Yascha Mounk, Popolo e democrazia / Il populismo come requiem della democrazia liberale
La fase politica che viviamo in Italia si contraddistingue per una distonia drammatica. Da un lato la permanenza del vecchio, ovvero dei protagonisti di un ventennio politico che ha al contempo plasmato e saturato l’immaginario degli elettori. Dall’altro l’emergere del nuovo che tenta di emanciparsi dal recente passato – la Seconda Repubblica – per inaugurare una nuova stagione in cui finalmente saranno protagonisti i cittadini.
Non è un caso che a surriscaldare uno dei momenti più instabili della democrazia italiana contribuisce anche il film di Sorrentino Loro 1 e 2, in cui si mette in scena un frammento della vicenda berlusconiana attraverso un iperrealismo agonistico in cui realtà e immaginazione (sempre più simili) competono a chi è più inimmaginabile. Nel film è palese la relazione tra la frenesia compulsiva di ciò che accade intorno alla figura del leader e che vuole catturarne l’interesse, e la pace serafica della sua dimensione quotidiana, sostanzialmente inerte e fuori dal tempo. Lo stesso rapporto ciclico tra stasi e velocità è usato da un autore che condivide con il film di Sorrentino anche il periodo d’uscita in Italia, insieme a una certa idea di inossidabilità del berlusconismo rispetto alla vicenda politica nazionale. Sin dall’introduzione di Popolo e democrazia, pubblicato in Italia per i tipi de La Feltrinelli, Yascha Mounk considera il berlusconismo come matrice dialettica dell’attuale populismo, nel senso che quest’ultimo ne rappresenta la reazione ma anche il più degno discendente. Per questo egli dubita dell’efficacia di “combattere il populismo corrotto che ha prevalso in Italia per vent’anni con un populismo un po’ meno corrotto” (p. 12). L’autore coglie con un certo anticipo l’ambiguità post elettorale del leader di Forza Italia: al contempo argine filo-europeista e precondizione dell’avvento del nuovo governo populista. Sino al colpo di scena della sua “riabilitazione” tanto discussa dai media, in seguito alla quale l’accordo 5 Stelle/Lega è entrato in una fase di forte turbolenza.
Come nota Mounk, i due fenomeni politici corrispondono esattamente a due cicli diversi della vita democratica del paese: il berlusconismo è la massa inerte che per vent’anni ha mantenuto pressoché immutate le relazioni di potere all’interno del sistema democratico. Il populismo contemporaneo è invece l’accelerazione improvvisa che, sebbene ambisca a rigenerare il sistema dalla base, potrebbe decretarne il declino inesorabile. Per questo la “fusione” a freddo tra due diversi orientamenti populisti è salutata con orrore dalla stampa nazionale e internazionale che, paradossalmente, cade nella trappola semiotico-interpretativa in cui si sono già arenati parecchi opinionisti nel caso della vittoria di Trump o della Brexit: scagliarsi contro il verdetto del popolo, antiestablishment e antieuropeista, per demonizzare il nascente programma di governo – ovvero il famigerato “contratto – che nelle sue imprecisioni e nei suoi eccessi non è altro che la traduzione operativa della volontà stessa del corpo elettorale.
Dal mare magno di pubblicazioni sul tema caldo del populismo – che come hanno dimostrato Manuel Anselmi e Marco D’Eramo si è gonfiato impressionantemente negli ultimi 5 anni – lo studio di Mounk si distingue per il suo livello di sistematicità e di attenzione all’attualità. Sin dall’introduzione, aggiornata alle elezioni politiche italiane a mo’ di commentario del loro risultato indeciso, si capisce che il punto di vista dell’autore, seppur critico, va alla ricerca di un’interpretazione profonda e non di un semplice stigma capace d’esorcizzare l’ulteriore propagazione del fenomeno. Per questo motivo l’autore fa spesso riferimento al lavoro di Müller (Egea 2016, da me già recensito per doppiozero), dal quale si discosta proprio per il tentativo di formulare una comprensione autentica del populismo, senza volerlo esecrare programmaticamente. Un’operazione paradossale proprio perché l’autenticità non è solo il fine di un metodo d’analisi comparativo e interdisciplinare che esamina le affinità e differenze tra i numerosi tipi di populismo, attraverso una varietà di approcci: storico, politologico, mediologico ecc. L’autenticità, o meglio la pretesa di autenticità, è l’oggetto stesso dello studio di Mounk.
Il populismo difatti, nelle sue molteplici espressioni, si caratterizza per essere la voce autentica del popolo. Da Trump alla Le Pen, dai 5Stelle allo Ukip, l’idea di questa contrapposizione tra noi e loro, ovvero tra la radice autentica della sovranità – il popolo – e l’establishment che ha dirottato la democrazia dalla sua missione originaria, anima il linguaggio della nuova politica. Tale esigenza influenza fortemente la comunicazione stessa delle nuove formazioni politiche che, ben lungi dal voler rievocare le magnifiche sorti e progressive di un certo utopismo sviluppista, optano per formule nostalgiche in linea con la loro vocazione retrotopica (direbbe Bauman). Ne è un esempio la strategia di marketing esperienziale di Alternative Fur Deutschland tutt’altro che “esotica”, dato che ricorda nella scelta delle location e in ogni minimo dettaglio l’estetica delle cittadine della provincia tedesca tra anni ottanta e novanta, come lo “squallido palazzetto dello sport”, insieme ai manifesti che somigliano alle “slide del Power Point” (p. 53).
Altra importante dicotomia su cui lavora l’autore è la contrapposizione tra semplicità e complessità. Si tratta di una questione chiave e non semplicemente politica ma direi peculiarmente epistemologica (Mounk del resto cita spesso l’apologo del pollo di Russel). Dopo la sbornia di affascinanti teorie della complessità che dagli anni cinquanta sino a oggi hanno animato il dibattito scientifico e in qualche modo sostenuto l’avvento di una società postindustriale, globalista e tecnocratica, tanto il marketing quanto la politica scoprono la forza dirompente della semplicità (si pensi alla simplicity di John Maeda applicata al primo iPod). Il populismo non fa altro che tradurre questa voglia di semplicità nei termini di un programma e di un’azione politica alternativi. Difatti la “propensione dei leader populisti a offrire soluzioni semplici” assume già il rischio che le nuove soluzioni proposte possano “aggravare proprio quei problemi che avevano scatenato la rabbia popolare” (P. 45). Ma allora perché i partiti dell’establishment hanno seguito un approccio complesso laddove le soluzioni erano così semplici? O perché sono corrotti o perché lavorano in segreto per interessi esterni.
Da un punto di vista di framework teorico sono due le categorie politiche che orientano il discorso di Mounk: la democrazia illiberale e il liberalismo antidemocratico. Queste due categorie, disposte tra loro in relazione di chiasmo, rappresentano da un lato le forze che stanno letteralmente smembrando la democrazia liberale, dall’altro il limite stesso verso cui tendono i processi politici contemporanei. Se il liberalismo antidemocratico riguarda difatti le istituzioni non elette, la tecnocrazia e infine le strutture sovranazionali che imbrigliano la sovranità “locale”, la democrazia illiberale invece segue il verdetto popolare che si rivela esemplarmente in alcuni istituti specifici, come nel caso discusso del referendum svizzero contro le moschee. La costruzione dei minareti fu difatti ammessa o se si preferisce imposta dal Tribunale amministrativo del Canton Soletta, nonostante il ricorso in appello degli abitanti del posto (p. 52), ma poi rinnegata dal referendum popolare che fu sostenuto da una “coalizione di attivisti di estrema destra”, la cui iniziativa vittoriosa impose il divieto di costruire nuove moschee in Svizzera.
Uno dei momenti analiticamente più validi del libro è il paragrafo in cui si esamina la questione legalistica, in cui l’autore discute il rapporto tra istituzioni votate e non votate e da cui emerge chiaramente che la maggior parte delle conquiste liberali delle democrazie moderne sono non votate, cioè decise da istituzioni giuridiche. Ovvero dalla “revisione giudiziale” che a detta dell’autore si è diffusa dal 38% dei paesi che la praticavano nel 1951, fino all’83% nel 2001 (p. 73). Dal suffragio universale per le donne alla fine della segregazione razziale, dall’abolizione (e reintroduzione) della pena di morte alla legalizzazione dell’aborto, dalla censura per i media sino alla depenalizzazione dell’omosessualità, in Usa la Corte Suprema ha affermato i principi liberali senza passare per la volontà popolare (che con buona probabilità non li avrebbe sposati). Ciò è ancor più evidente nei “momenti di crisi” (p. 75), quando la revisione giudiziale rappresenta forse l’unica tutela delle minoranze, i cui diritti potrebbero essere minacciati da un legame meno razionale e più emotivo tra leader politici ed elettori. In queste pagine, anche senza citarlo, viene messo efficacemente in discussione un argomento molto caro ai pochi intellettuali populisti che si scagliano contro ciò che Christopher Lasch chiamava “strategie legalistiche” (si veda la mia recensione per doppiozero del libro di Lasch). Ovvero il modo in cui la sinistra americana e poi europea ha rimosso le radici stesse della sua missione – la lotta contro la diseguaglianza economica – per sposare invece la vulgata dei diritti civili tout court, in protezione delle molteplici minoranze, che la colloca dalla parte delle istituzioni non votate e dunque più generalmente dalla parte della tecnocrazia e contro la volontà autentica del popolo.
Prima d’esaminare dettagliatamente i fattori che stanno determinando il progressivo sgretolamento della costruzione democratica, l’autore si cimenta con la descrizione di una deriva per così dire interna, in un capitolo in cui trionfa una sequenza sconcertante di grafici che dimostrano l’impressionante crisi di credibilità delle istituzioni democratiche, in Occidente ma anche nel mondo, insieme alla crisi di fiducia degli elettori nei confronti dei politici. Se negli anni settanta il 40% degli elettori americani mostrava fiducia nei membri del Congresso, nel 2014 “il dato era precipitato al 7% (p. 97). Come dimostra anche la crisi di fiducia nei confronti dei Presidenti francesi, già bassa con Chirac ma in declino vertiginoso con i successivi, fino all’inesorabile tonfo di Hollande. È impressionante la testimonianza di un senatore americano che ammette di aver visto acuirsi rabbia e diffidenza del corpo elettorale (p. 99) nei suoi confronti, forse anche a prescindere dall’azione incoraggiante dei social media. Questa “recessione democratica” (p. 100) è inoltre confermata da sondaggi che registrano la sostanziale indifferenza di alcune fasce di cittadini all’eventualità di una deriva autoritaria.
Se gli anziani che hanno conosciuto guerre e dittature si pronunciano decisamente contro l’autoritarismo, un terzo dei millennial dei paesi occidentali non teme per la morte della democrazia, a eccezione di quelli usciti da pochi decenni da esperienze totalitarie (pp. 108-117). Il titolo efficace di geografia del risentimento aiuta Mounk a introdurre ridiscutere il medesimo problema da una prospettiva diversa, passando dalla questione anagrafica a quella geografico-culturale (p. 156). Nel tentativo di smontare l’argomento che vuole il populismo come reazione alla convivenza multietnica, laddove i leader populisti stravincono solo nelle aree periferiche più omogenee e in cui la presenza di una singola etnia è prevalente.
Tra i fattori “esogeni” che intervengono sul cambiamento, Mounk dedica un intero capitolo alla questione dei social media, introdotto da un interessante panegirico sulle virtù dei mass media che hanno “limitato la diffusione di idee estremiste”, alimentato valori condivisi e “rallentato la diffusione delle fake news” (p. 128). Tale sistema, sostenuto dalla fase di boom economico e dai nuovi stili di vita, in seno a società monoetniche o a dominanza di una singola etnia, ha consolidato la struttura delle democrazie moderne. Tali elementi, descritti in modo forse troppo valutativo come implicitamente positivi, ci aiuta però a riflettere sugli sviluppi stessi della questione. Se una serie di fattori contingenti ha cioè reso possibile la cristallizzazione stessa della democrazia moderna come una pacchetto, potremmo quasi dire un prodotto con uno specifico ciclo di vita, si pone necessaria una riflessione attenta sulla sua senescenza e/o sulle possibili traiettorie della sua diversificazione. In questo senso il populismo potrebbe essere nella peggiore delle ipotesi un velo, una copertura che cela dietro la sua hipness una pericolosa deriva autoritaria.
Oppure, tornando alla metafora del ciclo di vita, esso potrebbe semplicemente essere una modalità di diversificazione del prodotto “democrazia”, ovvero di superamento verso qualcosa che meglio corrisponde ai gusti e ai punti di vista del consumatore-elettore. In questo sta la profonda paradossalità del fenomeno. Esso difatti si scontra con l’idea di una politica pervasa dal marketing e dalla comunicazione, ma esso stesso è la prosecuzione di tale approccio con altri mezzi. Nelle stesse pagine difatti l’autore torna a criticare giornalisti e politologi per aver semplificato troppo il discorso sul populismo attraverso un approccio monocausale. Torna dunque il tema epistemologico della complessità di un fenomeno che appunto richiederebbe una visione più ampia, ovvero multidimensionale ma che è proprio quella a cui la “semplicità” del populismo si contrappone, considerandola come lo strumento analitico della tecnocrazia. Nella parte finale del libro colpisce la sequenza di titoli all’infinito con funzione di imperativo – Addomesticare il nazionalismo, Risanare l’economia, Rinnovare la democrazia, Lottare per le nostre convinzioni – come fece qualcuno in passato, che di populismo se ne intendeva.