Nobel 2019 / Lo sguardo di Olga Tokarczuk
Con il Premio Nobel per la letteratura, assegnato contemporaneamente alla polacca Olga Tokarczuk e all’austriaco Peter Handke, si potrebbe affermare che ha vinto l’Europa Centrale, con tutte le sue contraddizioni (basti pensare alle polemiche per l’appoggio dato dallo scrittore austriaco al nazionalismo serbo). Piccole nazioni che, assieme alle altre, dal Baltico al mar Nero, sono non soltanto un luogo dell’anima e della cultura fondamentale per il nostro sbrindellato continente, ma anche l’espressione di un modo di intendere la letteratura un po’ diverso da quello che va per la maggiore da noi. I loro libri sono assai particolari e, seppur ben scritti, privilegiano lo sguardo filosofico: spesso sono una sorta di patchwork di saggio e finzione. I loro romanzi, ad esempio, non sono caratterizzati da una trama narrativa chiara e definita: sono piuttosto delle occasioni di racconti e memorie apparentemente confuse e, persino, pretestuose, al servizio di una profonda riflessione sulla vita, l’anima e la storia.
Pur essendo nata parecchi anni dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, Olga Tokarczuk (1962) è ben consapevole del peso della Storia per la Polonia e di un passato che non passa: “Con noi la storia è sempre stata crudele. Dopo il più grande entusiasmo arrivava sempre il collasso, e da qui si è insinuato stabilmente un certo livello di paura, di mancanza di fiducia nel mondo, la fede nel potere salvifico delle regole ferree e allo stesso tempo la tendenza a infrangere quelle che ci siamo inventati”.
Olga Tokarczuk ha i lunghi capelli raccolti in treccine rasta, un simpatico facciotto dominato da occhi belli e penetranti e un’energia che sprizza da tutti i pori. È vegetariana e ha un marito che ha lasciato il proprio lavoro per seguirla e assisterla come agente e segretario. È molto impegnata nella vita politica del suo paese: è una femminista militante ed è membro della Partia Zieloni (il partito dei "Verdi" polacchi). È un’oppositrice dell’attuale governo polacco e una convinta europeista. Nella conferenza stampa dopo l’annuncio del Premio Nobel, ha esordito, facendo riferimento alle prossime elezioni politiche, raccomandando di “andare a votare e votare per la democrazia”. Alcuni suoi libri, come il romanzo epico Księgi jakubowe (I libri di Jacob), hanno suscitato accese polemiche, non proprio di carattere letterario. L’impegno ambientalista, femminista e per una Polonia che faccia parte coerentemente dell’Europa, hanno certamente pesato nella sua scelta da parte della giuria del premio svedese, sempre attenta anche agli aspetti politici. Ma questo non può mettere in secondo piano il fatto che i libri della Tokarczuk siano molto belli e importanti, e abbiano un valore che va ben al di là dei confini politici e culturali della Polonia attuale, come dimostra il loro successo internazionale. Oltre ad aver vinto molti premi letterari nel suo paese, tra i quali il più prestigioso “Premio Nike” (nel 2008 e nel 2015), gli sono stati conferiti, nel 2015, il “Premio internazionale del ponte tedesco-polacco” (per essere particolarmente attiva nella promozione della pace, dello sviluppo democratico e della reciproca comprensione tra i popoli e le nazioni dell'Europa) e, soprattutto, nel 2018, il Man Booker International Prize.
Nella formazione della Tokarczuk sono stati fondamentali la Psicologia, il rapporto con la Natura e i Viaggi. Ha studiato Psicologia all’Università di Varsavia e ha fatto pratica, prima come volontaria, in una struttura della capitale che si occupa di adolescenti con problemi comportamentali, e poi, come terapeuta, a Breslavia e, in seguito, a Wałbrzych. Si considera una “discepola” di Carl Gustav Jung e cita la sua psicologia come un’ispirazione per il suo lavoro letterario.
Dopo il debutto con il libro di poesie Miasta w lustrach (La città negli specchi, 1989) e il romanzo Podróż ludzi księgi (Il viaggio della gente del libro, 1993), ambientato nella Francia del XVII, Tokarczuk pubblicò, nel 1996, il notevole E. E. dalle iniziali della giovane protagonista, Erna Eltzner, ambientato negli anni Venti nella città tedesco-polacca di Breslavia (oggi Wrocław), dove giungono da Vienna le idee rivoluzionarie di Sigmund Freud che permetteranno a Erna di affrontare i problemi psico-somatici della sua adolescenza fino a diventare una terapeuta di successo.
La Natura è l’elemento dove Tokarczuk, come molti polacchi, si trova più a suo agio. Dal 1998 si è trasferita in un piccolo villaggio vicino a Nowa Ruda, nei Sudeti vicino al confine polacco-ceco (da dove gestisce anche la sua casa editrice privata, Ruta). Dom dzienny, dom nocny (Casa di giorno, casa di notte, 1998; pubblicato in Italia da Fahrenheit 451 nel 2007), è un mosaico di racconti, schizzi e saggi legati alla vita passata e presente nella casa del villaggio nella quale abita. Considerato il libro più difficile della Tokarczuk, almeno per chi non conosce la storia dell'Europa centrale, è stato il suo primo pubblicato in inglese (nella traduzione di Antonia Lloyd-Jones per la Northwestern University Press del 2003), facendole guadagnare una certa fama anche all’estero. La vita della casa del villaggio è la vita della Memoria e dei suoi brandelli, apparentemente ormai insignificanti: “Sembra che la memoria sia un cassetto pieno di fogli – alcuni del tutto inutili, documenti monouso come le ricevute della lavanderia e gli scontrini dell’acquisto di stivali invernali o di un tostapane di cui in casa non c’è più traccia. Ma ce ne sono altri, riutilizzabili, che testimoniano non eventi ma interi processi: il libretto dei vaccini del bambino, il tesserino studentesco con il foglio riempito a metà di timbri per ogni semestre, il diploma di maturità, il certificato di frequenza di un corso di taglio e cucito”.
Sempre in un villaggio, stavolta immaginario, nel cuore della Polonia, era ambientato il romanzo Prawiek i inne czasy (1996; nell'edizione italiana di e/o il titolo fu Dio, il tempo, gli uomini e gli angeli; nell'edizione di Nottetempo: Nella quiete del tempo). Un villaggio popolato da personaggi eccentrici e archetipici e custodito da quattro arcangeli, dalla cui prospettiva il romanzo racconta la vita degli abitanti per un periodo di otto decenni, a partire dal 1914.
Alla responsabilità degli esseri umani verso la natura è dedicato il “romanzo giallo” Guida il tuo carro sulle ossa dei morti (2009; edito in italiano da Nottetempo nel 2012). La protagonista, Janina Duszejko, è un’anziana ed eccentrica insegnante d’inglese in un paesino di provincia che pratica l'astrologia. Lei spiega una serie di misteriosi decessi nella zona con la vendetta degli animali selvatici contro i cacciatori. L’elenco delle malefatte degli uomini sugli animali (Tokarczuk offre alla sua protagonista tutto il suo vasto e pignolo sapere storico) giustificherebbe l’ipotesi di una giusta vendetta: “Devo iniziare dalla Bibbia, dove è stato detto chiaramente che, se un Bue uccide una donna o un uomo, deve essere lapidato. San Bernardo scomunicò uno sciame di Api che con il loro ronzio lo disturbavano mentre lavorava. Sempre le Api dovettero rispondere della morte di un Uomo a Worms nell’846. Il parlamento di quella città le condannò a morte per strangolamento. Nel 1394 in Francia dei Maiali uccisero e mangiarono un bambino. La scrofa fu condannata all’impiccagione (…). Ci furono delle cause giudiziarie non solo per casi di Omicidio, ma anche per reati contro la natura. Così a Basilea ne 1471 si tenne un processo contro una Gallina che faceva uova stranamente sgargianti. Fu condannata al rogo perché se la intendeva col diavolo…”. Dal libro è stato tratto il film Pokot (2017) di Agnieszka Holland che ha vinto Premio Alfred Bauer.
I viaggi, e l’apologia del continuo movimento, sono anzitutto provocati, secondo Tokarczuk, dal suo disagio psichico e dall’attrazione per l’imperfetto: “La storia dei miei viaggi non è altro che la storia di un malessere. Soffro di una sindrome che si può trovare facilmente in qualsiasi atlante delle sindromi cliniche e che, come afferma la letteratura specialistica, sta diventando sempre più frequente (…) La mia si chiama Sindrome da Disintossicazione Perseverante. Per spiegarla nel modo più semplice, diremmo che si basa su un ostinato ritorno della coscienza a certe immagini, o addirittura su una loro ricerca compulsiva. È una variante della Sindrome del Mondo Cattivo, ultimamente molto ben descritta nella letteratura neuropsicologica come una particolare infezione trasmessa dai media. Si tratta in fin dei conti di un disturbo molto borghese. Il paziente passa molte ore davanti al televisore cercando con il telecomando soltanto i canali dove vengono trasmesse le notizie più terribili: guerre, epidemie e catastrofi. Poi, affascinato da quel che vede, non riesce a distogliere lo sguardo. (…) I miei sintomi si manifestano con un’attrazione verso tutto ciò che è rotto, imperfetto, difettoso, screpolato. Mi interessano le forme imprecise, gli sbagli nei lavori creativi, i vicoli ciechi. Ciò che avrebbe dovuto svilupparsi ma per qualche motivo è rimasto incompiuto, oppure al contrario si è sviluppato troppo. Tutto quello che è fuori regola, troppo piccolo o troppo grande, sovradimensionato o incompleto, mostruoso e ripugnante. (...) È proprio in questa direzione che mi muovo paziente nei miei viaggi, cercando gli errori e gli incidenti della creazione”.
Il disagio si supera, oltre che con la terapia, con il movimento, la fuga, il viaggio. Uno dei suoi libri migliori, Bieguni (2008; pubblicato in italiano con il titolo I vagabondi da Bompiani nel 2019) inizia tematizzando proprio il caos della psiche infantile e il senso di oppressione derivante dall’immobilità: “Sono una bambina. Sto seduta sul davanzale circondata da giocattoli buttati sul pavimento, torri di cubi crollate, bambole con occhi sbarrati. La casa è in penombra, l’aria nelle stanze pian piano si raffredda e si fa sempre più buio. Qui non c’è più nessuno; sono usciti tutti, spariti, si sentono ancora le loro voci affievolirsi, lo strascichio dei loro piedi, l’eco dei passi e le risate in lontananza. Fuori dalla finestra i cortili sono vuoti. L’oscurità scende con dolcezza adagiandosi su tutto come rugiada nera. La cosa peggiore è l’immobilità: densa e visibile nell’aria fredda del crepuscolo e nelle luci flebili delle lampade al sodio che, ad appena un metro di distanza, si insabbiano nel buio”. L’autrice è convinta che “nonostante tutti i pericoli” è sempre meglio ciò che è in movimento rispetto a ciò che sta fermo; il cambiamento è sempre più nobile della stabilità: “Ciò che non si muove è soggetto alla disintegrazione, alla degenerazione e a ridursi in cenere, mentre ciò che si muove potrebbe durare addirittura per sempre”.
I “bieguni” del titolo erano, nel mondo slavo fino al XVII secolo, come i “benandanti” del Friuli (studiati da Carlo Ginzburg nell’omonimo libro pubblicato da Einaudi nel 1966): una sorta di setta di mistici vagabondi convinti che il Male aggredisse gli uomini nel momento che stavano fermi. La salvezza consisteva nel muoversi incessantemente.
Proprio in questo libro, ricco come gli altri di illustrazioni, l’irrequieta Tokarczuk si interroga, raccontando storie di viaggi in una sorta di rete i cui nodi tornano inaspettatamente, sul senso del suo lavoro e scopre la propria natura: “Faccio bene a raccontare delle storie? Non farei meglio a bloccare la mente con una graffetta, tirare le redini ed esprimermi non tramite racconti ma con la semplicità di una lezione in cui, frase dopo frase, si chiarisce ogni singolo pensiero e altri vengono accodati nei paragrafi successivi? Potrei usare citazioni e note a piè di pagina; per punti o per capitoli potrei elencare le implicazioni di cosa intendo; verificherei un’ipotesi menzionata in precedenza e alla fine potrei sfoggiare le mie argomentazioni, come il lenzuolo dopo la prima notte di matrimonio, in visione al pubblico. Sarei padrona del mio testo, potrei ottenere il pagamento dei diritti d’autore. Ma così sto accettando il ruolo dell’ostetrica o della moglie di un giardiniere con il compito, al massimo, di seminare per poi combattere inutilmente contro le erbacce. I racconti hanno una specie d’inerzia propria, che non si può mai controllare fino in fondo. Richiedono gente come me, insicura, indecisa, facile da sviare. Ingenua”.
Nel 2014 Tokarczuk ha pubblicato il suo ponderoso (912 pagine) capolavoro, che le è costato sette anni di ricerche e lavoro: Księgi jakubowe (I libri di Jacob). Il sottotitolo spiega tutto: Grande viaggio attraverso sette confini, cinque lingue e tre grandi religioni, senza contare le piccole. La storia fa riferimento a un episodio importante e controverso nella storia ebraica, legato all’eresia di Jacob Joseph Frank (nato Jakub Lejbowicz: 1726-1791). Frank si considerava la reincarnazione dell’auto-proclamatosi Messia, il mistico e qabbalista ebreo ottomano Sabbatai Zevi (1626-1676). Zevi nel 1666, si convertì, forse perché minacciato di morte, all’islamismo. I suoi seguaci più fedeli, per superare lo shock, elaborarono una dottrina per cui questa apostasia confermava la sua qualità messianica: essa era un’apostasia necessaria perché il messia doveva salvare il mondo attraverso l’errore, gettandosi a capofitto dentro l’impurità da redimere. Centinaia dei suoi seguaci lo imitarono, convertendosi in massa all’islam, o al cattolicesimo, restando però interiormente ebrei. Nel mondo della diaspora, soprattutto orientale, questa confusione dottrinale provocò un diffuso disorientamento, che non arrestò però la fascinazione verso il messianismo. Nel secolo successivo, Jakub Frank proclamò di essere la reincarnazione di Zevi e anche del Re David. La sua predicazione rigettava la Torah e considerava validi solo gli insegnamenti della Qabbalah e dello Zohar, anche perché non in contraddizione con la dottrina cristiana della Trinità. Nel 1756, la corte rabbinica di Satanov condannò lui e i suoi seguaci per esser andati contro le leggi della morale ebraica e il congresso dei rabbini, tenutosi a Brody, promulgò una scomunica per eresia. Presentatosi come un perseguitato dagli ebrei, Frank ottenne l’appoggio di alcuni ambienti delle gerarchie cattoliche polacche e arrivò a farsi battezzare a Leopoli il 17 settembre del 1759, e di nuovo a Varsavia, il giorno successivo, con il re Augusto III come padrino. Poi Frank finì i suoi giorni sotto l’ala protettrice dell’Impero Asburgico e a stretto contatto con gli ambienti massonici. Tutto il filone del messianismo ebraico di quel tempo fu attraversato da una forte vena esoterica, secondo la quale il mondo terrestre non è creato dal “Dio vivo e buono”, ma da una potenza del Male, che ha imprigionato le scintille divine nella prigione maligna della materia. La missione del Messia sarebbe proprio quella di liberare le scintille divine dalla materia. I “franchisti” hanno avuto una notevole importanza nel pensiero polacco anche nei secoli successivi.
Il libro è ambientato nell’Est della Polonia, nel XVIII secolo, nel periodo finale della Confederazione polacco-lituana (chiamata anche Repubblica delle Due Nazioni) che, tra 1569 al 1795, vide unite in uno stato sovrano Polonia e Lituania: un mondo nel quale cattolici, ebrei e musulmani convivevano, pur non senza conflitti. Accanto all’eretico Frank, nel romanzo, compaiono una serie di personaggi storici come: la poetessa barocca Elżbieta Drużbacka; la politica aristocratica Katarzyna Kossakowska (protettrice di Frank e i suoi seguaci); il benedettino Benedykt Chmielowski (1700-1763), autore di una delle prime enciclopedie polacche (Nowe Ateny albo Akademia wszelkiej scjencji pełna, Leopoli 1754–1756) e l’avventuroso poeta e polemista religioso Antoni “Moliwda” Kossakowski.
I libri di Jacob, manda in frantumi la visione idealizzata della Polonia prima delle spartizioni. Come accennavo all’inizio, è stato considerato una sorta di "anti-Sienkiewicz" (l’autore del retorico e celebre Quo Vadis e della patriottica Trilogia). Per questo è stato acclamato da critici e lettori, ma è stato violentemente attaccato da alcuni circoli nazionalisti polacchi e Olga Tokarczuk è diventata l’obiettivo di una campagna di odio sul web (cfr. Mariusz Jałoszewski, Internetowy lincz na Oldze Tokarczuk. Zabić pisarkę (Il linciaggio su Internet di Olga Tokarczuk. Uccidere la scrittrice), “Gazeta Wyborcza”, 15/X/2015).
Ma proprio in questo libro emerge chiaramente la caratteristica forse più importante della scrittrice Tokarczuk: il suo sguardo acutissimo. Come lei stessa ha spiegato: “Ci sono due modi di guardare. Con uno vedi semplicemente gli oggetti, cose utili all’uomo, oneste e concrete, si sa subito come si usano, a cosa servono. E poi c’è una visione panoramica, più generale, grazie alla quale si vedono i legami tra gli oggetti, le loro reti di rimbalzo. Le cose smettono di essere cose, il fatto che vengono usate è una questione di secondo piano, è solo apparenza. Ora sono segni, indicano qualcosa che nelle fotografie non c’è, che sta oltre i bordi delle immagini. Bisogna concentrarsi per poter mantenere quello sguardo che è essenzialmente un dono, una vera e propria grazia”.