Conversazioni di arte contemporanea / Il rimosso nell'opera di Marzia Migliora
Si inaugura con questa intervista il blog di Ilaria Bernardi: Conversazioni di arte contemporanea, che propone dialoghi con note figure dell’arte italiana (diverse per provenienza, generazione e ruolo) tesi, anziché a recensire eventi in corso, a ripercorrere il passato dei singoli interlocutori per poi cogliere il loro punto di vista sul presente e sul futuro dell’arte contemporanea, riflettendo su come siano cambiate le modalità di agirvi e quali siano le prospettive per le nuove generazioni desiderose di farne parte.
Carl Gustav Jung nel 1922 definì l’opera d’arte qualcosa che supera l’ambito soggettivo del vissuto individuale dell’artista per assumere un valore intersoggettivo. L’artista Marzia Migliora sembra dar conferma a tale postulato junghiano attraverso un lavoro che, prendendo spesso spunto da testi letterari, memorie individuali e collettive, fatti di attualità, induce esperienze condivise, riflessioni corali e cortocircuiti di pensiero.
Passato/presente; vedere non vedendo/non vedere vedendo; amore/morte; gioco/paura; immaginazione/realtà sono solo alcune delle polarità che entrano in conflitto (o in rapporto creativo) nelle sue opere, capaci di spaziare dalla fotografia al video, alla performance, al disegno, fino all’installazione site-specific.
Comune intento tra i diversi media adoperati e tra le molteplici tematiche evocate dall’artista è far emergere i limiti e le potenzialità percettive dell’individuo: sottendere dunque al corpo quale strumento di ricezione, misura del mondo e bussola della nostra collocazione all’interno di esso.
Dalle prime fotografie scattate nei musei di anatomia patologica, ai lavori ispirati o eseguiti in edifici dismessi, alle installazioni dedicate alla cecità fisica o mentale, fino ai progetti con riferimenti alla morte o inerenti alle problematiche dell’attuale mondo del lavoro, Marzia Migliora sceglie quale motore del suo operare il rimosso: ovvero tutto ciò che la società nasconde, mette in disparte, reprime, in quanto altrimenti fonte di angoscia, senso di colpa e del freudiano sentimento del perturbante. Così come in psicanalisi il rimosso è ciò che deve essere portato in luce per superare una nevrosi, nel lavoro di Marzia Migliora è il veicolo per innescare riflessioni su noi stessi, su ciò che ci circonda e che ci ha preceduto nello spazio e nel tempo.
Nata nel 1972 ad Alessandria, Marzia Migliora vive e lavora a Torino dove abbiamo il grande piacere di incontrarla.
L’obiettivo di questa conversazione sarebbe di ripercorrere la tua vicenda di artista...
È sempre interessante ricordare, ripercorrere, riguardare il mio lavoro dopo tanti anni. Per fare un passo avanti devo sempre farne uno indietro, rivolgendomi a ciò che ho realizzato in precedenza: è come ritrovarsi, è come tornare a guardare il proprio operato con uno sguardo più aperto.
Ed è proprio questo che con la nostra conversazione cercheremo di fare. Partiamo quindi da ancor prima dei tuoi inizi. Quando hai cominciato a nutrire interesse per l’arte?
Da bambina il mio mondo era circoscritto alla cascina, peraltro isolata, dove vivevo. Solo in seguito mi iscrissi al liceo artistico a Casale Monferrato. Poi una mia amica mi parlò del corso di fotografia che stava frequentando a Genova e iniziò a prestarmi la sua macchina fotografica così che io potessi inserire alcuni miei scatti tra i suoi e sottoporli ai docenti del suo corso. Le mie prime fotografie raffiguravano ritratti di famigliari e amici e vedute della mia abitazione. Della fotografia mi affascinò fin da subito qualche cosa che al tempo non sapevo bene riconoscere, ma che ora riconosco: il suo rapporto con la morte, con ciò che c’è ma non si vede.
Terminato il liceo artistico, scelsi di iscrivermi al corso triennale di fotografia presso la Fondazione Studio Marangoni di Firenze e per stampare i miei negativi, oltre all’orario del corso, improvvisai addirittura una piccola camera oscura nel mio appartamento fiorentino. Alla Fondazione Studio Marangoni imparai innanzitutto a concepire un progetto fotografico, ovvero come riflettere a lungo su un unico soggetto d’interesse. Da qui le mie fotografie in bianco e nero scattate all’interno di musei di storia naturale, di anatomia patologica, di medicina, attraverso cui indagare come il museo conservi oggetti che custodisce, come congeli le nostre radici e come le mostri. Inoltre, per quanto riguarda nello specifico i musei di anatomia patologica, mi interessava far emergere l’idea di una diversità che in quei luoghi veniva catalogata, archiviata e schedata. Mi ricordo, ad esempio, che al museo di anatomia patologica Taruffi di Bologna feci un ritratto a un calco in cera del mezzobusto di una donna con tre seni che, a causa di tale anomalia, fu chiusa in manicomio al fine di trovarle una ‘collocazione’ nella società. Realizzai così un vastissimo archivio fotografico che ancora oggi guardo spesso come se fosse un’ampia enciclopedia di immagini e di visioni.
Durante gli anni di studio a Firenze eri solita frequentare l’ambiente artistico cittadino?
Visitavo spesso i musei di arte antica, le chiese e le ville storiche di Firenze per fotografarle, ma non conoscevo ancora bene il mondo dell’arte contemporanea. Alla Fondazione Studio Marangoni però venivano invitati a tenere lezioni noti fotografi di fama internazionale. Tra questi, Martin Parr è riuscito a cambiare il mio modo di guardare: durante il suo workshop assegnò un’esercitazione a noi studenti chiedendoci di realizzare alcuni scatti immaginando di essere una mosca. Proprio per mimare il volo della mosca, scelsi per il mio esercizio, di riprendere il pesce fresco al mercato di San Lorenzo facendo planare la macchina fotografica, senza nemmeno guardare dentro l’obiettivo.
Risale a quel periodo anche la prima vendita di una mia fotografia: l’acquirente fu il regista James Francis Ivory che, soggiornando a Firenze, ebbe modo di vedere il giornalino della nostra scuola dove era stata pubblicata una mia fotografia raffigurante una finestra della mia casa in campagna, con degli oggetti appoggiati sul davanzale, e chiese alla scuola di poterla acquistare.
Potresti ricordare le tue prime e più sconosciute esperienze espositive?
Le mie prime esposizioni corrispondono alle collettive degli studenti organizzate dalla scuola al termine di ogni anno scolastico. Alla fine del primo anno esposi un lavoro dedicato a edifici abbandonati, mentre alla fine del secondo e del terzo anno esposi delle serie fotografiche realizzate all’interno di musei.
Quando, come e perché dalla fotografia ti sei avvicinata all’arte contemporanea del video, della performance, del disegno e dell’installazione?
Terminata la Fondazione Studio Marangoni e tornata nei miei luoghi d’origine, ho continuato a dedicarmi alla fotografia, senza però sapere come proseguire anche perché non avevo più alcuna possibilità di confronto con persone del settore e colleghi. Inviai allora una cartellina con cinque piccole stampe fotografiche all’Archivio giovani artisti di Torino che aveva lo scopo di raccogliere materiali da giovani talenti e renderli disponibili a curatori e addetti ai lavori. Nel 1995-96 Luisa Perlo del gruppo «a.titolo», consultando quell’archivio per trovare materiale per un’esposizione prevista all’Unione culturale Franco Antonicelli di Torino, trovò la mia cartellina e rimase molto colpita dal testo da me scritto a macchina che indicava di ciascuna stampa titolo, didascalia, luogo dello scatto, dimensioni originali e una sinossi che descriveva il progetto. Decise allora di contattarmi e, dopo esserci incontrate a Torino con Giorgina Bertolino (altra fondatrice del collettivo curatoriale «a.titolo»), quelle fotografie furono esposte alla mostra da loro curata all’Unione culturale Franco Antonicelli.
Fino ad allora mi ero sempre considerata una fotografa: grazie all’incontro con le «a.titolo» iniziai invece a capire che potevo essere anche qualcos’altro e che c’era un mondo infinito oltre la fotografia. Iniziai così a cercare di sperimentare e rompere i miei stessi criteri di visione. Nel 1999 dalla fotografia passai pertanto al video, realizzando una serie di undici brevi video nel cortile della casa in campagna dove vivevo da piccola. L’elemento per me interessante di quel cortile era la totale assenza di barriere: non c’erano staccionate a separare lo spazio possibile da quello impossibile. Mi sono cioè resa conto di aver vissuto un’infanzia in una dimensione spaziale e mentale sconfinata. In questi undici episodi del video dal titolo Chi c’è c’è ho nuovamente giocato nel mio cortile: una sorta d’esercizio di riappropriazione della memoria.
I video sono girati in soggettiva secondo un punto di vista ‘ribassato’: quello del gioco infantile. Ho voluto usare l’idea del gioco come principio per sovvertire la visione e per rivivere il luogo dove sono cresciuta e dove soprattutto ho imparato a immaginare, come se vi stessi giocando ancora una volta. In uno dei video, legai la videocamera al manubrio della bicicletta e feci il giro del perimetro del cortile come per mapparlo, mentre in un altro inserii la videocamera dentro un pallone da calcio bucato, lasciando fuori solo l’obiettivo, e la feci roteare per riprendere il paesaggio in movimento. In ciascuno degli undici video l’audio è in presa diretta, le riprese non hanno tagli e non c’è montaggio per far sì che la narrazione risulti intonsa, fluida e senza parole a evocare l’atto l’immaginativo, proprio ai bambini ma più raro per gli adulti.
La scelta del video come primo medium per fare arte forse è dettata dalla sua analogia con la fotografia (in quanto presa diretta dalla realtà), ma in seguito hai adottato anche la performance, il disegno, l’installazione, integrando spesso questi media in opere dal forte impatto percettivo e dal chiaro valore simbolico. Attribuisci una valenza specifica ad ogni medium che utilizzi?
No, non penso a priori al mezzo, ma parto dall’idea che nasce già con il medium più consono per realizzarla. La tecnica e i materiali che scelgo sono per me totalmente strumentali all’idea, non è possibile disgiungere l’una dall’altro: è il loro insieme a costituire l’opera.
Comunque, nonostante i molteplici media che ho adottato nel corso del mio lavoro, è la fotografia ad avermi insegnato a guardare lo spazio e il mondo, e a valutare la distribuzione delle cose al loro interno.
Al disegno sono arrivata alcuni anni dopo rispetto alla fotografia e al video, ma è presto diventata una pratica di cui non ho più potuto fare a meno: progetto e disegno, leggo e disegno; questo è il mio metodo di lavoro. Sentendo il bisogno di fare un passo indietro per farne uno avanti, sfoglio spesso i miei vecchi taccuini di idee, pensieri, progetti non realizzati dove trovo lo spazio e il percorso che intercorre tra un lavoro e l’altro e che il fruitore non può vedere ma esiste. Tornare su quelle tracce non necessariamente produce un’idea per un nuovo lavoro, ma apre piste d’indagine ancora inesplorate, mi fa guardare con un occhio diverso sia il passato, sia il presente, sia il futuro.
Il disegno è rimasto un medium fondamentale anche quando ho iniziato a lavorare site-specific. Quando mi trovo di fronte a spazi per me sconosciuti, sento sempre il bisogno di passarci del tempo, di appuntarmi idee e suggestioni, e infine di stilare un elenco di persone del luogo che desidero incontrare per individuare l’identità specifica di quel posto.
Oltre al disegno di progetto fissato sui miei taccuini, negli anni sono arrivata anche a un secondo tipo di disegno: quello che immagino come opera. In entrambi i casi però il disegno è per me un grande atto di libertà, di invenzione, privo di qualsiasi confine, e capace di rendere tutto possibile, alla stregua dell’immaginazione.
Quali sono gli artisti che hanno maggiormente influito sul tuo lavoro?
Essendo profondamente innamorata dell’arte, mi sono sempre interessata sia ad artisti contemporanei sia all’arte del passato, al cinema e al teatro. Sono sempre stata totalmente aperta a qualsiasi tipo di visione che riesca a mettermi in relazione con il periodo storico in cui è stata realizzata e a farmi vedere il mondo in maniera differente rispetto a quello che vedo. Ritengo che la storia dell’arte sia un patrimonio da guardare e riguardare, e che non sia possibile evitare di riferirsi ad essa, anche inconsapevolmente. A tal proposito è significativa l’opera Quelli che trascurano di rileggere si condannano a leggere sempre la stessa storia del 2009-2011, audio tour in dotazione presso il Museo del novecento di Milano.
Nel tuo lavoro si riscontrano numerosi e dichiarati riferimenti letterari. Come influisce la letteratura sul tuo modo di vedere la realtà e di fare arte?
La letteratura ha un ruolo importantissimo nel mio lavoro: ogni opera ha dentro e dietro di sé una bibliografia, anche quando non è dichiarata. Quando faccio esplicito riferimento alla lettura avrei piacere che il fruitore, individuando quel riferimento, leggesse il libro da cui è tratto quel pensiero, e poi tornasse a guardare il mio lavoro con occhi diversi. Talvolta nomino le mie opere con titoli di libri o citazioni: In the country of the last things, da un romanzo di Paul Auster; Aqua Micans, da una citazione di Simon Russell, L’ideazione di un sistema resistente è atto creativo, una citazione di Pier Luigi Nervi; Vita Activa, il titolo di un saggio di Annah Harendt; Viaggio intorno alla mia camera, dal libro di Xavier de Maistre; Quelli che trascurano di rileggere si condannano a leggere sempre la stessa storia, una citazione di Roland Barthes…
Per me i libri sono strumenti di lavoro (sulle loro pagine sottolineo, scrivo, pasticcio) così come lo sono le matite, i quaderni e la carta. Sono materiali vivi in grado di spostare i pensieri, suggerendo riflessioni su cui poi lavorare per trasformarle in qualcos’altro.
Oltre alla letteratura, le tue opere trovano spesso ispirazione dalla storia dei luoghi per cui sono concepite e dall’attualità…
Sì, la storia dei luoghi dove mi trovo a lavorare rappresenta il primo ambito di ricerca per concepire un progetto, la storia è le nostre radici, passando poi all’analisi della relazione tra il passato e all’attualità, che è la sola a far scaturire uno sguardo sul futuro.
Ad esempio, la personale Forza Lavoro, che poco tempo fa ho inaugurato presso la sede milanese della Galleria Lia Rumma, esemplifica bene questo mio interesse.
Il mio rapporto con Lia Rumma nasce dalla sua visione della performance Talk to me da me realizzata per la mostra Collectors One della Collezione La Gaia di Busca (Cuneo) e della personale Tanatosi alla Fondazione Merz di Torino. L’installazione Forza Lavoro, posta al piano terra della galleria e ampia dieci metri per nove, è ispirata a uno dei soffitti del Palazzo del Lavoro di Torino progettato da Nervi nel 1961 in occasione del Centenario dell’Unità d’Italia. Si tratta di un edificio di 46.000 metri quadrati, patrimonio storico dell’architettura, poi privatizzato e ora destinato a diventare un centro commerciale. In Forza Lavoro ho cercato di evidenziare ciò che non si vede: sui camminamenti laterali di quel Palazzo il soffitto è a nervature isostatiche perché Nervi ha voluto trasformare le linee di forza interne al cemento armato in un pattern decorativo modulare, portando alla vista ciò che avviene all’interno della materia. Io ho riportato quel disegno sul pavimento della Galleria Lia Rumma realizzandolo in mattonelle di carbone pressato, un materiale strettamente legato alla produzione di energia necessaria all’industria di quegli anni. L’installazione appare come un soffitto proiettato a terra, o come una fondamenta in procinto di erigersi, o come un rudere i cui frammenti sono in parte in superficie e in parte scomparsi.
All’interno del tuo lavoro, un motivo ricorrente è il corpo inteso come strumento per indagare i propri limiti fisici e psichici, ma anche come strumento di misurazione, forse alla stregua di Bruce Nauman…
Il corpo è uno strumento intelligentissimo in grado di adattarsi a molteplici situazioni. Lo scelgo come tema già a partire del 2001 nei video Ad occhi aperti!, Efi, 59 passi, e Ortiche, ma ritorna ancora oggi: penso ad esempio al video Fil de sëida del 2016, per realizzare il quale ho chiesto a due giovani uomini di camminare su un cavo teso tra il confine austriaco e quello italiano, nel tentativo di incontrarsi al centro. I passi dell’uno facevano però cadere l’altro: il travaglio vissuto su quel confine durante la prima guerra mondiale (si tratta di territorio austriaco, poi diventato italiano) e ancora oggi presente (recentemente è sorta l’idea di costruire un muro sul confine del Brennero), veniva così alluso e rivissuto attraverso il mio lavoro.
Il motivo del corpo inteso invece come strumento di misura emerge soprattutto nella personale Tanatosi che ho tenuto nel 2006 a Torino, alla Fondazione Merz. La mostra è nata dalla consapevolezza per cui i non vedenti sono dotati di percezione aptica, che deriva dalla combinazione tra la percezione tattile e la propriocezione derivante dalla posizione della mano rispetto all’oggetto.
Alla Fondazione Merz ho cercato di avvicinarmi a quel loro modo di esperire un corpo entro lo spazio, tentando di misurare l’ambiente espositivo attraverso il passo. Mi interessava indurre una riflessione su quanto sia cieca una persona che vede; desideravo provare a innescare la domanda su quanto (poco) vediamo noi e quanto invece è in grado di vedere una persona non vedente.
In seguito ho portato a sviluppo il medesimo tema del vedere/non vedere attraverso installazioni quali Ginnastica per ciechi – La corsa del cerchio realizzata nel giardino di Sant’Alessio all’Aventino nel 2012. In quell’occasione avevo allestito una struttura di trenta metri in rete elettrosaldata da cui era ricavata la frase di Samuel Beckett «Posso solo evadere con le palpebre serrate» a postulare che l’unico spazio veramente libero è quello dell’immaginazione. Essendo venuta a conoscenza della storia legata a quel luogo (un tempo era frequentato da bambini non vedenti ospiti del vicino istituto), ho voluto tirare fuori quella storia sepolta, riattualizzandola per far pensare a come quel luogo, essendo oggi frequentato da rifugiati, sia comunque destinato ad accogliere soggetti deboli e in difficoltà nel trovare la loro collocazione nella società. In modo analogo alle poltrone collocate nel 2012 davanti ad alcune opere della Collezione del Castello di Rivoli a permettere un Viaggio intorno alla mia camera, nonché alla performance dello stesso anno, Capienza massima meno uno, che ha occupato l’intera hall del MAXXI, Ginnastica per ciechi – La corsa del cerchio sottende l’idea di evadere dalla regola e invoca l’immaginazione quale spazio di libertà assoluta.
Un altro motivo ricorrente nelle tue opere è il mare e la nautica…
Nonostante non abbia esperienza del mare e della barca a vela, ho sempre avuto una fascinazione per la nautica; soprattutto per la metafora del mare evidente nella mostra personale Rada del 2012. Il mare implica qualcosa che non si vede, una zona d’ombra che non vediamo, un sommerso, come sottolinea una definizione della manualistica nautica, che qui mi piace ricordare: «Opera viva: parte della barca sotto la linea di galleggiamento: il sommerso. Opera morta: parte della barca sopra la linea di galleggiamento: quella visibile».
Dopo questo breve excursus del tuo percorso artistico, come definiresti il tuo lavoro svolto fino ad oggi e quali prospettive vedi nel tuo futuro?
Per quanto riguarda il mio futuro, solitamente non mi faccio troppe domande, non guardo troppo avanti perché ho bisogno di tanto tempo per pensare e per fare ricerca.
Per questa ragione il mio percorso è stato lento ed è oggi come ieri in pieno sviluppo. Ho sempre creduto molto nella disciplina: amando questo mestiere, mi sono proposta fin dagli inizi di cercare di fare il meglio attraverso un impegno quotidiano. Il mio lavoro è molto pensato, è come una formula matematica che non riesco a risolvere finché non ho fatto i giusti calcoli: il primo passo è trovare l’idea, il secondo è provare a disegnarla, il terzo è scriverla, ma poi deve saper sopravvivere all’interno di uno spazio, allo sguardo e agli interrogativi dei fruitori. L’opera d’arte riuscita è per me uno specchio capace di mettere davanti allo spettatore qualcosa che lo faccia spaziare, aprire, pensare.
Oggi voglio più che mai che le mie opere continuino a restare aderenti al tempo che stiamo vivendo.
Per quanto invece riguarda il tuo rapporto con le ricerche emergenti, sei solita seguire anche i giovani artisti? Quali differenze noti tra il contesto storico-culturale dei tuoi esordi rispetto a quello dove questi si trovano oggi a cercare di far strada?
Sì, sono sempre interessata alle ricerche degli artisti emergenti. Rispetto a quando ho intrapreso la mia attività, forse per loro è più semplice trovare occasioni espositive per far conoscere le loro opere (ci sono molte più gallerie, ma soprattutto esiste internet), così come è più semplice andare all’estero, ospiti in residenze. Inoltre oggi i giovani emergenti sono ben consapevoli di cosa sia il mercato dell’arte, dell’importanza delle relazioni. Ma rispetto a quando ho intrapreso la mia attività, per loro è forse più difficile avere un badget per realizzare un lavoro, data l’attuale crisi economica.
Infine, quale consiglio daresti agli artisti esordienti che desiderano intraprendere la tua stessa strada?
Lavora, lavora, lavora! Fare arte, oggi come ieri, è un mestiere impegnativo perché implica un mettersi continuamente in discussione. Non credo ci sia altra possibilità affinché le idee crescano, dialoghino tra loro e vincano la vera sfida di ogni artista che è la durata nel tempo. Ciò che infatti accomuna il contesto passato e presente dove cercare di emergere e sopravvivere come artisti è la necessità di essere caparbi e di lavorare molto, oltre che di avere un pochino di fortuna.