Indigeni si diventa. Ritorni di James Clifford
L’antropologia è certamente una disciplina di andate e di ritorni. È andata in giro per il mondo. Dal 1871, data mitologica di fondazione della moderna antropologia sociale con la pubblicazione del testo Primitive culture di Edward Burnett Tylor, ci sono volute almeno quattro decadi prima che l’uscire dalle biblioteche, il viaggio e l’andare presso i popoli di cui si parlava diventassero prassi comune, accettata e richiesta per gli antropologi. E da quel momento, il quale ha anch’esso un eroe mitico fondatore, Bronislaw Malinowski e il suo viaggio alle Trobriand, l’andare e il ritornare tra gli indigeni – vicini o lontani – è diventato il movimento non solo fisico, ma soprattutto teorico ed epistemologico distintivo degli antropologi. La disciplina ha spesso riflettuto sui propri “ritorni a casa”, su quel “giro più lungo” come via più breve per tornare di cui parlava Clyde Kluckhohn, ma solo nell’ultima parte del secolo scorso si è fatta più attenzione ai ritorni e alle andate di quelli che a lungo sono stati considerati gli oggetti cristallizzati nel tempo dell’analisi antropologica, gli indigeni, quei “selvaggi” da cui proverbialmente Sir James Frazer si augurava di scampare.
Solo a partire delle ultime decadi del secolo scorso, ben più tardi dell’irruzione sulla scena politica dei movimenti terzomondisti e dei processi di decolonizzazione, anche nella disciplina antropologica inizia a farsi strada l’attenzione o, meglio, l’urgenza di considerare lo statuto storico e politico delle società fatte oggetto di antropologia, soprattutto si cercava di mettere in luce le strategie retoriche e narrative con cui queste popolazioni venivano rappresentate e quindi costruite. I testi antropologici diventavano quindi oggetto di analisi più degli stessi gruppi di indigeni di cui credevano di trattare. L’attenzione all’antropologo come autore e quindi anche all’autorità che esso esercita sottolineava il carattere finzionale di quello che fino ad allora era considerato l’oggetto dell’antropologia. Insomma, il verbo postmoderno, o forse il morbo, iniziava a penetrare la robusta costituzione di un’antropologia fondata sulla fiducia positivistica rispetto alla conoscibilità delle culture altre e del radicamento in un metodo di raccolta di dati basato sulla ricerca sul campo che aveva proprio nella sua materialità esperienziale la garanzia di accuratezza. Se, citando Clifford Geertz, l’antropologo soprattutto scrive, abbiamo in James Clifford uno dei principali protagonisti della minuziosa opera di critica storica, letteraria e culturale dei suoi prodotti letterari. Fin dalla metà degli anni Ottanta, infatti, il nome di Clifford è legato a un progetto di analisi e decostruzione delle “finzioni” etnografiche, delle retoriche poetiche e politiche che si nascondevano nei testi antropologici pensati come imprese conoscitive dotate di un proprio regime di scientificità. Volendo continuare la nostra narrazione mitologica possiamo prendere un singolo libro come momento culminante e seminale di questa ondata critica, il testo del 1986 intitolato Scrivere le culture, curato dallo stesso Clifford e George Marcus. “Quel dannato libro”, come poi ne parlò David Schneider, ebbe un’eco enorme nella disciplina, soprattutto in quella teorizzata, molto meno in quella praticata sul campo. A partire da questo testo, la riflessione sulle strategie retoriche dell’antropologo e sul suo posizionamento socio-politico – sovente identificato, a ragione ma spesso a torto, come un WEIRD: occidentale (western), istruito (educated), industrializzato, ricco, democratico; ma anche bianco e maschio – questa tensione critica nell’analisi delle sue parole portò con sé inevitabilmente la necessità del vaglio delle condizioni di possibilità di parola degli indigeni stessi “oggetti” di antropologia.
È proprio nell’onda lunga di questa storia che si colloca il libro di James Clifford recentemente pubblicato per i tipi di Meltemi, nell’accurata traduzione di Gilda Dina (purtroppo un po’ penalizzata da qualche refuso di troppo), intitolato Ritorni. In realtà, la traduzione italiana arriva con una decina d’anni di ritardo rispetto all’edizione in inglese e questo scarto temporale un po’ ne penalizza la portata innovativa. Si tratta di un testo che vuole confrontarsi con la molteplicità delle storie indigene di sopravvivenza e di trasformazione di quelle popolazioni native che molti credevano venissero spazzate via dalla modernizzazione, globalizzazione o occidentalizzazione, che dir si voglia. Molti preconizzavano la distruzione dei “selvaggi” come già lamentava il Claude Lévi-Strauss nei suoi Tristi tropici e quindi la necessità di un’etnografia di salvataggio che catalogasse il catalogabile, unendo le intenzioni positivistiche museali di un osservatore asettico a slanci umanitari dotati di forte indirizzo politico, oltre alla paura per la dissoluzione stessa dell’oggetto dell’antropologia e quindi della disciplina stessa. A dispetto di questi portatori di sventura, gli indigeni, e con loro pure gli antropologi, hanno dimostrato una caparbietà e una capacità di resistenza non contemplate nel modello ridotto del mondo antropologico come veniva abbozzato. Gli indigeni escono, come scrive Clifford, dallo stereotipo di “vittime patetiche o nobili messaggeri di verità ancestrali”, sfuggono sia dagli ideologici scopi umanitari che dalla tentazione oggettivante scientista, e ricompaiono sulla scena come attori sociopolitici autonomi, adattando e ricombinando i resti di un “modo di vita interrotto” di cui in Ritorni si prova a percorrere le molteplici e numerose narrazioni, a partire proprio da cosa significhi essere “indigeni” nel mondo attuale.
È reso chiaro fin da subito che qui non si tratta di osservare e descrivere un oggetto sociale esistente nel mondo esterno identificato come “indigeno”, ma occorre impegnarsi in un’esplorazione di una pluralità di processi di movimento su strade, si ricordi che il libro precedente di Clifford si intitolava proprio Strade, percorse e percorribili dai differenti processi di indigènitude. Questa è una riarticolazione culturale in cui “si riscoprono le tradizioni e si stabiliscono legami in base a storie coloniali, postcoloniali e globalizzate condivise”. Clifford prende il termine indigènitude facendone il calco sulla négritude teorizzata dagli intellettuali neri – Senghor, Césaire ed altri – raccolti attorno alla famosa rivista Présence Africaine: “una visione della liberazione e della differenza culturale che sfida, o quantomeno reindirizza, i piani di modernizzazione degli stati-nazione e del capitalismo transnazionale”. Si tratta di una performance culturale in cui vengono concatenati e riarticolati elementi culturali locali, nazionali e transnazionali, dai sistemi di parentela alle (auto)rappresentazioni sui media dei gruppi indigeni, pregna anch’essa, si direbbe, di retorica poetica e politica.
È nel racconto delle storie dei “ritorni all’indigeno” che Clifford esprime la sua costitutiva interdisciplinarità, coniugando lo sguardo e le pratiche dello storico, dell’“antropologo di antropologi”, del critico letterario, del praticante di cultural studies, ma soprattutto del narratore. Le storie che ci racconta stanno tutte nell’incrocio di tre iperoggetti, tre processi storici con relative narrazioni peculiari, che hanno segnato il nostro presente: la globalizzazione, la decolonizzazione e il diventare indigeni. Quest’ultimo soprattutto fa emergere una posizione teorica fondamentale, che contraddice tutti i sensi comuni, pure quelli delle antropologie spontanee locali: indigeni non si nasce, ma si diventa.
Il testo è organizzato in tre sezioni in cui vengono raccolti saggi e interventi già pubblicati. La prima è più schiettamente speculativa ed epistemologica, dove si cerca di coniugare la sostanza teorica dagli studi culturali e post-coloniali con l’approccio storico-etnografico con lo scopo di affilare gli strumenti concettuali per “comprendere l’agency indigena” in un modo “post-occidentale”, per aprirsi al riorientamento della visione del mondo che prenda sul serio le voci dei popoli indigeni. Questa operazione viene compiuta però da un posizionamento di accademico statunitense bianco, perché comunque, come acutamente segnalava già Valerio Valeri in un articolo uscito su Prometeo nel lontano 1996, è sempre l’autore a scrivere nella sua voce – e non è detto che questo sia un male – e inoltre la tensione alla multivocalità non deve rischiare di configurarsi come ventriloquio. Nella seconda parte viene seguita la storia di scomparsa e riapparizione dell’indigeno nella biografia culturale di Ishi, considerato all’inizio del Novecento l’ultimo rappresentante dei nativi americani Yahi, successivamente riattualizzato a metà del secolo da una biografia scritta da Theodora Kroeber che divenne un bestseller per concludersi con una vicenda di riappropriazione culturale e rivendicazione di sopravvivenza della tribù di nativi dipanata attorno alle sue spoglie mortali negli anni 2000. Nella terza parte, invece, con un’attitudine comparativista – che Clifford mi perdoni! – si passa dalle isole del Pacifico all’Alaska centrale e si segue il ritorno e la risignificazione di una serie di maschere attualmente esposte in Francia come metafora performativa dell’“indigenità transnazionale”, ritornando in un campo, quello dell’arte e dell’arte indigena e coloniale, classico per gli studi di Clifford.
Gli itinerari tortuosi, a volte manifesti a volte carsici, delle identità, o meglio dei “processi di identificazione” per dirla con Devereux, si intrecciano nelle dinamiche, in vero ben conosciute dagli antropologi, delle relazioni tra locale e globale, tra realismo e fiction, tra autorità e autorialità, tra indigeni e la frammentazione delle identità globalizzate, e per percorrerle pare saggio accettare l’invito di sforzarsi a riarticolare la visione occidentalocentrica attraverso l’ascolto e la performatività delle storie e delle epistemologie indigene, coloniali o postcoloniali che siano.
Così Clifford ci parla dei ritorni degli indigeni, ma siamo proprio sicuri che se ne fossero mai andati?