Giorno 2 / L’interprete

2 Dicembre 2019

«Cos’è un interprete?» chiede Testadizucca nel Mago di Oz.

«Qualcuno che conosca sia la mia lingua sia la tua. Quando io dico qualcosa, l’interprete ti riferisce quel che ho detto; e quando dici qualcosa tu, lui traduce per me», risponde lo Spaventapasseri.

 

Qualcuno che conosce le due lingue, e tuttavia aspira, traducendole, a farne-dirne una sola, a cogliere di entrambe le sfumature al punto che diventi difficile dire, Questa è la mia lingua e quella è la tua. Difficile dire, Io sono di qui, tu sei uno straniero.

Al suo tavolo con carta e penna, sul palcoscenico col proprio corpo, davanti al suo spartito con il proprio strumento, l’interprete dà voce. Una voce dapprima sommessa, talora stridente, poi sempre più morbida, consapevole e convinta, tanto da poterne infine ridere di gusto. E condividerla. Come dev’essere di tutto ciò che nasce dal desiderio. «S’io m’intuassi come tu t’immii» dice Dante a Folchetto di Marsiglia (Paradiso, IX, v. 81), verso bellissimo che meglio di qualunque altra cosa esplicita il particolare desiderio sotteso al tradurre, all’interpretare: quello di lasciare entrare dentro di sé un’altra coscienza, un’altra storia, un’altra scrittura, un’altra musica. Per poter infine insieme «letiziar» (ibidem, v. 70).

 

Ci sono oscurità, silenzi, anche stanchezze nelle lingue, come nei pensieri, e vanno rispettati, interpretandoli con acribia e mitezza. «Lasciar cadere il corpo, è questa l’energia essenziale della traduzione» scriveva Derrida, e infatti, cadendo, il corpo si ritrova. Esprime ciò che a mente fredda talvolta non riesce a dire. L’orecchio, la vicinanza, l’attenzione accompagnano ogni traduzione. Come altrimenti dare parola, o gesto nota pausa, o ulteriore silenzio all’altro? Come metterlo a suo agio? Come rassicurarlo del fatto che l’ascolterò, sarò la sua tarjuman, la sua moonshi, o dubash, o linkister...? Link, Ariele dell’Oxford Dictionary: “stoppino”, “anello”, “fragile mezzo di trasporto”. Far propria la leggerezza semantica di Ariele, muoversi con discrezione, orientandosi con la luce effimera di uno stoppino che può rivelarsi lucignolo, ben sapendo di essere un fragile mezzo di trasporto da cui può dipendere l’attendibilità, la musica, dunque la ricezione, il piacere di un testo. 

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