Neige Sinno: figlie nel paese delle tenebre
In un passaggio già molto citato di Triste tigre, recente memoir della francese Neige Sinno (Neri Pozza, traduzione di Luciana Cisbani), che si è aggiudicato di recente il Premio Strega europeo, la scrittrice parla di una sorta di riconoscimento muto che passa tra le persone che sono state vittime di violenze o abusi nell'infanzia: “Mi capita di incontrare persone che sono state o che vanno nel paese delle tenebre. Le riconosco, nei loro occhi c’è qualcosa. Credo che anche loro vedano quel qualcosa in me. È un riconoscimento silenzioso, di cui non si può parlare. Non sapremmo cosa dire. E non ne varrebbe comunque la pena. Cosa ci diremmo se potessimo dirci qualcosa?”.
La questione della violenza sull'infanzia è un dato di cui si parla con più libertà da relativamente poco; incontro abbastanza spesso persone della mia età (40-50 anni) che hanno un vissuto di abusi familiari, e mi dico che la generazione dei nostri genitori ha fatto di certo molta fatica a riconoscere la specificità dell'infanzia e a gestirla, soprattutto da un punto di vista emotivo, ma in molti casi anche a difenderla. Mi pare a volte che esista una società nascosta di danneggiati che si annusano e si riconoscono subito, e che mi fanno pensare al Malte Laurids Brigge di Rilke. Non un reietto in apparenza, non vestito in modo trascurato o sporco, ma uno che veniva comunque riconosciuto a una prima occhiata dalle persone che vivevano ai margini della società, che riconoscevano in lui un'aria di famiglia.
Nonostante la difficoltà dell'operazione – fino a che punto bisogna raccontare? Perché raccontare, quando farlo significa rimettere il mostro al centro della scena, soddisfare il suo bisogno di pubblico? Perché scrivere, se vorrei che questa storia avesse meno lettori possibile? – analizzare l'abuso, il suo linguaggio, i suoi meccanismi, i moventi e le giustificazioni del carnefice rimane assolutamente fondamentale all'interno della pratica della letteratura, non solo per liberarsi di un peso che rimane comunque inscalfibile, o per dare un senso all'esperienza vissuta, che rimane insensata, ma anche per dare un senso all'uso che una scrittrice/uno scrittore fa del linguaggio. È così infatti che comincia la sua ricognizione dell'abuso Neige Sinno: “Perché anche a me, in fondo, sembra più interessante quello che succede nella testa del carnefice”. Nella fattispecie, il carnefice è il suo patrigno, che la violentò dai sette ai quattordici anni circa, e che viene descritto come un uomo di grande energia e vitalità; un seduttore e un manipolatore che dà della storia una versione piuttosto fantasiosa e che anche dopo la denuncia della figliastra rifiuta una vera assunzione di responsabilità.
La famiglia di Neige vive in un villaggio sulle Alpi; i genitori sono un po' dei fricchettoni, contadini di ritorno che decidono di vivere in montagna e comprano un casolare che iniziano a ristrutturare tutto da soli. Mentre il padre è un introverso sognatore, il nuovo compagno della madre è quest'uomo energico che fin dal principio cerca di imporre la sua visione delle cose alla madre di Neige e all'altra figlia. È prepotente, irascibile, e soprattutto non tollera che Neige non voglia averlo come padre.
Nell'attraversare tutti i livelli dell'esperienza Sinno si affida agli strumenti della letteratura, perché è il campo che – di fatto – ha dato senso alla sua esperienza del mondo: “al di fuori dell'arte niente ha senso, tutto è assolutamente crudele e assurdo”. Tuttavia, l'io che scrive conserva un fondamentale dualismo per cui, pur dicendo la verità e tentando di scavare il più possibile a fondo nell'esperienza, resta comunque una narratrice inattendibile e si dichiara coraggiosamente come tale; rimane nell'io che scrive una natura duale erede (figlia?) di quell'adolescente che per far terminare gli stupri disse al patrigno che stava violentando il suo corpo, non la sua persona, probabilmente spaventandolo e facendogli per la prima volta balenare il sospetto di averla danneggiata radicalmente. L'immagine doppia ritorna anche verso la fine del memoir, in un passaggio in cui Sinno evoca, attraverso un riferimento al film Petite Maman di Céline Sciamma, la possibilità che una bambina possa tornare indietro nel tempo e incontrare la propria madre da piccola. Quest'immagine di doppi, di duplicazione delle cose torna anche nel concetto di ripetizione dell'esperienza; questa ripetizione è pressoché quotidiana (l'abusata, dice Sinno, si sveglia ogni mattina pronta a rivivere tutto), e in questo è estremamente interessante capire, entrare in contatto con i modi in cui l'essere umano reagisce al male e cosa accada nella mente di una creatura che ha impattato un'esperienza da cui non era possibile proteggersi.
La ritroviamo anche in questa immagine di doppione: “Tutto quello che ha a che fare con lo stupro accade in una dimensione a sé stante, una dimensione bizzarra, che fisicamente combacia con quella in cui si svolge il resto della vita e vi si sovrappone come un doppione di una chiarezza insopportabile”. In più passaggi Sinno afferma l'impossibilità di staccare l'io del presente dall'io del passato, oppure di separare l'io che scrive dal lei, la bambina che ha subìto. Impossibile, per esempio, separare la ragazza finita sui giornali per un processo di stupro dalla bambina che durante un'escursione finisce in un lago e ha la sensazione di inoltrarsi nel centro della Terra. Sono tutte immagini del trauma, ovviamente, ma sono anche immagini del letterario, se intendiamo la letteratura come una pratica che ha spesso a che vedere con il fondo più oscuro dell'uomo e dell'esperienza del mondo.
Le immagini di Petite Maman evocano da un lato l'immaginazione di cosa voglia dire un'infanzia protetta, dall'altro evocano ancora altre questioni, tipo se sia possibile preservare la figlia dall'esperienza del male. L'idea che Sinno ha della verità possiede quella radicalità che ha la letteratura ben riuscita: “Io preferisco dire la verità. […] A me piace proprio dire la verità anche quando una piccola bugia sarebbe la benvenuta. Io lì ho, come nella possibilità di non ingoiare, la sensazione che questo atto mi costituisca nella mia libertà di scegliere ciò che faccio. Mi è stata imposta la menzogna per molti anni. Non ho avuto scelta. Adesso, anche se a volte le conseguenze sono pesanti e forse non ne vale nemmeno la pena, dico la verità con fermezza e con piacere”.
Mi rendo conto mentre scrivo che vorrei moltissimo essere all'altezza dell'importanza di questo libro, e che forse questa importanza risiede semplicemente nell'immergersi con la stessa intensità, spericolatezza e intelligenza delle cose sia nella questione di cosa accade nella mente del carnefice che di cosa accade alle menti, ai corpi e alle vite delle vittime. Mentre scrivo si discute ancora di un articolo di Andrea Robin Skinner, figlia del premio Nobel Alice Munro, in cui confessa al pubblico gli abusi sessuali del patrigno. Questi abusi sono stati ammessi dal patrigno stesso e, secondo le parole della figlia, Munro avrebbe reagito manifestando incredulità, “enfatizzando l'idea che a essere tradita fosse stata lei”, e decidendo infine di rimanere con il marito. Un'amica mi ha fatto notare come le discussioni di questi giorni siano tutte centrate sulla dicotomia personale/letterario. Io le dico: Beh, è importante stabilire un confine tra i due, ribadire che c'è un'importante differenza tra l'io che scrive e l'io che vive, e poi a vent'anni abbiamo letto tutti Contro Sainte-Beuve, ma mentre parliamo mi rendo conto che rimane fuori dell'altro, molto altro. Leggo l'articolo di Andrea Robin Skinner, guardo le sue immagini, e in effetti dalle cose anche molto intelligenti che leggo online è come se il suo nome e la sua faccia fossero un po' messi ai margini. Messi ai margini per dire cose intelligenti sulla letteratura. Per dire, per esempio, una cosa su cui mi trovo molto d'accordo, detta in modi diversi sia da Letizia Pezzali che da Rosella Postorino, ovvero che al di là di Sainte Beuve, quando ci immergiamo nella letteratura che amiamo vediamo una capacità di insight che non ci autorizza a ritenere che l'autore/l'autrice sia una brava persona. Di più: è forse grazie al fatto che ha fatto l'esperienza del male che è in grado di parlarne al lettore fino a renderla vivida, talmente vivida da aiutarlo perfino a riconoscerla e ad affrontarla (ma non è certo la sua missione).
Il punto è, mi rendo conto passando da Neige Sinno all'articolo di Skinner, che chi scrive un articolo o un memoir sulla sua esperienza non ha bisogno di attraversare la questione della punizione o della giustizia, perché spesso l'ha già fatto. Ha bisogno sostanzialmente di essere vista/o, e che la sua sofferenza sia riconosciuta da tutti, specialmente se chi doveva vederla e proteggerla non l'ha fatto. Ha bisogno di attestare la sua presenza e il bisogno assoluto che anche la sua versione venga detta, perciò ogni tanto diciamo anche il suo nome, invece di chiamarla “la figlia di Munro”: Andrea Robin Skinner, di cui Alice Munro non ha mai raccontato la storia.