La Grande Mela ovvero junk food, fame e...
Le immagini dello sciopero dei lavoratori delle grandi catene di fast food sono arrivate attraverso internet nella prima mattinata del 30 novembre. Durante la giornata gli schermi televisivi hanno via via evidenziato la portata della protesta ma soprattutto amplificato il valore simbolico ed emotivo di qualcosa che non era descrivibile solo in termini di rivendicazioni salariali, di giusta protesta sociale, né per l’eccezionalità di un evento che precedentemente non aveva mai visto la possibilità di azione sindacale in quel settore.
Quello che colpiva da questa sponda dell’Atlantico - e in particolare dalla sua “periferia mediterranea” - era non solo che fosse una protesta per la sopravvivenza (poco più di 8 dollari all’ora è la paga media di un lavoratore del settore contro un costo della vita reale di oltre 20 dollari ora per persona con un figlio in uno dei quartieri periferici della città ) ma che gli attori di quanto stava accadendo fossero dipendenti di Wendy’s, King Burger, Mc Donald, Five Guy Burger, Pizza Hut...
Del resto, se New York resta uno dei simboli della società occidentale - probabilmente ancora oggi uno dei principali - da questo antico e ristretto osservatorio mediterraneo quei marchi appaiono, almeno in campo alimentare, i templi riconosciuti di un american way of life, che per quanto discusso e discutibile rimane tale, con le sue valenze di opulenza, spreco ecologico, predilezione per il grasso e per il fritto, per il raffinato, per la carne rossa, per gli ingredienti standardizzati ed industriali, per la preparazione e il servizio veloce....
Fast food, appunto, con un’espressione nota in ogni paese e ad ogni latitudine.
No, le immagini di questa protesta non sembrano sorprenderci solo perché vengono da una delle città simbolo dell’Occidente e della sua ricchezza in parte decaduta; e questo nonostante Lehman Brothers e gli scatoloni con gli effetti personali dei suoi dipendenti che lasciano la sede, nonostante tutto il peso di una crisi economica ormai vecchia di cinque anni...
E neppure convince l’idea che quelle immagini ci colpiscano per orgoglio culturale o “pudore dietetico”, o per la consapevolezza che questo accade in un mondo che in fondo ė anche quello dello junk food, il cibo spazzatura di basso costo e di una densità nutritiva tale da intasare le arterie di mezzo mondo, soprattutto il più ricco e il meno istruito...
No, non sembra neanche questo ipotetico orgoglio culturale di noi presunti facitori della dieta mediterranea, eredi di tradizioni alimentari che, quando realmente praticate, sono state e sono esempio di benessere per l’umanità aldilà dell’Atlantico, almeno per tutta quella abbastanza ricca e istruita per poterlo apprezzare...
Forse il disagio e la sorpresa di fronte a quelle immagini è una combinazione di tutte queste possibilità o di altre ancora. Negli ultimi anni, complice la crisi, il fast food ė infatti diventato, almeno qua da noi, anche un vero e proprio sinonimo di cibo a basso costo, cibo culturalmente ed economicamente povero, conveniente oltremisura per il prezzo, se non di un pranzo, almeno di un panino.
Quei lavoratori nelle strade di New York potrebbero allora essere nient’altro che la conferma sotto forma di immagini di questa povertà e al tempo stesso la contraddizione visiva tra l’idea di ricchezza e l’ansia e la miseria attraverso cui in questo momento guardiamo all’America e a noi stessi.
Più indietro, confusa tra istinto e eccesso di informazioni, sta forse la nostra odierna difficoltà a riconoscere un giusto valore al cibo, ormai smarriti tra gusti e tradizioni, lusso e bisogni, fame e obesità, diete e calorie, educazione alimentare e sicurezza, cibo biologico, industriale, a “chilometri zero”, snack, “ogm free”... vale a dire le mille forme con cui diamo nome al pane e alle sue conseguenze, compresa la moderna bestemmia di cereali coltivati per produrre biocombustibili, orrore ecologico sotto forma di carburante per automobilisti quanto consapevoli...?
Forse, e più in generale, è piuttosto la mancanza di qualcosa che quelle immagini fanno balenare, almeno inconsciamente.
Inavvertitamente, sembrano infatti in grado di restituire la consapevolezza comune che il cibo è vita e che smarrire il senso del primo può non essere privo di conseguenze.
Forse, semplicemente, smarrire il senso e il valore di ciò che nutre può far perdere qualcosa del senso della vita.