Un colloquio con Alexey Miller / Memorie divise: la Russia, l’Europa orientale e noi
I concetti di public history e di memoria hanno conosciuto alterne fortune negli ultimi anni, e spesso e volentieri si son trovati al centro di aspre polemiche. La costruzione delle identità nazionali, il rafforzamento o l’allentamento dei legami tra poteri e popolo, passano attraverso questi processi, e non solo: nell’ambito delle relazioni internazionali, il ruolo giocato dalle memorie e dalla public history nel fornire, giustificare o attaccare posizioni e strategie politiche non è da sottovalutare. A tal riguardo, ciò che avviene in Europa orientale (e qui includiamo anche la Russia, che, volente o nolente, è parte importante della cultura e della storia del nostro continente) è molto interessante non solo per il dibattito storiografico in sé, ma per i conflitti che rappresenta e che, in un circolo vizioso, fa scaturire.
Alexey Miller è uno dei più importanti storici russi contemporanei: autore di numerosi lavori sulle identità nazionali russa e ucraina e sul ruolo svolto dai nazionalismi nella tarda età imperiale, attualmente insegna presso l’Università europea di San Pietroburgo e l’Università centrale europea di Budapest. Le sue principali opere sono The Romanov Empire and Nationalism. Essays in Methodology of Historical Research (2008) e The Ukrainian Question. The Russian Empire and Nationalism in the Nineteenth Century (2003) in inglese, mentre in russo è stato autore di lavori importanti come Zapadnye okrainy Rossiskoj imperii (“Le regioni della frontiera occidentale dell’impero russo”, assieme a M. Dolbilov) del 2008 e Nacionalizm i imperija (“Nazionalismo e Impero”) del 2006. Ha appena pubblicato un agevole libretto, Nacija (“La nazione”) per le edizioni dell’Università europea di San Pietroburgo e ha curato assieme a Stefan Berger l’imponente raccolta Nationalizing empires per la CEU Press. In questi mesi Miller si è distinto per aver messo in discussione una serie di paradigmi presenti nella rappresentazione del passato dell’Europa orientale, ne parliamo con lui in questa intervista.
Attualmente in Europa la “politica della memoria” e la public history ricevono grande spazio non solo nel mondo accademico, ma nella società. Come può spiegare questo successo? Cosa significano questi concetti per il cittadino?
L'idea che l'interpretazione del passato rappresenti uno degli strumenti cruciali nella formazione delle identità collettive era stata già formulata da Ernest Renan nel XIX secolo. In Europa nei primi decenni del XXI secolo si sono scontrate due culture della memoria – una, formatasi nei paesi dell'Unione europea tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Novanta – e un'altra, portata nel consesso europeo dai nuovi membri, cioè i paesi ex-socialisti. Il conflitto tra queste culture è evidente. Inoltre, c'è uno scontro tra la memoria europea e la memoria delle ex colonie, da dove sempre più persone vengono in Europa. Questi sono conflitti con un enorme impatto politico – da qui l’impressione, che i temi della memoria e della public history nella società siano più presenti che in passato.
Ci sono una serie di «punti caldi» nelle discussioni sulla public history, ad esempio in questi mesi in Italia si discute dell'apertura o meno di un museo sul fascismo. In Europa orientale, soprattutto in Polonia e in Ucraina, si discute del ruolo delle locali milizie collaborazioniste durante la Seconda guerra mondiale. La posizione poi dei paesi della cosiddetta «Nuova Europa» (definizione di Donald Rumsfeld ai tempi del conflitto iracheno) come «vittime della storia» si è riproposta anche con l'ultima crisi migratoria. Come considera tali posizioni, e quali i fini di tali narrazioni?
A unire i paesi dell'Europa orientale è il fatto che forniscono una immagine della storia dove sono vittime, vittime del totalitarismo comunista. Questo li distingue dall'Europa occidentale, dove negli ultimi decenni si è posto l'accento principalmente sulle proprie responsabilità nei lati oscuri della storia e nell'Olocausto. Nei paesi baltici, in Moldavia e in Ucraina, chi ha combattuto contro il potere sovietico ha ricevuto gli onori riservati agli eroi, nonostante spesso si trattasse di personaggi coinvolti nei crimini di guerra avvenuti durante la Seconda guerra mondiale. Tale strategia definisce la politica della memoria nella maggioranza dei paesi della regione; un'interessante eccezione, forse, è rappresentata dalla Romania, che ha adottato una legge che vieta l'esaltazione di quelle figure coinvolte nell’Olocausto. In nessun altro paese dell’Europa orientale c’è una legge simile.
La regione si è impantanata nella politica della memoria, la quale è totalmente orientata all’idea dell’esaltazione e dell’unicità delle proprie sofferenze. In più, ai nuovi membri dell’Unione europea è riuscito in buona parte di far saltare il consenso esistente nella vecchia Europa che riteneva l’Olocausto la fondamentale lezione della politica del XX secolo. Tale pratica non promette niente di buono, ma queste tendenze si vanno solo rafforzando. Penso che le guerre della memoria, la relativizzazione della propria storia, la marginalizzazione delle proprie responsabilità e colpe – sono le tendenze prevalenti nella regione.
Le conseguenze si sono manifestate adesso con l'emergenza profughi in Europa. Solo quei paesi che hanno profondamente introiettato la vecchia cultura europea della memoria, esistente fino all'allargamento dell'UE, hanno avvertito la propria responsabilità, anche se non c'è stato un consenso unanime su questo argomento. Questi paesi ricordano come il fenomeno dei rifugiati non sia una novità, e non possono adottare la posizione «non ci riguarda» come fatto in Europa orientale, dove spesso possiamo sentire tale posizione: «Non è affar nostro, lasciateci stare, noi stessi soffriamo».
Questo non significa che considero pienamente corretta la politica della Merkel riguardo all'emergenza migratoria, ma, insisto, la tendenza a «chiudersi» di fronte a questo problema, mostrata dalla «nuova Europa», è un fatto vergognoso.
L'Unione europea è stata fondata sulla memoria della Seconda guerra mondiale e dell'Olocausto, anche agli alunni negli anni Novanta raccontavano che «l'Europa è ottima cosa, perché vuol dire pace e non ci sarà la guerra» (contemporaneamente però avveniva il conflitto in Jugoslavia). Ma il tema dell'Olocausto è scomodo per i paesi dell'Europa orientale: oltre, ad esempio, il caso lettone, questo fenomeno ora si verifica in Polonia, dove c'è stato il caso del professor Gross. Come si può definire tale situazione, che prospettive si aprono?
Nei paesi della “nuova Europa” dopo l’entrata nell’UE, paradossalmente, è scomparsa la motivazione ad affrontare le pagine oscure del proprio passato. Quando erano alle porte dell'Unione europea, questi paesi si sforzavano di rispondere ai criteri di quella cultura della memoria che vedeva nella memoria dei propri “peccati” una funzione educativa chiave. Ma dopo l'adesione, questi paesi si sono occupati con rinnovata forza a promuovere una narrazione delle proprie vittime, dei propri eroi, spesso coinvolti in crimini di guerra e nell'Olocausto. Provano a riformulare la cultura europea della memoria a seconda dei propri bisogni e delle proprie rappresentazioni. Se questa tattica suscita o meno resistenze all’interno dell’UE – per me è una questione aperta.
In Europa, e in Italia, credo che non si comprenda appieno il significato della public history per lo spazio post-sovietico. Vengono rappresentate due posizioni (semplifico): una pro-russa e una pro-occidentale. La situazione è un po’ più complessa e la “lingua del nazionalismo” non è solo un fenomeno russo, e anche la presentazione di una “idea russa” o di un “mondo russo” monolitico e antagonista rispetto all’Europa e ai paesi dell’Est ha alcune contraddizioni, come dimostra anche la politica delle autorità russe riguardo alla costruzione della memoria. Come può spiegare questi processi?
Il «mondo russo» (Russkij mir) nel discorso europeo di oggi denota tutto ciò che proviene dalla Russia ed è visto come pericoloso e nocivo. Ma nella stessa Russia la concezione di «mondo russo» fino alla crisi del 2014 indicava, prima di tutto, la tendenza a costruire una rete di legami culturali, sociali e d'altro tipo tra quei paesi, dove una parte importante della popolazione è legata alla cultura russa, ma per di più si sottolineava il rispetto della sovranità politica. Dopo la crisi la situazione è cambiata, ma ciò non vuol dire che la comunanza culturale sia andata persa. I divieti di importare libri o film prodotti in Russia, divieti esistenti in Ucraina, non porteranno alla sparizione dello spazio della lingua e cultura russa, che si estende ben oltre i confini della Russia contemporanea.
Per quanto riguarda la politica della memoria in Russia, essa è contraddittoria e spesso è una reazione, e dalla stampa occidentale non si riesce ad averne una adeguata rappresentazione. Spesso in Occidente si scrive della «ristalinizzazione», della riabilitazione dello stalinismo in Russia, ma non si scrive che nel paese esistono più di 800 monumenti alle vittime delle repressione, e solo a Mosca negli ultimi 3 anni sono stati aperti due nuovi musei dedicati alle repressioni comuniste.
Gli elementi di scontro con l’Europa sulla politica della memoria si sono rafforzati verso il 2012, quando è diventato chiaro che la Russia era stata “nominata” come l’unica responsabile della Seconda guerra mondiale, assieme alla Germania hitleriana. La comparazione del regime sovietico con il nazismo è ovviamente legittima, ma non è legittimo considerarli uguali.
Quando il Parlamento europeo ha deciso di fissare la giornata della memoria delle vittime dei regimi totalitari il 23 agosto, data della firma del patto Molotov-Ribbentrop, a Mosca molti hanno deciso (secondo me, giustamente) che alla base di tale iniziativa ci fosse la logica della “guerra delle memorie”, tipica dei paesi dell’Europa orientale, e, sottolineiamo, non viene ricordata la responsabilità degli altri regimi autoritari, come quello italiano, ungherese, polacco, slovacco, croato e tanti altri. Nello stesso giorno io dovrei onorare la memoria dei miei parenti ebrei, morti per mano delle SS lettoni in un rogo da loro appiccato nella città di Slonim in Bielorussia, e quelle stesse SS, decedute successivamente nei combattimenti con le truppe sovietiche, e che oggi hanno un monumento a loro dedicato in Lettonia.
La reazione da parte dei vertici politici è seguita a ruota, nel 2009 Putin ha condannato il patto Molotov-Ribbentrop, e si aspettava che i suoi partner europei, nell’ambito di una narrativa collettiva, condannassero il patto di Monaco, ma invece ha ricevuto come risposta la giornata delle vittime dei regimi totalitari, di cui ho detto poc’anzi.
Il risultato è stato che nel 2014 Putin ha dichiarato che il patto fu un passo giusto e necessario, quando l’Occidente spingeva Hitler verso l’aggressione ad Est. Dal mio punto di vista, questo è stato un errore, ma nella cornice della rottura di un dialogo proficuo tra la Russia e l’UE, e questo si è interrotto già nel 2013, prima della Crimea, tale reazione era attesa.
Non mi aspetto nulla di buono nell’ambito delle politiche della memoria in Europa e riguardo alle relazioni tra UE e Russia nei prossimi tempi. L’atmosfera si caratterizza per essere carica di sospetti reciproci, estraneità e ostilità, è difficile dire quanto a lungo questa tendenza continuerà a essere dominante, ma io sono pessimista a riguardo.