John von Neumann, il visionario
Ci sono biografie difficili da ricostruire perché lacunose, o frammentarie, o avviluppate nell’ombra di un qualche mistero. Al contrario, esistono biografie che risulta arduo ricomporre ordinatamente nella loro interezza a causa di una sovrabbondanza di accadimenti, di una congerie pletorica di documenti, testimonianze e aneddoti eterogenei. Quella di John von Neumann, studiata da Ananyo Bhattacharya in L’uomo venuto dal futuro. Le idee visionarie di John von Neumann (impeccabilmente tradotto da Luigi Civalleri, Adelphi, 2024), è una biografia di questo secondo tipo.
Nei suoi frenetici 53 anni di vita Neumann János Lajos – questo è il nome con cui viene al mondo nel 1903, a Budapest, da una facoltosa e colta famiglia di origine ebraica, e che in seguito modificherà varie volte, passando dal germanizzato Johann Neumann von Margitta fino all’americanizzato John von Neumann – salta come un folletto da un tema di ricerca dall’altro, con sdegnosa noncuranza per le rigide compartimentazioni disciplinari, impiegando il suo prodigioso talento per risolvere brillantemente le questioni teoriche più intricate e per aprire orizzonti scientifici del tutto nuovi.
«Johnny aveva un dono speciale – avrebbe osservato Freeman Dyson – cioè quello di trasformare problemi in ogni campo della matematica in problemi di logica». Si potrebbe tuttavia obiettare che la ragione profonda del successo e della versatilità di von Neumann sia da individuare non tanto nelle sue innegabili doti logico-deduttive quanto nella sua peculiare concezione della matematica e del mestiere di matematico, che troviamo esposta in modo eloquente in un articolo del 1947 intitolato, per l’appunto, The Mathematician. «Ritengo – scrive von Neumann – che, in un’approssimazione relativamente buona della verità (che è di gran lunga troppo complicata e ammette soltanto approssimazioni), le idee matematiche abbiano un’origine empirica, sebbene la loro genealogia sia talvolta lunga e oscura. Ma, una volta, che esse sono state così concepite, ciò di cui trattano comincia a vivere una vita propria, e diventa paragonabile più a un qualcosa di creativo, governato da motivazioni quasi del tutto estetiche, che [...] a una scienza empirica». Di conseguenza, anche quando i ragionamenti matematici sono lunghi e astrusi, resta sempre possibile trovare «qualche semplice principio generale» in grado di illuminare lo scenario teorico e di «spiegare» le complicazioni e le tortuosità. Queste affermazioni mostrano che von Neumann (nella sua maturità scientifica, almeno) propugna una visione della matematica antitetica a quella cosiddetta formalista – e ciò lo differenzia nettamente da gran parte dei più affermati matematici della sua epoca (si pensi in primo luogo a Nicolas Bourbaki, il gruppo di matematici attivo in Francia dalla metà degli anni Trenta, di cui facevano parte, tra gli altri, André Weil, Jean Dieudonné, Henri Cartan e Claude Chavalley). Secondo il punto di vista di von Neumann, il matematico non si limita a giocare con simboli logici convenzionali seguendo regole sostanzialmente arbitrarie, non è un prestigiatore capace, come per magia, di estrarre conigli astratti da cappelli a cilindro altrettanto astratti. Al contrario, la ricerca matematica deve, da una parte, non perdere di vista il substrato empirico da cui è in origine scaturita e, dall’altra, svilupparsi in modo creativo e autonomo sulla base di criteri puramente estetici – o addirittura «artistici» – di economia concettuale e di generalizzazione. Il «dono speciale» di von Neumann, forse, si potrebbe così sintetizzare: l’abilità di manipolare i materiali teorici con straordinaria libertà inventiva, alla stregua di un bricoleur di genio, e di riuscire a creare relazioni inaspettate tra l’universo rarefatto delle speculazioni astratte e il magma ribollente della realtà che ci circonda. Un matematico come von Neumann – per usare la celebre immagine suggerita da Musil, nel Törless, a proposito della «faccenda dei numeri immaginari» – costruisce ponti di cui «esist[ono] solo il primo e l’ultimo pilastro e che tuttavia si poss[ono] attraversare con la stessa sicurezza che se se st[essero] lì per intero».
János è un enfant prodige e gode di tutti i privilegi che gli derivano dall’appartenere a una famiglia alto-borghese e di crescere in una città, Budapest, che nel primo ventennio del XX secolo si distingue per la propria effervescenza culturale: non solo ha modo di frequentare scuole eccellenti, ma riceve anche lezioni private di matematica, a livello avanzato, da insegnanti di grande valore. Non stupisce, pertanto, che il suo esordio come ricercatore originale sia assai precoce. Ad appena diciannove anni pubblica un articolo fondamentale in cui pone su basi nuove e ben più solide la teoria cantoriana dei numeri ordinali transfiniti. Successivamente (ed è questo anche l’argomento della sua tesi di dottorato in matematica, a Budapest, che prepara parallelamente a un diploma di laurea in ingegneria chimica, a Berlino prima e a Zurigo poi) elabora un’assiomatizzazione della teoria degli insiemi alternativa a quella messa a punto da Ernst Zermelo e Abraham Fraenkel: il suo sistema di assiomi – nel quale, con una trovata geniale si fa distinzione tra due tipi possibili di «collezioni di elementi», (chiamate I. Dingen e II. Dingen) – fornisce, in particolare, una soluzione particolarmente elegante al paradosso di Russell.
Von Neumann continua a occuparsi di teoria degli insiemi e di logica matematica almeno fino al 1930: in quell’anno, durante un congresso a Königsberg, è l’unico tra gli astanti a comprendere istantaneamente la portata rivoluzionaria dei risultati presentati da Kurt Gödel, all’epoca un occhialuto e impacciato giovanotto del tutto sconosciuto. Ma a partire dalla metà degli anni Venti, sospinto da una voracità intellettuale quasi bulimica, comincia a seguire anche altre linee di ricerca. La più recente frontiera della fisica è la teoria della meccanica quantistica sviluppata, in due versioni apparentemente incompatibili, da Werner Heisenberg e da Erwin Schrödinger, nella quale intervengono nuove leggi di natura (come il principio di indeterminazione) e nuove entità fisiche (come la funzione d’onda) tanto lontane dal senso comune e di per sé problematiche da mettere in subbuglio l’intera comunità scientifica. Von Neumann si lancia nella folle impresa di edificare la teoria su rigorose fondamenta matematiche, unificando in uno stesso quadro concettuale le visioni di Heisenberg e Schrödinger. E raggiunge il proprio obiettivo, costruendosi da solo, di sana pianta, gran parte dei sofisticati strumenti matematici di cui ha bisogno: tra il 1927 e il 1931 pubblica, sull’argomento, una decina di articoli (alcuni dei quali con il suo connazionale Jenő Wigner, futuro premio Nobel per la fisica) e nel 1932 il volume Mathematische Grundlagen der Quantenmechanik, destinato a rimanere una pietra miliare della scienza del Novecento. Ma questo tour de force non esaurisce le sue energie creative. Si occupa di varie altre questioni matematiche e, in particolare, affronta un problema già studiato, ma non risolto, dal francese Émile Borel qualche anno prima. Esiste sempre una strategia ottimale in un «gioco a somma zero» (cioè un gioco in cui le vincite e le perdite dei giocatori siano simmetricamente bilanciate), supposto che i due contendenti agiscano in modo perfettamente razionale? Sì – dimostra von Neumann, basando la propria argomentazione su un teorema di topologia dovuto a Luitzen E. J. Brouwer –, esiste una strategia ottimale – detta del minimax – che permette a entrambi i giocatori di rendere minime le loro massime perdite. Questo risultato di centrale importanza, presentato nel 1926 e pubblicato due anni dopo nell’articolo Zur Theorie der Gesellschaftsspiele, costituisce l’atto di nascita della moderna teoria matematica dei giochi.
Il ritmo della vita di von Neumann diventa, se possibile, ancora più frenetico dopo il 1930, quando si trasferisce negli Stati Uniti: la vecchia Europa – il «mondo di ieri» come l’avrebbe definita Stefan Zweig – è diventata inospitale per chiunque abbia un’ascendenza ebraica e i più fortunati, se lungimiranti, decidono in massa di emigrare altrove. L’attività scientifica di Johnny – come ormai lo chiamano tutti quelli che lo conoscono abbastanza bene – spazia nei campi di ricerca più disparati. Nel suo primo decennio americano si occupa di calcolo delle variazioni, studia i gruppi topologici, dimostra l’ipotesi ergodica, scrive tre articoli fondamentali sugli anelli di operatori (che oggi sono chiamati, in suo onore, algebre di von Neumann), chiarisce che la logica della meccanica quantistica non è quella classica perché viola il principio di contraddizione (in un lavoro con Garrett Birkhoff del 1936), inventa la nozione di «geometria continua», collabora proficuamente, saltando da un problema all’altro, con matematici del calibro di Marshall H. Stone, Kazimierz Kuratowki e Samuel Bochner. Dal 1940 in avanti gli interessi di von Neumann si orientano decisamente verso questioni riguardanti la matematica applicata (anche se questa denominazione non gli sarebbe piaciuta affatto, perché contraria alla sua idea che tutta la matematica, anche la più astratta, abbia radici nella realtà fisica). Il semplice elenco dei settori nei quali ottiene risultati decisivi, talvolta ridefinendone i confini teorici o addirittura creandoli ex novo, lascia stupefatti: onde d’urto, idrodinamica, aerodinamica, balistica, meteorologia, statistica (di sua invenzione è il celebre metodo Montecarlo, sviluppato con l’amico Stanisław Ulam), teoria dei giochi (pubblica nel 1944, con Oskar Morgenstern, l’imponente monografia Theory of Games and Economic Behavior, ove si introduce la nozione di gioco cooperativo), computer science, teoria degli automi.
Forse ancor più sbalorditivo è il numero di contratti di consulenza, a vario titolo e non di rado lucrosi, con istituzioni universitarie, associazioni di diversa natura, fondazioni private e, soprattutto, enti governativi che von Neumann colleziona a partire fin dalla prima metà degli anni Trenta. Anche se si stenta a crederlo, durante la Seconda guerra mondiale un matematico di origine ungherese, che parla inglese con un pesante accento straniero, siede nel comitato scientifico del Ballistics Research Laboratory e diventa membro del National Defence Research Committee, avendo accesso a segreti militari di rilevanza strategica. Tra questi il primo per importanza è certamente il progetto Manhattan, nel quale – com’è ben noto – centinaia di scienziati, coordinati da Robert Oppenheimer, lavorano alla realizzazione di due diversi modelli di bomba atomica: una bomba al plutonio (di questo tipo sarà l’ordigno testato ad Alamogordo e quello sganciato su Nagasaki) e l’altra all’uranio arricchito (quella che esploderà su Hiroshima). Von Neumann è probabilmente l’unico scienziato, tra quelli con una piena conoscenza del progetto, ad avere l’autorizzazione di andare e venire da Los Alamos a suo piacimento: «Ci troviamo – gli scrive Oppenheimer nel 1943, a proposito delle difficoltà collegate all’innesco a implosione della bomba al plutonio – in una condizione che posso solo descrivere così: abbiamo un disperato bisogno del suo aiuto». E, tragicamente, l’aiuto di Johnny si rivela decisivo, sebbene dedichi alla bomba non più di un terzo del suo tempo lavorativo. Se non fosse stato per le sue approfondite conoscenze riguardo alle onde d’urto implosive, si può plausibilmente affermare – anche se purtroppo la storia non si scrive con i se – che il problema dell’innesco della bomba al plutonio non sarebbe stato risolto e decine di migliaia di vite umane sarebbero state risparmiate. E non è tutto qui. Sono i calcoli di von Neumann, connessi alle sue precedenti ricerche sulla detonazione di ordigni ad alto potenziale, che permettono di determinare quale sia l’altezza da terra ottimale a cui fare esplodere le due bombe – sia quella su Hiroshima sia quella su Nagasaki – per ottenere il massimo effetto catastrofico possibile. Dopo il test ad Alamogordo, il fisico americano Kenneth Bainbridge aveva pronunciato parole meno note di quelle di Oppenheimer («Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi», tratte dalla Bhagavadgītā) ma certamente molto più incisive: «Ora siamo diventati tutti dei figli di puttana». Tutti, compreso il nostro geniale matematico.
«Non è bellissimo che la guerra sia finita?» scrive Marina, la figlia che von Neumann ha avuto dalla sua prima moglie, alla seconda consorte del padre (sì, János ha anche una vita privata piuttosto turbolenta). «Papà viaggerà ancora così tanto adesso che la guerra è finita? Spero di no». Speranza vana. Fin dal 1944 von Neumann ha iniziato a pensare a come migliorare l’enorme calcolatore a valvole ENIAC (Electronic Numerical Integrator and Computer) allora in corso di costruzione presso la Moore School of Electric Engineering della University of Pennsylvania; la macchina verrà ultimata nel dicembre del 1945 e subito usata per eseguire calcoli relativi a un nuovo e molto più potente tipo di ordigno nucleare, la bomba all’idrogeno, che i «figli di puttana» – Edward (Ede) Teller e von Neumann in testa – hanno già in progetto. Avvalendosi delle sue conoscenze di logica (e, in particolare, avendo presenti i risultati di Alan Turing), von Neumann immagina qualcosa di radicalmente diverso dall’ENIAC, un computer programmabile, provvisto di cinque «organi» distinti: un’unità centrale aritmetica, un’unità di controllo, che assicuri che le istruzioni siano eseguite nell’ordine corretto, una «memoria», e le unità di input e di output. Senza perdersi in dettagli tecnici riguardanti i componenti elettronici della macchina, von Neumann ipotizza che l’elemento costitutivo fondamentale di questo «cervello elettronico» debba essere una sorta di neurone idealizzato, analogo nella sua struttura di base a quello che il neurofisiologo Warren McCulloch e il matematico Walter Pitts avevano descritto in un articolo pubblicato nel 1943. Il 30 giugno del 1945 – mentre gli scienziati Los Alamos si affannano ad assemblare il prototipo della bomba al plutonio – il First Draft of a Report on the EDVAC (Electronic Discrete Variable Automatic Computer), un corposo manoscritto di circa 100 pagine, è pronto: l’«architettura di von Neumann» – una rete di neuroni idealizzati organizzata in cinque unità funzionali – sarebbe diventata la configurazione standard per quasi tutti i computer dell’avvenire, inclusi gli smartphone che ciascuno di noi usa ogni giorno.
Anche dopo la fine della guerra, inoltre, von Neumann non cessa di occuparsi attivamente di questioni riguardanti gli armamenti atomici e le strategie da adottare nei futuri scenari bellici che essi prefigurano. Nel 1946 assiste al test nucleare della cosiddetta «Operazione Crossroads, nell’atollo di Bikini (tutti abbiamo visto almeno una volta le immagini dello spaventoso fungo atomico che si solleva dalle acque del Pacifico) e in quello stesso anno inizia le pratiche per depositare, assieme al fisico teorico tedesco Klaus Fuchs, un brevetto per un modello di bomba termonucleare (Fuchs svelerà i segreti del progetto ai Sovietici e sarà condannato per spionaggio a nove anni di prigione). Sul versante delle questioni di strategia militare, von Neumann diventa nel 1948 consulente della RAND Corporation e qualche anno più tardi membro della quasi onnipotente Atomic Energy Commission. Se all’inizio degli anni Cinquanta si dichiara a favore dell’idea di una guerra lampo preventiva, successivamente cambia parere, convinto che il potenziale distruttivo delle armi atomiche renderebbe un attacco a sorpresa qualcosa di ben diverso da ciò che era nelle guerre del passato: «a ciascuno – si legge in un suo scritto del 1955, Defense in Atomic War – verrà costantemente impedito di fare il “peggio” di cui è capace, perché se lo fa il nemico non è possibile alcuna difesa». Pare fuor di dubbio che von Neumann abbia avuto un ruolo non marginale nel definire alcune delle idee portanti della strategia della guerra fredda, anche se risulta difficile stabilire precisamente in quale misura e se in modo diretto o indiretto (l’idea di deterrenza nucleare, per esempio, viene elaborata dagli analisti della RAND nel contesto e con gli strumenti della teoria dei giochi di von Neumann, senza però essere mai appoggiata esplicitamente da lui stesso). Non è un caso che nel 1956 il presidente Eisenhower gli appunti al petto la Medal of Freedom, l’onorificenza istituita da Truman e conferita ai civili che si sono distinti per «un atto o un servizio meritorio» in aiuto degli Stati Uniti nel corso della seconda guerra mondiale o negli anni immediatamente successivi (nel 1963 Kennedy la sostituirà con la Presidential Medal of Freedom). Nella foto ufficiale della cerimonia, von Neumann esibisce un sorriso quasi fanciullesco, ma è su una sedia a rotelle (come il memorabile dottor Stranamore di Kubrik, e nemmeno questo è un caso). È malato, un cancro lo sta divorando. Negli undici mesi di degenza in ospedale, prima che le sue straordinarie facoltà mentali si ottenebrino del tutto, riceve la visita di numerose alte personalità: il ministro della Difesa, il suo vice, i segretari dell’Aeronautica, dell’Esercito, della Marina, i capi di Stato Maggiore si siedono accanto al suo letto per carpirgli un ultimo consiglio, per rubargli un’ultima intuizione. Von Neumann muore l’8 febbraio 1957.
In quale forma e da quale prospettiva si può raccontare una biografia così densa? È evidente che una biografia di impianto tradizionale rischia di naufragare in un oceano di dettagli e di tecnicismi. Benjamín Labatut, nel suo Maniac (Adelphi, 2023), ci presenta un von Neumann scomposto in un coro polifonico di testimonianze discordanti, in un caleidoscopio di sguardi orientati in modo diverso l’uno dall’altro, e naturalmente – in quanto scrittore – si prende tutta la libertà d’invenzione di cui ha bisogno. Si attiene invece strettamente ai fatti questa biografia di Ananyo Bhattacharya, senza con ciò risultare però meno originale o meno leggibile. L’autore, giornalista scientifico, sceglie infatti di focalizzare la propria attenzione – come precisa il sottotitolo – sulle «idee visionarie di John von Neumann», non soltanto ricostruendone la genesi e lo sviluppo ma anche – e questo è senza dubbio la caratteristica più interessante del libro – analizzando quale sia il loro impatto sulla scienza dei decenni successivi, fino ai giorni nostri.
A dire il vero, non tutte le idee di von Neumann, si possono dire, a pieno titolo, «visionarie». I suoi articoli sulla teoria degli insiemi, per esempio, o sulla teoria degli operatori sono di sicuro geniali, ma non danno luogo a nessuna discontinuità epistemologica; analogamente, la sua monografia sulla meccanica quantistica lascia un’impronta profonda nella fisica del Novecento, ma non apre orizzonti inattesi. Soltanto quando von Neumann infrange le barriere tra una disciplina e l’altra, quando costruisce ponti miracolosi tra differenti campi del sapere, quando trasforma con un tocco magico una vecchia teoria in qualcosa di completamente diverso, ecco che le sue idee diventano veramente visionarie e conducono a risultati rivoluzionari. Così è, mi pare, per la teoria dei giochi, che unisce matematica ed economia in una sintesi che stabilirà un nuovo paradigma scientifico, o per le intuizioni contenute nel First Draft of a Report on the EDVAC, che segnano la nascita della computer science, o per i lavori sulla teoria degli automi, nelle quali arriva a immaginare macchine logiche in grado di muoversi e di replicarsi. Oggi viviamo – è triste constatarlo – in un’epoca in cui, soprattuto nella nostra vetusta Europa, la ricerca scientifica è rigidamente parcellizzata in settori disciplinari, sminuzzata con furore burocratico in un pulviscolo di domini (o, se vuole, orticelli) specialistici che interagiscono poco o nulla l’uno con l’altro. L’esempio di von Neumann dovrebbe essere sufficiente a mostrare che non è questo il sistema che conduce a risultati scientifici veramente innovativi.