La vera storia di Babar l’elefantino
È una sera d’estate del 1930. Una mamma racconta ai suoi due figli, di quattro e cinque anni, una storia per farli addormentare. La mattina seguente, al risveglio, i due bambini corrono nello studio del padre, pittore, e gli raccontano con entusiasmo la storia udita la sera prima. Il padre ascolta i bambini con attenzione. Un po’ la storia gli piace davvero, anche perché riconosce se stesso nel personaggio principale; un po’ vuole assecondare l’entusiasmo dei figli e, così, decide di mettere in bella copia la storia e illustrarla. Nasce in questo modo la Histoire de Babar, petit elephant che, un anno dopo, troverà la strada della libreria grazie alle Editions du Jardin des Modes, un marchio editoriale del gruppo Condé Nast che prima di allora non aveva pubblicato altro che non fosse moda. Il successo fu immediato, folgorante e transoceanico.
Ricordiamo proprio ora questa vicenda perché qualche settimana fa, il 24 marzo, Laurent de Brunhoff è scomparso, all’età di novantotto anni. Quelle di Laurent furono le prime orecchie ad ascoltare la storia del celeberrimo elefantino, quando ancora non si chiamava Babar; le sue parole furono le prime spese per convincere qualcuno della bontà della storia; e suoi i primi occhi a vedere le fattezze di Babar, in un grande quaderno di scuola, rilegato a spirale, che il padre, Jean de Brunhoff, aveva scritto e disegnato.
Quella di Laurent de Brunhoff fu un’infanzia privilegiata: il padre artista, figlio di editori; la madre pianista di solido successo; una piccola casa a Parigi, la grande villa a Chessy, lungo le rive della Marna, per l’estate, e gli chalet affittati per l’inverno in amene località delle alpi svizzere, allora assai meno (e meglio) frequentate di oggi; niente scuola, ma tate e precettori che si affiancavano ai genitori per istruire i figli nelle materie canoniche, ma anche nell’arte e nella musica. Un’infanzia magistralmente raccontata dallo stesso Laurent in un fumetto, Mémoires, stampato privatamente dalla sua seconda moglie, Phyllis Rose, in 500 copie, in occasione dell’ottantesimo compleanno dell’autore e del settantacinquesimo dell’elefantino Babar.
Ma, come nelle vicende di Babar, la sventura segue immediatamente la felicità: se l’elefantino gioca, un cacciatore spara alla sua mamma; se Babar, ormai diventato re, prende il volo con la sua mongolfiera, una tempesta lo fa atterrare su un’isola popolata da cannibali. Allo stesso modo, un padre amato e amorevole, all’apice del successo, si ammala di tubercolosi ossea e muore, giovanissimo, nel 1937, dopo aver dato alle stampe i primi cinque libri della saga e averne preparati, ma non completati, altri due.
Alla morte di Jean de Brunhoff, l’editore decide di coinvolgere Laurent, ancora ragazzo, nella coloritura delle tavole, alla quale aveva sempre assistito e forse contribuito. La tecnica utilizzata era peculiare: Jean disegnava il tratto nero a penna; questo veniva inviato in tipografia, dove veniva creata una matrice e stampata una bozza, successivamente colorita all’acquerello, un po’ come accade nei libri da colorare per bambini, molto diffusi anche oggi. Non si può escludere che Laurent, ancora quasi bambino, abbia aiutato il padre a colorare “restando nei margini”, come un bravo scolaretto e che il fratello del padre, gestore della casa editrice Jardin des Modes, sapendolo, lo avesse voluto coinvolgere nel completamento dell’opera del padre.
Poi arriva la guerra, con l’occupazione tedesca della Francia e di Parigi, il tempo della difficoltà economica, della vendita di alcune tavole originali dei libri per dare un po’ di sollievo finanziario alla famiglia, e dell’abbandono dell’amata villa di Chessy, del lutto per uno dei cugini, figlio di Michel de Brunhoff, assassinato dai nazisti a vent’anni. Cercando di continuare a vivere il più normalmente possibile, Laurent passò la maturità nel 1944 e si iscrisse – seguendo le orme del padre – alla Académie de la Grande Chaumiére, dove apprese le tecniche pittoriche dallo stesso insegnante del padre, e decise che sarebbe diventato un pittore astrattista.
In quegli anni, che possiamo presumere difficili per un giovane cresciuto nel benessere, se non nel lusso, Laurent affina la sua tecnica pittorica e sviluppa una forte nostalgia per la sua infanzia, interrottasi più bruscamente che per molti altri. Così, insieme alla voce del giovane pittore astrattista, determinato e ribelle, affascinato dalle teorie marxiste, nel cuore di Laurent risuona anche quella di un bambino che era stato felice. Una voce che trova orecchie sensibili: far rivivere Babar poteva essere un ritorno, a suo padre e alla sua infanzia, ma poteva anche essere un’affermazione personale, un tornare a occuparsi dell’”impresa di famiglia” per gestirla a modo proprio. (Vale la pena notare come anche il fratello Thierry de Brunhoff avrebbe seguito una strada già percorsa in famiglia diventando, come la madre, un affermato pianista). Ma possiamo anche supporre che a questa voce infantile si accostasse anche quella del bisogno: far rivivere Babar era anche un ottimo modo per garantirsi guadagni decenti, cosa che sarebbe stata alquanto più difficile praticando esclusivamente il mestiere dell’arte.
Così, nel 1946, esce la prima avventura di Babar firmata da Laurent: Babar e quel monello di Arturo. Anni dopo, in un opuscolo pubblicitario pubblicato da Rando House negli Stati Uniti, lo stesso Laurent ricorda che «mentre Jean de Brunhoff si era ispirato alla sua stessa famiglia per descrivere le avventure di Babar, io diedi risalto ad Arturo [il cugino di Babar, NdA] perché mi identificavo più facilmente con lui: avevo appena ventun anni, non avevo una famiglia mia e sentivo di avere molto in comune con Arturo,» il quale era stato pensato dal padre come una sorta di figlio avventuroso, un sognatore, un impertinente buono a nulla che cade sempre in piedi, per tornare sano e salvo al calore della famiglia.
Il primo Babar di Laurent si apre con una dedica alla memoria del padre, a fronte della quale si trova l’illustrazione di una famiglia perfetta, a sottolineare la possibilità di ritrovare un passato in cui alla tranquillità e all’abbondanza facevano da contraltare avventure e crisi che si concludono sempre con il ritorno a casa.
«Se sono diventato un autore di libri per ragazzi,» scrisse Laurent nel 1987, per il catalogo di una mostra, «non è stato perché lo desiderassi in sé: io volevo solo che Babar vivesse (o, come credono alcuni, che mio padre vivesse); volevo vivere nel suo paese, il paese degli elefanti, che è allo stesso tempo un’utopia e una satira gentile del mondo di noi uomini.»
Dopo di allora, Laurent è coinvolto dall’impegno totalizzante di far vivere Babar. Dal 1946 al 2017 escono una cinquantina di libri dedicati al celebre elefantino. Ma se suo padre Jean era sempre partito da una storia da illustrare (e va forse ricordato che la vera inventrice di Babar, Cécile, ha sempre rifiutato di comparire come autrice dei testi, ritenendo il proprio contributo risibile), il suo approccio è più moderno, quasi situazionista. Le sue storie, infatti, spesso prendono avvio da una domanda improbabile: che cosa accadrebbe se Babar visitasse gli Stati Uniti? O un altro pianeta? E se si mettesse a fare yoga?
Anche dal punto di vista stilistico, Laurent introduce delle piccole variazioni che, pur lasciando intatta l’atmosfera fatata del mondo di Babar, introducono elementi di disordine, del tutto assenti dal lavoro del padre e visibili solo a un occhio molto attento (ma non per questo da considerare irrilevanti, soprattutto se si pensa alla capacità di lettura delle immagini dei primi destinatari di questi libri: i bambini).
Con gli anni Ottanta, arriva una svolta fondamentale: Laurent cede i diritti per lo sfruttamento dell’immagine dell’elefantino Babar a Clifford Ross, un uomo d’affari che, a propria volta, li cede a una società canadese, con il vincolo di essere comunque coinvolto nella creazione di futuri prodotti. E qui comincia la carica degli elefanti: la logica dello sfruttamento commerciale dell’immagine porta alla nascita di pigiami e pantofole, tazze e profumi, bibite alla frutta, coperte e zainetti; poi alla realizzazione di un film e di una serie animata per la televisione. E, come spesso accade in tali circostanze, con lo sfruttamento selvaggio vengono i litigi. Clifford Ross riteneva molti dei nuovi prodotti “a marchio Babar” kitsch e degradanti per l’immagine dell’elefantino, e fece causa alla società canadese che li aveva prodotti senza chiedere il suo parere. Laurent, totalmente immerso nel suo mondo babariano, dichiarò candidamente al New York Times che «Celestopoli è una sorta di Utopia, un luogo nel quale non ci sono furti e non vengono commessi crimini, in cui tutti hanno buone relazioni con i vicini e non c’è alcun bisogno di ricorrere agli avvocati,» e lasciò che fosse Ross a perorare la causa dell’integrità di Babar.
Nello scrivere la sentenza a favore di Ross, Kenneth Conboy, giudice della corte federale distrettuale di New York, sembrava abbracciare pienamente questa idea di Babar: «Nel mondo di Babar, tutti i colori sono pastello, tutti i temporali sono brevi e tutti i nemici sono più o meno benigni. Queste storie celebrano la bontà, il lavoro, la pazienza e la perseveranza di fronte all'ignoranza, allo scoraggiamento, all'indolenza e alla sfortuna. Vorrei che i valori del mondo di Babar fossero evidenti nelle carte depositate in questa causa.»
«Babar c’est moi,» dichiarò baldanzosamente Laurent, dieci anni, fa alla National Geographic. «È stato tutta la mia vita: anni e anni a disegnare un elefante.»
Post scriptum: nella storia di Babar c’è anche un altro bambino che ha trovato orecchie attente. Anzi, una bambina. Vuole la leggenda che in un caldo pomeriggio dell'estate del 1940, la quattrenne nipotina di Francis Poulenc, annoiata dalla Melancolie che il celebre zio stava eseguendo al pianoforte, gli abbia messo sul leggio la sua copia di Babar, intimandogli: «Suona questo!» Lo zio, fra il divertito e il piccato, la prese in parola e cominciò a improvvisare quegli accordi che sarebbero diventati il melologo L'histoire de Babar. Non so resistere a rammentarvi che del divertente melologo esiste anche una versione per orchestra e voce recitante, con il vulcanico Paolo Poli a immedesimarsi nella vecchia signora che trasforma l'enfant/elephant sauvage in un azzimato damerino, con tanto di spider rossa.