Immagini da Amphipolis

23 Agosto 2014

Negli ultimi giorni i media di tutto il mondo hanno dato notizia del ritrovamento di una tomba monumentale datata tra il 325 e il 300 a.C. nel sito di Amphipolis in Macedonia. Le prime immagini video lanciate in rete mostrano l’ingresso sorvegliato da due sfingi monumentali, creature mitologiche assise sul confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Mi hanno emozionato molto, moltissimo. L’emozione ha generato grappoli di sensazioni e ricordi modificati dall’immaginazione: “not anymore…”, il frammento di una frase pronunciata dall’archeologo americano incontrato a Pessinus, il sole cocente sul pianoro, il mare liscio e perfetto di Assos con il gruppo di tombe romane su un lato, l’ombra di un platano, quattro colpi sul tavolo e una sigaretta spenta, una voce, il buio degli anfratti e il colore arancione del sole sulle palpebre chiuse, steso su tutti questi ricordi insieme al calore del sole sulla pelle. Si stendeva anche sulle parole “not anymore…” modificando il loro significato in modo del tutto inusuale e inaspettato, assegnando loro un peso, una fisicità, una concretezza che diversamente non avrebbero avuto.

 

 

Ho pensato che l’emozione fosse provocata dall’evento del ritrovamento, dal mio interesse per i siti archeologici visitati in Grecia e in Turchia nel corso degli anni, ma poco dopo ho compreso che non erano i luoghi mostrati dalle immagini ma le immagini in sé a interessarmi, che queste trasmettevano un modo di sentire, pensare e immaginare riferito a una visione del mondo nella quale l’immagine ha un peso diverso da quello attuale. Lo spiega molto bene Jean-Pierre Vernant nel suo saggio Nascita di immagini dove esamina il significato del termine eidōlon in riferimento a una concezione arcaica dell’immagine, portando come esempio il caso di Anticlea, madre di Ulisse. La sua immagine evocata dall’Ade appare del tutto simile alla persona nella presenza, nei gesti e nelle parole, ma quando il figlio tenta di abbracciarla, per ben tre volte gli sfugge. Scrive Vernant: “Questa inclusione di un essere altrove all’interno stesso dell’essere qui costituisce l’eidōlon arcaico come un doppio piuttosto che come un’immagine nel senso in cui noi l’intendiamo oggi”.

 

 

Certamente ci siamo allontanati da questa concezione. Come spiega ancora lo studioso, la dialettica della presenza e dell’assenza, di un essere che sotto la forma momentanea del medesimo si rivela fondamentalmente altro, è presente anche nel pensiero di Platone ma con un significato diverso: l’eidōlon, associato all’eikōn e al phantasma, diventa falsa apparenza, inganno, illusione priva di sostanza e realtà.

Tuttavia l’emozione di Ulisse agitato nel cuore all’apparire dell’eidōlon della madre è un sentimento che non è estraneo alla nostra sensibilità. L’immagine digitale delle due sfingi, che porta un passato morto e lontano all’interno di un presente vivo e vicino, ha agitato il mio cuore nello stesso modo. Siamo in una cultura diversa, certo, ma questo non ci priva dalla possibilità di emozionarci nel percepire in qualcosa, con tutta la forza dei sensi, il segno della presenza di qualcos’altro che, come dice Vernant, si trova altrove ma all’interno stesso dell’essere qui. Questo non ci impedisce cioè di avvertire un brivido nell’esperienza sensibile del mondo, di percepire la presenza di ciò che è altrove ma unito al vento sulla pelle e alla luce che abbaglia la vista mentre ci tuffiamo nel mare di Eraclea Minoa.

 

 

Immagini…

 

 

Se questo potere delle immagini si può trasferire da un medium all’altro, grazie a una metamorfosi dei codici e dei linguaggi, forse si può trasferire anche una visione del mondo. In questo caso le immagini delle due sfingi monumentali pubblicate in rete sarebbero documenti utili per un’archeologia della cultura visiva del presente.

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