificio istituto per la cultura; Papa Francesco lo nomina archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, vescovo nel 2018 e cardinale l’anno successivo, nonché primo prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione. Animato da interessi che spaziano dalla letteratura alla fotografia all’arte figurativa al cinema alla musica contemporanea, figura “di frontiera” tra mondo laico e cattolico (protagonista fra l’altro di un’amichevole disputa con il suo connazionale José Saramago), tiene da anni una rubrica su “Expresso”, il settimanale (laico) più diffuso del Portogallo che si intitola “Que Coisa são as Nuvens” (Che cosa sanno le nuvole); per rimarcare la suggestione pasoliniana, le tre sezioni del libro in cui molti di quegli articoli sono confluiti si intitolano “Comizi d’amore”, “Teorema”, “La terra vista dalla luna” (troviamo queste e molte altre informazioni in uno studio di Francisco Maria Leote de Almeida Dias: “José Tolentino Mendonça e Pier Paolo Pasolini: due poetiche sulle orme di San Paolo”, facilmente reperibile online).
Della poesia di Tolentino Mendonça i lettori italiani avevano potuto conoscere nel 2006 una scelta antologica, La notte apre i miei occhi, Edizioni ETS, a cura di Massimo Masini e i “quasi-haiku” frutto di un viaggio in Giappone, di Il papavero e il monaco, Qiquajon, 2022. Ora, sotto il titolo Estranei alla terra, possono disporre di un significativo corpus di poesie. Pubblicato da Crocetti nella bella traduzione di Teresa Bartolomei e con prefazione di Alessandro Zaccuri il libro, già uscito nel 2022 in Portogallo presso Assírio & Alvim, ospita due raccolte: La strada bianca del 2005 e Teoria della frontiera del 2017.
Ascolto, attesa e ricerca nel mondo materiale di una rivelazione di ciò che mondo materiale non è, parola che emerge da quel silenzio e da quell’attesa. Una poetica di questo genere non è originale, anzi. Carlo Bo osservava, a ragione, che “l’attesa” è una cifra costitutiva della lirica novecentesca. Ci si muove entro un filone che accomuna poeti strictu o lato sensu religiosi, come Ungaretti, Celan, Eliot, Rebora, Boine, Turoldo, Luzi, Cristina Campo, ma anche come Montale, visitato dalle sue epifanie, o addirittura Fortini, animato dalla tensione verso un “oltre” che era storico e non metafisico.
Dal canto suo, un’altra figura eslege e “di frontiera”, Ernst Bloch, scriveva che “dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta. Dove invece si ha costantemente di mira anche l’orizzonte prospettico, il reale si manifesta come ciò che esso è in concreto, come intreccio di processi dialettici che si svolgono in un mondo incompiuto” (Il principio di speranza, Garzanti, Milano 2005). Parole in qualche modo accostabili alle dichiarazioni di Tolentino Mendonça: a quelle prima ricordate («Affrontare il visibile nell’invisibile, l’assoluto nel debole e relativo») e ad altre ancora: «Perché l’orizzonte di verità è, al limite, invisibile. È in rivelazione. Dobbiamo accettare le rappresentazioni, accoglierle, capire il loro significato e oltrepassarle. Dobbiamo scrivere la poesia di Dio per cancellare la poesia di Dio. E cancellare la poesia di Dio per scrivere la poesia di Dio» (paradosso e contraddizione che sembra echeggiare un altro aforisma di Bloch, per cui solo un ateo può essere un buon cristiano e viceversa).
Alle dichiarazioni di intenti, a queste come ad altre, possono seguire poesie buone, mediocri o insignificanti. Quelle di Tolentino Mendonça sono molto spesso straordinarie, almeno a parere di chi scrive.
Lo sono nella misura in cui l’autore sa cogliere quei momenti in cui realtà ed esperienze vissute sono attraversate da una tensione e da un’energia che le rendono significative perché le proiettano verso un’altra dimensione di senso.
«Il mondo misterioso in movimento / si trasfigura senza mai avere un presente» recita una bella poesia di La strada bianca (“Rare Bird-Flower Paintings”, p. 39). Il mondo che questa poesia interroga, ascolta e sollecita a rispondere è dunque “misterioso” perché lo sguardo è inevitabilmente umano: è lo stesso sguardo di cui parla San Paolo nella Lettera ai Corinzi, quando dice che «Ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto». Questo limite del conoscibile che è nella condizione umana si riverbera anche nelle parole, insufficienti eppure necessarie:
Una poesia si esprime in frasi spezzate / linee di corrente in collisione, esplosioni irrisorie / ma è in attesa di qualcosa / di abbastanza luminoso / qualcosa / al di là dello scorrere stremato dei torrenti / che verso l’alto elevi / la stagione impossibile / il momento in cui la lingua degli uomini / non può mentire (La stagione impossibile, p. 89)
Tuttavia questo campo di tensioni che attraversa il mondo umano non trasforma le immagini, i gesti e le figure della vita in vuoti simboli o in una qualche crittografia, non fa cioè perdere loro umanità e concretezza.
Così è delle gite domenicali di questi bambini a caccia di oggetti da esporre “sul tavolo di cucina”:
Lasciavano la città diretti al mare / verso luoghi che assomigliavano / a una grazia di cui erano in cerca: / nelle carcasse di barca, semisepolte nella sabbia / spiavano con attenzione il silenzio delle specie / acquietavano le parole in un gioco puerile / intercalato da spazi insostenibili // Rientravano vittoriosi da quella archeologia domenicale / con rami secchi e piccole forme / che depositavano sul tavolo di cucina / ignorando che si trattava non di primizie ma di spoglie / perché era un impero quello che stavano per perdere // Colmi di eccitazione sarebbero tornati un’altra volta / ed è strano come l’incanto nel frattempo si è dissolto / la barca è scomparsa nella nebbia / orme di animali in corsa / fanno tremare il viottolo di freddo / avanzando separati osservano sgomenti che al paesaggio / così prezioso manca un manico o ha un bordo scheggiato / difetti in precedenza occultati da una mano ingannevole // Non ne fecero parola tra loro, ma avevano già deciso / la prossima settimana picnic in campagna (Un picnic in campagna, p. 41)
La vicenda domestica dilata progressivamente il suo senso fino a diventare un universale: l’eccitazione, la scoperta, la perdita (la fine dell’infanzia), il trascorrere parallelo delle proprie vite e del mondo dentro un tempo che travolge, il disincanto eppure l’intenzione di proseguire la ricerca, magari su altre piste.
Una delle situazioni ricorrenti nelle poesie di Tolentino Mendonça è la ricerca o l’attesa di una rivelazione. Talvolta essa assume l’aspetto di un incontro inquietante (l’horror sacri dei latini?) con le forze numinose che agitano la natura:
Un bianco lunare, labili presagi / i galli da combattimento mettono in fibrillazione il giardino / come è rapido un luogo all’avanzare del vento […] (Radura, p. 55)
Lungo le scarpate, nei sentieri di erba e sabbia / in boschi ombrosi in cui i faggi si rinnovano / gli animali non stanno più sul chi vive / non c’è più nessuno a dare loro la caccia // la pioggia disegna circoli perfetti / nei pozzi dei contadini / come negli stagni // il fruscio d’argento del fogliame / anticipa il passo dell’angelo, nel buio (Il passo dell’angelo, p. 43)
Questi incontri con l’Altro possono a volte ambientarsi anche nei luoghi privati e quotidiani, come la propria casa:
Dopo aver chiuso tutto, apro di nuovo la porta / e corro barcollando verso la vuota oscurità / mi fa paura in certi momenti la compagnia / di ciò che non conosce sonno / la sua resistenza nel nostro spazio / mosso da altre forze // Ma mi succede anche di accendere prima la luce/ e solo allora / provare una paura folle della casa che mi accoglie / e dei suoi mulinelli impercettibili / che sembrano farsi sempre più vicini / come se stessi per essere ucciso / per mano stessa di Dio // A malapena mi risveglio vivo da cose come queste […] (Platani, p. 65)
L’incontro con il divino non è quindi sempre pacifico: può essere una lotta. Lo stesso accadde a Giacobbe, che per tutta una notte lottò con “un uomo” (Genesi, 32) – che in altri racconti biblici (Osea, 1, 12) diventa “angelo” e poi “Dio” – fino a quando non fu benedetto: offeso nel corpo, ma vincitore.
Ma nella poesia di Tolentino Mendonça c’è anche un’altra dimensione di incontro con il divino, non individuale ma collettiva, che consiste nel riconoscere il divino negli ultimi e nel pensarli come propri simili. Il Deuteronomio ricorda a tutti di essere clementi con il prossimo perché tutti siamo stati schiavi in terra d’Egitto (e all’Esodo allude l’immagine del “mare che torna a squarciarsi”):
Gli angeli di Jahvè saranno sempre clandestini // Riempiono i primi bus diretti in centro / leggono i quotidiani a diffusione gratuita / in attesa che il mare torni a squarciarsi / in una camera subaffittata di periferia / dove i supermercati non si chiamano Conad e Rinascente / ma Lidl o Discount // È facile identificare il loro volto trasparente / perché ad essi appartiene la solitudine […]// Nelle grandi piazze d’Europa ovunque si vada / lo stesso volto dietro gli schermi vitrei della polizia / una sorta di fantasma / indivisibile, ben al di là dei confini / anche se oggigiorno l’esodo richiede una pila di documenti // Tutti i testi cospirano contro la materialità del corpo / per questo c’è chi crede nella sua resurrezione (Clandestini, p. 45)
La capacità di immedesimarsi con il mondo degli ultimi è uno degli elementi che spiega la fascinazione che su Tolentino Mendonça ha esercitato Pasolini, ricordato con gli occhi asciutti nella poesia Ostia (p. 35). Un altro è probabilmente anche la capacità di sentire «il peso del nostro corpo come il peso di una domanda inescusabile che facciamo al reale – e che accettiamo che il reale ci faccia.» («Una conversazione con José Tolentino Mendonça, Roma, il 19 novembre 2015» riportata nello studio prima citato di Almeida Dias.)
Al “corpo”, alla materialità della vita umana, alla contaminazione tra puro e impuro è dedicata un’intera sezione (Sans-papier) della raccolta La frontiera. Contro ogni astrazione, contro ogni tentazione di una religione concepita come sola trascendenza, che ignora questo mondo in attesa dell’altro, José Tolentino Mendonça ricorda che:
ogni corpo è sempre senza speranza / e, tuttavia, la speranza / solo ai corpi appartiene. (Cadere cos’è, p. 145)
José Tolentino Mendonça è stato insignito il prestigioso “Premio LericiPea Golfo dei poeti” alla carriera, che vede da anni tra i suoi promotori i cantieri navali Sanlorenzo.